DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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LE BAMBINE CHE COSTANO TROPPO. In India sono avvenuti circa 12 milioni di aborti femminili negli ultimi trent'anni, di cui la metà solo nell'ultimo decennio








il matrimonio di nostra figlia, in futuro avremo bisogno di centomila rupie (circa 1.300 euro). Se non riesci a ottenere questa cifra da tua madre, allora bisogna ucciderla. Subito".
Umar Farook e Reshma Bano, 19 anni, sono una coppia indiana. Ad aprile del 2012 hanno dato alla luce una bambina, Neha. Per Umar, però, si è trattato di un incidente.
Per le famiglie indiano meno ricche, dover dare in dote soldi e gioielli ai parenti dello sposo per permettere il matrimonio della figlia risulta spesso sconveniente. Anche se la legge indiana ha vietato la pratica nel 1961, è ancora molto diffusa.
"Nostro figlio doveva nascere maschio. Perché hai dato alla luce una femmina?", ha chiesto disperatamente Umar a sua moglie Rashma dopo la nascita della bambina, ritenendola colpevole di aver dato alla luce una figlia.
Rashma non ha mai avuto intenzione di uccidere la bambina messa al mondo e credeva che suo marito avrebbe cambiato una volta presa in braccio sua figlia. Ma Umar è rimasto convinto della sua opinione: lui voleva un uomo, un erede.
Tre mesi dopo, nel giugno del 2012, Neha è morta di arresto cardiaco. "Stavo dormendo”, racconta Reshma alla Cnn. “Non mi sono accorta di nulla. Mio marito Umar ha preso la nostra bambina, le ha messo un calzino in bocca e poi ha iniziato a riempirla di botte. Quando mi sono svegliata, l'ho trovata ricoperta di lividi, morsi e bruciature di sigaretta”.
Oggi Umar Farook è in arresto con l'accusa di aver picchiato a morte la bambina. Secondo le autorità, avrebbe confessato l'omicidio.
Quello di Neha non è un caso isolato in India. Secondo dottori ed esperti, la nascita di una femmina è vista come un pericolo nel Paese. Un figlio maschio invece è considerato come un investimento, dal momento che porta avanti il nome di famiglia e si occupa del sostentamento.
Nel giugno 2013 un uomo residente nel distretto di Dharmapuri, nel sud dell'India, è stato arrestato con l'accusa di aver fatto bere a sua figlia di 22 giorni del latte avvelenato e di avere seppellito il corpo in un fosso. L'infanticidio delle neonate è molto diffuso nel Paese e sebbene non ci siano dati ufficiali riguardo il numero di bambine uccise, gli attivisti sostengono che almeno due casi di questo tipo vengano riportati alle autorità ogni mese. 
Alcune comunità indiane vivono in situazioni di estrema povertà e non si possono permettere il test degli ultrasuoni per rivelare il sesso del nascituro. Per questa ragione ricorrono spesso all'infanticidio. Le famiglie più abbienti, invece, cercano di liberarsi delle figlie ancor prima che nascano, con aborti selettivi in base al sesso. 
Un rapporto dell’Onu, intitolato Sex Ratios and Gender Biased Sex Selection, denuncia il fenomeno degli aborti femminili in India. L’analisi, che si fonda sui dati forniti dall’ultimo censimento generale del 2011, mette in evidenza il forte squilibrio numerico tra maschi e femmine nel Paese. Si stima che ogni 1.000 maschi, nel 1961 si contavano 941 femmine, mentre nel 2011 solo 933. Tra i 0 e i 6 anni invece, nel 1961 c’erano 976 bambine ogni 1.000 maschi. Nel 2011 solo 927.
Uno studio effettuato nel maggio 2011 dalla rivista medica britannica Lancet ha rilevato che sono avvenuti fino a 12 milioni di aborti di sesso femminile negli ultimi trent'anni in India, di cui la metà solo nell'ultimo decennio. “La parità di genere è una delle sfide più pressanti per lo sviluppo del Paese”, afferma Lise Grande, coordinatrice per delle Nazioni Unite in India.
“È tragicamente ironico che le donne, esseri in grado di creare la vita, vengano private del diritto di nascere. La forte differenza tra maschi e femmine in India ha ormai raggiunto livelli d’emergenza. È quindi necessario provvedere a delle misure di emergenza per alleviare questa crisi”, dice Lakshmi Puri, vicedirettore esecutivo di UN Women.
Seema Sirohi, giornalista indiana, in un articolo per The Christian Science Monitor, ha scritto: “Chi sostiene che le donne indiane siano libere di scegliere di abortire se sono in attesa di una femmina, sbaglia. Una tipica donna indiana ha poca o nessuna libertà di scelta. Per essere veramente accettata deve dare alla luce un figlio maschio. Pensare che una donna abbia il possesso del proprio corpo è un concetto estraneo in India”.
Nonostante il governo indiano abbia emanato leggi che proibiscano ai medici di dichiarare alla future madri il sesso del nascituro in modo da limitare l'infanticidio femminile, la pratica dell'aborto illegale è tutt'ora molto praticata.
Un altro tentativo da parte delle istituzioni indiane per limitare l’infanticidio e l’aborto selettivo è stato quello di creare orfanatrofi per accogliere le bambine rifiutate. Queste strutture dispongono di ceste in vimini dove lasciare le neonate indesiderate.
A Salem, una regione del Tamil Nadu, nel sud dell’India, c’è un orfanatrofio, il Life Line Trust, che permette alle madri di abbandonare in completo anonimato le bambine che poi verranno date in adozione. Tuttavia, alcuni attivisti dei diritti umani fanno notare che l’iniziativa non affronta le cause profonde dell’infanticidio femminile, ma anzi incoraggia ad abbandonare le bambine, permettendo ai genitori di delegare la responsabilità delle loro figlie allo stato.

L’India sotto la minaccia dell’estremismo islamico

di Nirmala Carvalho
Religiosi, giornalisti ed esperti concordano: il caso del professore cattolico cui è stata mozzata la mano per una presunta “blasfemia” dimostra che il fondamentalismo è in piena crescita, in tutta l’Unione.

Mumbai (AsiaNews) – Nello Stato indiano del Kerala (e più in generale in tutta l’Unione) “si sta verificando una crescita acuta del fondamentalismo, che riguarda ogni religione. Di conseguenza le varie fedi tendono a raggrupparsi in comunità ‘chiuse’, senza più aprirsi all’altro”. È l’opinione di padre Paul Thelakat, portavoce della comunità cattolica dei siro-malabaresi, che adAsiaNews spiega: “L’attacco al professor Joseph è un esempio di fondamentalismo islamico. Ma esiste anche un fondamentalismo hindutva e uno di matrice cristiano-pentecostale”.

Il riferimento del sacerdote è al caso del professor T J Joseph. Questi, all’epoca dei fatti capo del Dipartimento di Malayalam, aveva presentato a marzo un questionario per gli esami nel college, ma alcuni musulmani lo hanno accusato di avere inserito domande offensive verso Maometto.

Egli ha allora spiegato che il testo non intendeva esserlo e ha anche presentato pubbliche scuse alla popolazione, alla direzione del college, alle autorità della Chiesa (il college è guidato da cattolici) e al Dipartimento di polizia. Ma il 4 luglio ignoti attivisti del Fronte popolare di India lo hanno aggredito e gli hanno tagliato la mano e parte del braccio.

Il primo settembre il collegio cattolico dove lavorava, il “Cardinal Newman” lo ha licenziato per avere offeso i sentimenti religiosi della popolazione, scelta giustificata con la necessità di salvaguardare il carattere laico dell’Istituto. Il 12 settembre, inoltre, viene letta nelle 120 parrocchie della diocesi di Kothamangalam, nel distretto di Ernakulam, una lettera pastorale che condanna “l’iresponsabile azione del professor Joseph” e si schiera a favore dell’istituto che lo ha licenziato.

Syed Ali Mujtaba, giornalista indiano e fondatore del South Asia Contact Group, spiega ad AsiaNews che “l’estremismo islamico sta crescendo, e il caso del docente lo dimostra. Chi ha agito in questo modo ha cercato di rendere il caso un pretesto per nuove violenze religiose”.

Sajan K Gorge, presidente del Consiglio globale dei cristiani indiani, conclude: “L’aumento delle violenze interreligiose è accompagnato dall’assordante silenzio del governo. Si tratta di una minaccia al secolarismo indiano. Speriamo che, presto, arrivi un giorno in cui questa violenza sia solo un ricordo”.

INDIA: EL OBISPO DE ORISSA DENUNCIA CONVERSIONES FORZADAS En decenas de aldeas, los católicos son obligados a pasarse al hinduísmo

BHUBANESHWAR, miércoles 15 de septiembre de 2010 (ZENIT.org).- En el estado oriental de Orissa, India, siguen dándose numerosos casos de conversiones forzadas de los católicos al hinduísmo, según denunció el arzobispo de Cuttack al entrevistarse este martes con Naveen Pattnaik, primer ministro de la región.

Monseñor Raphael Cheenath, arzobispo de Cuttack-Bhubaneshwar, subrayó que en más de diez aldeas del distrito de Kandhamal, escenarios de violencia contra los cristianos en 2008, estos son obligados a convertirse para poder conservar sus casas, según informaba este martes AsiaNews. En otras 27 aldeas, los prófugos a causa de la violencia anticristiana se ven obligados a vivir en alojamientos improvisados, subrayó el prelado.

“Estos hechos –afirmó monseñor Cheenath- violan la ley de libertad religiosa que el gobierno de Orissa prometió aplicar con vigor. El estado se define laico y no debería cerrar los ojos frente a esta violencia”.

El obispo de Cuttack subrayó que los prófugos tienen derecho a regresar a sus propias aldeas y el gobierno local debe garantizarles condiciones adecuadas de seguridad.

Durante el encuentro con el primer ministro, monseñor Cheenath denunció también los escasos resarcimientos obtenidos por las víctimas para reconstruir sus casas y la imposibilidad para muchos cristianos de recuperar su propia tierra.

Mientras el gobierno local ha destinado fondos para cuatro mil viviendas dañadas, según datos de la Iglesia y de ONG serían siete mil las casas a reconstruir.

El ministro Pattnaik prometió verificar el informe del arzobispo y se dijo dispuesto a revisar los datos sobre compensaciones y sobre el número de casas dañadas.

Entre diciembre de 2007 y agosto de 2008, en el distrito de Kandhamal, los extremistas hindúes asesinaron a 93 personas y quemaron y saquearon más de 6.500 casas, destruyeron más de 350 iglesias y 45 escuelas.

Debido a la persecución, más de 50.000 personas huyeron al bosque. En septiembre de 2009, el gobierno cerró los campos de prófugos para transmitir sensación de normalidad. Pero, una vez retornadas a sus aldeas, centenares de familias han sido obligadas a refugiarse de nuevo en el bosque debido al ostracismo con que han sido condenadas por la comunidad hindú. Hasta ahora, gran parte de los autores de estos crímenes están en libertad y quienes debían testificar en el tribunal de Kandhamal han sido obligados a callar con amenazas y discriminación.

India, control de los nacimientos y drama de las chicas

En todo el subcontinente indiano es dramático el número de infanticidios de recién nacidas. Ahora tal número incluso es salpicado, porque con el diagnóstico prenatal se puede conocer en antelación el sexo del concebido, con empinamiento de los abortos selectivos. Y el gobierno indiano se encuentra con 10 millones de machos en excedencia. El problema, también en Bangladesh, es la dote: las familias se endeudan y muchas acaban en miseria. Las mujeres cuyos padres no logran soldar la deuda de las dotas, son maltratadas, a veces matadas o desfiguradas con el ácido. También en la famosa película "La ciudad de la alegría", (llevada por un dichoso bestseller), un pobretón se ve que, con el agua hasta el pecho, tira el risciò para dotar a las hijas.

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India, controllo delle nascite e problemi con la dote

In tutto il subcontinente indiano è drammatico il numero di infanticidi di neonate. Ora tale numero è pure schizzato, perché con la diagnosi prenatale si può conoscere in anticipo il sesso del nascituro, con impennata degli aborti selettivi. E il governo indiano si ritrova con 10 milioni di maschi in eccedenza. Il problema (anche nel Bangladesh) è la dote: le famiglie si indebitano e molte finiscono in miseria. Le mogli i cui genitori non riescono a saldare il debito dotale vengono maltrattate, talvolta uccise o sfigurate con l’acido. Anche nel famoso film “La città della gioia” (tratto da un fortunato bestseller) si vede un poveraccio che, con l’acqua fino al petto, tira il risciò per dotare le figlie.

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Emancipate ma sole. Le occidentali viste dalle indiane (e viceversa)

Roma. Sole, affannate, sopraffatte dall’emancipazione.
Per nulla invidiate, semmai
compatite. Sono così le donne occidentali
agli occhi di molte orientali, a voler
dar retta ad alcune tra le più importanti
scrittrici indiane che, tra oggi e domani,
partecipano al Salone del libro di Torino,
dove l’India è ospite d’onore. Intervistata
da Cristina Taglietti sul Corriere della Sera
di martedì scorso, la quarantenne Kiran
Desai, figlia della grande scrittrice indiana
Anita Desai e vincitrice del Booker
Prize con “Eredi della sconfitta”
(Adelphi), ha parlato addirittura di “grande
pena” per donne dalle “vite familiari
distrutte”, che “viaggiano in posti lontani
per cercare l’amore, adottare figli, trovare
badanti che si occupino dei loro vecchi”.
Donne sole, sempre sole. Che da sole si
trovano un lavoro, un marito, una casa, da
sole pagano le tasse, cucinano, puliscono,
da sole vanno al cinema, in vacanza, dal
medico, al ristorante, da sole “uccidono i
topi di New York”. Per questo, Kiran Desai
nel suo prossimo romanzo parlerà della
paura che il sogno della modernità si
trasformi in incubo, soprattutto per le giovani
donne indiane: “A volte questa libertà
tanto inseguita sembra essere esattamente
il contrario e il desiderio di avvicinarsi
a uno stile di vita occidentale sembra
di fatto soltanto un avvicinarsi alla solitudine
occidentale”.
E’, questo di Desai, solo un punto di vista
da cosmopolita privilegiata, studi a
Cambridge e sempre in movimento tra
New York, dove vive con il fidanzato
Orhan Pamuk, Nobel per la Letteratura,
Londra e Nuova Delhi? Eppure, anche la
sua conterranea Anita Nair, scrittrice di
successo nata a Bangalore, dove tuttora vive,
legge la stessa condanna alla solitudine
nella vita delle occidentali. La attribuisce
alla difficoltà di “trovare un equilibrio
tra essere una persona indipendente ed
essere una donna”, mentre “dalle ‘sorelle’
indiane voi potreste imparare che per
quanto ci si possa scrollare di dosso le norme
e i limiti di un’impostazione patriarcale,
bisogna comunque accettare il fatto che
donne e uomini sono diversi”.
Nel suo ultimo libro (“L’arte di dimenticare”,
Guanda) Anita Nair racconta l’India
contemporanea attraverso le vicende di
Mira, una donna che si trova a ripensare e
riorganizzare la propria vita dopo la fine
del matrimonio. Tema globalizzato (e strapazzato)
quant’altri mai, che nel bel libro
di Nair è il pretesto per dipingere il paese
delle mescolanze e delle contraddizioni,
dove le donne occupano molte posizioni
fondamentali nella vita politica ed economica,
ma dove la tecnica è messa al servizio
degli aborti selettivi delle bambine,
eterne indesiderabili. E dove moltissime
donne vivono tuttora in condizioni di atroce
soggezione. Lo testimonia la vicenda di
un’altra ospite al Salone del libro, Sampat
Pal. Nel libro “Con il sari rosa” (Piemme),
racconta la sua vita di intoccabile nell’Uttar
Pradesh, di come la famiglia l’abbia
data in sposa, bambina analfabeta dodicenne,
a un uomo molto più anziano. E di
come, dopo essere stata ripudiata, ha creato
un movimento per la difesa dei diritti
fondamentali delle donne e dei bambini,
la “Banda rosa”.
Se però deve dare un consiglio alle “sorelle
d’occidente”, Anita Nair non se la
prende con la tradizione: “Una delle cose
che più aiutano la donna indiana a combattere
nella vita – dice al Foglio – è la rete
di sostegno offerta dalla famiglia. Tendiamo
a non risparmiare sforzi per mantenere
vivi i legami familiari, anche se a volte
può sembrare che non siano un bene
per noi o che lascino spazio a intromissioni.
Quando siamo colpiti dalle difficoltà o
dalla solitudine, sono quelle stesse persone
che ci danno conforto. Forse sarebbe
una buona idea, per le occidentali, trarne
la lezione che bisogna lavorare per rinnovare
e tener vivi i legami”.
La storica Lucetta Scaraffia considera
la tesi con interesse: “Le donne occidentali
hanno conosciuto le costrizioni della famiglia
e le hanno combattute. Da lì, l’idea
che nella libertà individuale ci sia il luogo
della felicità. Le indiane, che arrivano più
tardi, hanno l’opportunità di vedere anche
certi effetti indesiderati. Mi ha colpito, per
esempio, in molti recenti film indiani, anche
diretti da donne, una sorta di riabilitazione
nostalgica del matrimonio combinato”.
“Ma le cose da noi sono andate un
po’ diversamente – dice la femminista Letizia
Paolozzi, animatrice del sito donnealtri.
it – perché qui abbiamo vissuto il patriarcato
ma anche la sua fine. Trovo un
tantino sprezzante, questa immagine di
donne occidentali sole e desolate, che rinunciano
a tutto per non voler rinunciare
a niente, e un po’ tagliata con l’accetta
quella che ci vedrebbe noncuranti rispetto
ai legami in nome della libertà. E’ vero,
invece, che le donne vogliono tutto: vogliono
i figli, vogliono i legami, e vogliono anche
lavorare. Nella famiglia la donna ha
semmai più ruolo di prima”.

Nicoletta Tiliacos

© Copyright Il Foglio 14 maggio 2010

India, tanta fede ma... Gli indù non conoscono l’ateismo, ammirano il Vangelo, elogiano Madre Teresa e i cattolici però i convertiti sono pochissimi.

di Piero Gheddo
Nei miei studi e letture e nei miei viaggi mi ha sempre appassionato l’India e an­che l’induismo, per un preciso motivo: penso che il popolo india­no, la cultura e la religione dell’In­dia abbiano conservato un profondo spirito religioso, un ri­chiamo a Dio costante nella vita, che noi in Occidente abbiamo per­so. La nostra cultura moderna è bacata dall’ateismo (illuminismo, idealismo, liberalismo, marxismo, socialismo, comunismo, nazismo). Nella cultura indiana l’ateismo non esiste. Di più, il rinnovamento dell’induismo nei tempi moderni (dalla seconda metà del 1800) ha avvicinato molto la religione e la cultura indiana a Cristo. Leggendo testi di Ramakrishna, Vivekananda e Gandhi mi sono chiesto: perché gli indù non si convertono a Cri­sto, quando ammirano il Vangelo e le Beatitudini e ammettono che sono una risposta molto precisa e vera ai problemi dell’uomo? Non parlo di masse di popolo, ma di in­tellettuali, filosofi, uomini religiosi che riflettono e vedono, non solo nei testi cristiani, ma nella Chiesa e nelle comunità cristiane, la testi­monianza molto concreta del fatto che dalla fede in Cristo viene un autentico umanesimo?
Parlo con un giovane confratello del Pime, padre Lokhande Rupak Yashwant, ora a Roma per studi di specializ­zazione in un’università ecclesia­stica: gli indù ammirano i cristiani; ma perché non si convertono a Cristo? «Il popolo cristiano – ri­sponde il sacerdote – dà in India una bella testimonianza di amore, di pace, di impegno per lo svilup­po. Molti indiani ci ammirano, Madre Teresa è l’icona del cristia­nesimo, ammirata, amata e vene­rata da tutti.
Gli ostacoli per la conversione a Cristo sono tre: an­zitutto l’induismo è panteismo e dunque è molto facile venerare Gesù come un profeta, una delle tante manifestazioni di Dio che ha anche la storia dell’India. L’indui­smo ingloba tutto e inserisce Cri­sto e i suoi valori nel proprio pantheon. La Chiesa cattolica e le Chiese cristiane sono ammirate per il contributo che hanno dato e danno all’istruzione, alla sanità, al­l’assistenza sociale dei poveri, ma il popolo indù non capisce perché ci sono degli enti religiosi staccati dalla tradizione indiana. Tutte le religioni sono vie diverse che por­tano allo stesso Dio; perché divi­derci e combatterci se abbiamo la stessa meta?».
Ma ci sono anche altri motivi, secondo il confratello: «I partiti indù estremisti, che stru­mentalizzano a scopo politico lo spirito religioso del popolo, hanno creato lo stereotipo che il vero in­diano è solo chi è indù. Gli altri so­no stranieri, non rappresentano l’identità profonda dell’India. Chi si converte al cristianesimo non è visto bene, è un traditore della pa­tria; questo pensa anche il popolo più semplice».
Ma il terzo motivo è forse il più difficile da spiegare e da capire, per chi non è indiano: «Quando si parla di fede e di ragio­ne, come spesso fa Benedetto XVI, l’India pensa che la ragione può arrivare fino a un certo punto, ma la religione supera tutto, perché Dio Creatore e Giudice è infinita­mente più grande dell’uomo. La cultura indiana, l’induismo hanno grandi filosofi, tutti con profonda fede religiosa, ma non mettono as­sieme o in contraddizione fede e ragione. Sono due livelli diversi».
Ma a livello pratico che conse­guenze ha questa visione? «La so­cietà indiana è divisa in varie caste. Si nasce in una casta superiore o inferiore (o tra i fuori casta, i pa­ria) perché nella vita precedente si è avuto un karma positivo o nega­tivo, si è compiuto il bene oppure il male. In questa vita si deve fare il bene e anche soffrire per meritarsi un karma migliore e poter rinasce­re in una casta superiore o almeno non più tra i fuori casta». Inter­rompo: ma la Costituzione indiana non ha abolito le caste? «Sì, ma a livello popolare l’indiano comune non la pensa così. Mi spiego. L’in­duismo ha avuto nell’ultimo seco­lo un rinnovamento molto forte, sotto l’influsso delle missioni cri­stiane e della colonizzazione ingle­se, ed ha affermato la dignità e l’e­guaglianza di tutti gli uomini, su­perando praticamente le caste. Ma questo progresso dalle élites non è arrivato a livello popolare. Il paria ancora non può entrare nel tem­pio, non può attingere acqua dal pozzo del villaggio, ma soprattutto è bene per lui essere servo, povero, umiliato perché questo è il suo karma: soffre per arrivare al livello degli altri». Insomma, la grande spiritualità indiana è in un certo senso responsabile dei suoi pro­blemi sociali... «L’induismo non conosce l’idea di incarnazione, dunque di un Dio che è uomo nel­lo stesso tempo, un Dio vicino al­l’uomo perché è Padre... Non un ente misterioso e lontanissimo, in­conoscibile e incomprensibile, ma amore. In Occidente la fede è mi­nacciata dalla ragione; l’India non ha questo problema, crede profondamente in Dio: però non lo conosce. O meglio: il Dio degli indiani è talmente lontano e abis­salmente diverso dalla ragione u­mana, che essa non può arrivare a conoscere nulla di lui». Questo spiega anche la difficoltà del dialo­go fra cristiani e non cristiani... «In Occidente non si capisce questa radicale e inconciliabile diversità fra cristianesimo e induismo, ma noi cattolici indiani ringraziamo o­gni giorno di avere la fede in Cri­sto. Per questo sono contrario ad un certo tipo di 'inculturazione' che legge nella Messa i testi sacri dell’induismo o ripete nella litur­gia gesti e riti troppo strettamente congiunti con le celebrazioni indù: i cristiani indiani vogliono piutto­sto staccarsi dall’induismo. Il Pa­pa, insistendo sul rapporto tra fe­de e ragione, porta Dio vicino al­l’uomo in Cristo; quando si capirà bene il valore di questo discorso, con tutte le conseguenze, sarà molto più facile il dialogo con in­duismo, islam e buddhismo, e an­che l’avvicinamento del mondo indù a Cristo». Tuttavia, nella vita di tutti i giorni, non è possibile che gli indù non vedano come i cristia­ni – oltre a creare molte opere di carità e di educazione per tutti – hanno saputo elevare i paria, i tri­bali, le basse caste, cioè decine e decine di milioni di indiani, e non capiscano che nel mondo moder­no il Vangelo è una formula per portare la società indiana a svilup­parsi in modo armonico, senza più le divisioni delle caste. Tanto più che la loro Costituzione, come le leggi varate dal Parlamento, hanno recepito tra i compiti di uno Stato moderno rendere la società meno ingiusta, elevare i poveri, equili­brare le classi sociali con meno in­giustizie e con la promozione degli ultimi... Come fanno gli indiani a sanare questa contraddizione? Il mio confratello spiega paziente­mente: «Secondo l’indiano del po­polo non c’è contraddizione. Lo Stato fa il suo dovere e promuove il welfare secondo la Costituzione e le leggi, ma – siccome la ragione non c’entra con la fede – non c’è problema se l’induismo dice un’al­tra cosa. D’altra parte la religione è una credenza tradizionale identi­taria, un sentimento che rende le­gati alla patria e fieri di un Paese dalla civiltà millenaria, dunque non si deve abbandonare anzi va fortificato... Ripeto: quando l’India discuterà e capirà a fondo il di­scorso di Papa Benedetto sulla ra­gionevolezza della fede cristiana, a vantaggio dell’uomo e della so­cietà, allora l’India si avvicinerà ancor più a Cristo».

«Avvenire» del 13 maggio 2010

Paradossi indiani: più cellulari che servizi igienici

L’India possiede più telefoni cellulari che servizi igienici: è uno dei paradossi messi in risalto da un recente rapporto dell’Onu stilato da Zafar Adeel, direttore dell’Istituto per l’acqua dell’United Nations University.

Poco meno della metà del miliardo e 20 milioni di abitanti indiani possiedono un telefono mobile, mentre una cifra più bassa della popolazione non dispone di un servizio igienico di base.

Circa il 31% degli indiani può accedere a minime misure sanitarie, ma è il numero di cellulari ad essere schizzato alle stelle: se nel 2000 la loro incidenza era dello 0.35 ogni 100 persone, ora si è a 45.

Infatti oggi ci sono 545 milioni di cellulari in servizio nel Paese di Gandhi.


http://www.missionline.org/

Giustizia da elefanti. Quando la natura "sente" puzza di menzogna

Dall’India rimbalza sulla rete la notizia di un comportamento assai anomalo di alcuni branchi di elefanti in Orissa: si tratta di un fenomeno di cui si ignorano, almeno fino ad oggi, le cause naturali, se vi sono. L’Orissa è tristemente nota per le terribili persecuzioni perpetrate due anni dagli indù ai danni delle comunità cristiane. Ricordiamo i fatti: nel luglio 2008, una grave persecuzione scoppiata contro i cristiani nello stato indiano di Orissa nell’India orientale provoca numerosi morti e molti danni. Una suora di 22 anni è stata bruciata viva, quando una folla infuriata ha dato alle fiamme un orfanotrofio nel villaggio di Khuntpali, nel Distretto di Barhgarh. Un’altra suora è stata violentata da una banda di Kandhamal. Molte le chiese attaccate, furono anche incendiate e distrutte non poche case di cristiani. Il risultato finale è stato di più di 500 cristiani uccisi in odio alla Fede, migliaia di feriti e senza tetto, dopo che le loro case furono ridotte in cenere.

Ma ora si viene a conoscenza di un evento strano e drammatico che si è verificato in Orissa portando molte persone a riflettere: negli ultimi mesi, branchi di elefanti selvaggi sono scesi nei villaggi dove vivono alcuni dei peggiori persecutori dei cristiani. In un villaggio dove, nei mesi di luglio e agosto del 2008 i cristiani furono costretti a fuggire per salvarsi la vita, mentre le loro case venivano distrutte dai manifestanti, una mandria di elefanti è arrivata dalla giungla circostante esattamente un anno dopo, nello stesso tempo e nello giorno dell’inizio dell’attacco. In primo luogo hanno attaccato una struttura di proprietà di uno dei principali leader della persecuzione anticristiana. Poi si sono trasferiti in città e hanno distrutto la sua casa e fattoria. Nello stato di Orissa, centinaia di abitanti sono stati costretti a rifugiarsi nei campi profughi dopo ripetuti attacchi delle mandrie. Nelle ultime settimane nel distretto di Kandhamal, sette persone sono state uccise e altre ferite in attacchi da parte di un gruppo di una dozzina di elefanti. Il branco sembra aver percorso circa 300 km per arrivare nel Kandhamal. In un crescendo di audacia, gli elefanti attaccano solo le case dei persecutori, lasciando intatte le case cristiane.

Durante questi strani attacchi gli elefanti hanno distrutto oltre 700 abitazioni in 30 villaggi e ucciso cinque persone. Nessuno nella regione aveva mai visto un branco di elefanti selvaggi come questo. Gli elefanti non si comportano normalmente: sembrano perseguire uno scopo. In genere, gli elefanti più piccoli vanno in avanscoperta: dopo il loro ritorno alla mandria, sono poi più grandi elefanti che si impegnano nel "servizio".

Un missionario in India, ha dichiarato: "Crediamo che questo può avere qualcosa a che fare con la vendetta per il sangue dei martiri. In realtà, il timore di Dio è disceso sulla popolazione locale, che chiama gli elefanti "elefanti cristiani". I funzionari governativi ammettono anche confusione e impotenza di fronte a questi elefanti che hanno distrutto selettivamente coltivazioni e abitazioni.

Una domanda: ci sono elefanti a New York?


fonte: http://catolicidad-catolicidad.blogspot.com/

Sos - Aiuto per i cristiani in India


Fonte: CulturaCattolica.it

sabato 10 aprile 2010

Abbiamo ricevuto e facciamo nostro questo appello
«Per favore pregate per le chiese in India. Gli estremisti Buddisti in India
 hanno bruciato 20 chiese ieri notte. Stanotte hanno un progetto di
 distruggere 200 chiese nella provincia di Olisabang. Stanno progettando di
 uccidere 200 missionari in 24 ore. Al momento, tutti i Cristiani si stanno
 nascondendo nei villaggi. Per favore pregate per loro ed inviate questa mail
 ai cristiani che conoscete. Per favore chiedete a Dio di avere misericordia
 dei nostri fratelli e sorelle in India. Quando ricevete questo messaggio,
 per favore inoltrate questa urgente richiesta di preghiera. Per favore
 pregate per loro e rimettere questo problema nel nostro Onnipotente e
 Vittorioso Signore!!!»
P. Trevor

La sfida India-Cina: corsa per il primato

DI L UCA M IELE
P
er il capo dell’esercito, il generale Deepak Kapoor, l’India è in grado di affrontare u­na «guerra su due fronti». I fronti in que­stione sono il prevedibile Pakistan e, a sorpresa, la Cina. Bharat Verma, il direttore dell’Indian
Defence Review,
prestigiosa rivista militare in­diana, ha “profetizzato” che «la Cina attaccherà l’India entro il 2012». E sulle pagine della stessa rivista, il generale Vinay Shankar ha parlato di comportamenti «arroganti, bellicosi e intimi­datori », tutti da ascrivere a Pechino. Infine, Dorjee Khand, premier dell’Arunachal Pradesh – lo Stato sui cui i due giganti asiatici litigano da decenni – ha detto che «l’India deve prepararsi a difendere militarmente i suoi confini».
Aumenta la competizione

L’India sembra attraversata da una nuova os­sessione: misurarsi – politicamente ma anche militarmente – con la Cina. Il Paese si sta ar­mando sempre più: il budget è cresciuto del 70% in 5 anni, 50 i miliardi spesi per modernizzare l’esercito. E di certo il Paese non accenna a ridi­mensionare le sue ambizioni: lo stanziamento per la Difesa ammonta quest’anno a 30 miliar­di di dollari. New Delhi studia da super-poten­za e c’è un solo Paese asiatico che può ridimen­sionare (se non umiliare) le sue ambizioni: il Dragone. L’Elefante sembra non voler perdere tempo. Secondo il giornale pachistano
The Na­tion,
ha varato un piano quinquennale per blin­dare il confine dell’Arunachal Pradesh. E, come ha rivelato
The Times of India , New Delhi - do­po aver testato con successo i missili balistici A­gni- III - si è detta pronta a sperimentare il suo primo missile intercontinentale entro la fine del­l’anno. L’Agni-V, capace di portare testate nu­cleari, sarà in grado di colpire anche le città più settentrionali della Cina. Il nuovo tassello della “guerra dei cieli” si aggiunge ai programmi già in corso, sistemi difensivi pensati per neutraliz­zare un eventuale attacco cinese.
I motivi della contesa tra i due Paesi sono annosi: Pechino rivendica buona parte dello Stato in­diano dell’Arunachal Pradesh, che i cinesi chia­mano Tibet meridionale. Nel 2009, l’esercito in­diano – come ha riportato
Newsweek in un re­portage intitolato “Le paure dell’India” – ha de­nunciato 270 violazione dei confini da parte del­le forze cinesi. A sua volta, l’India chiede la re- stituzione dell’Aksai Chin, un territorio un tem­po facente parte del Kashmir, che è stato in par­te conquistato dalla Repubblica popolare nella guerra del 1962, e in parte da essa ceduto dal Pakistan. La ferita della sconfitta militare del ’62 brucia ancora.
Il ruolo di Islamabad e di Colombo

Ma non basta. Ad infiammare le relazioni tra i due Paesi è un terzo incomodo: il Pakistan. New Delhi e Islamabad hanno combattuto due guer­re (più una terza non dichiarata ufficialmente), si confrontano sul Kashmir, rivaleggiano per e­stendere la propria influenza in Afghanistan. I rapporti sono sempre più bellicosi. Dopo un fa­ticoso riavvio dei negoziati, l’attentato di Mum­bai nel 2008 ha spinto i due vicini sull’orlo di un nuovo conflitto. L’India accusa il Pakistan di es­sere il regista segreto degli attacchi terroristici e di foraggiare la galassia del terrore che si muo­ve sul suo territorio. Islamabad, a sua volta, ac­cusa New Delhi di fomentare la guerriglia nel Balucistan. A New Delhi nutrono pochi dubbi sul modo in cui agirebbe la Cina – il grande spon­sor del nucleare pachistano – in caso di un nuo­vo
conflitto con Islamabad. Ma la rivalità tra i due giganti non è limitata al­le questioni aperte del passato. Come sottoli­neano al Centro Studi internazionale (Cesi), «l’O­ceano Indiano è una via di collegamento fon­damentale con enormi implicazioni strategi­che ». Chi mette le mani sulle rotte attraverso le quali transita un terzo del commercio mondia­­le, chi si aggiudica il controllo dei porti guada­gna una posizione di assoluto vantaggio sul­l’avversario. Si spiega così il corteggiamento ci­nese allo Sri Lanka, tradizionalmente vicino al­l’India. La vittoria militare sulle Tigri tamil sa­rebbe stata impensabile se Pechino non fosse in­tervenuta – e massicciamente – a favore di Co­lombo. A New Delhi parlano di una nuova «co­lonizzazione ». La Repubblica popolare è il mag­gior donatore di Colombo, con elargizioni che ammontano a un miliardo di dollari.
La «conquista» del Nepal

L’altra fonte di attrito è il Nepal, il piccolo regno himalayano inca­stonato tra i due giganti. Anche in questo caso la Cina sta erodendo l’influenza indiana, provocando nuovi malumori. Pechino ha a­perto un canale preferenziale con Katmandu, attraverso cui transi­tano soldi, armi, supporti logisti­ci. Lo scopo è potenziare la poli­zia di frontiera nepalese e in que­sto modo “murare” la via di tran­sito che ogni anno consente ai ti­betani di entrare e uscire dal Ti­bet. E i risultati sembrano arriva­re: nel 2008, 3mila tibetani aveva­no attraversato il confine, lo scor­so anno il loro numero è precipi­tato
a 600. In questo complesso gioco tattico decisivo sarà il ruolo dell’Ammi- nistrazione Obama. Come notano dal Centro mi­litare di studi strategici (Cemiss), il presidente U­sa «sta cercando di evitare che l’apertura totale fatta all’India da Bush faccia saltare gli equilibri regionali», e produca una nuova corsa al nucleare. La recente visita del capo della Casa Bianca in Cina ha irritato non poco New Delhi. Primo perché Obama non ha citato l’India tra le po­tenze regionali. E peggio, per­ché ha riconosciuto alla Cina il ruolo di stabilizzatore nella regione, persino per il “ve­spaio” Kashmir. Un’intromis­sione insopportabile per New Delhi, cui il presidente Usa do­vrà rimediare nella missione che lo porterà entro fine anno ad incontrare il premier Singh.
La fine della cooperazione

Infine, c’è la sponda economi­ca. Evaporato il sogno di Cin­dia – il miraggio di un’unione produttiva tra giganti – i due Paesi hanno ripreso a gareg­giare. Per gli esperti dell’Eco­nomist Intelligence Unit (Eiu), l’India nel 2018 sorpasserà la Cina. Per Anjalika Bardalai «New Delhi crescerà a un tas­so dell’8% nei prossimi 5 anni». Una crescita da capogiro che deve essere alimentata: gli analisti calcolano che entro il 2030 i consumi energetici indiani raddoppieranno, schizzando all’equiva­lente di 833 milioni di tonnellate di petrolio. È qui che si gioca l’altra partita: la corsa a saziare la fame di materie prime. Entrambi gli attori pun­tano sul nucleare. La Cina ha annunciato un pia­no per la costruzione di 28 nuovi reattori nucleari entro il 2020, la Russia costruirà 4 impianti in In­dia. New Delhi – che importa il 75% del fabbiso­gno energetico – vuole creare il suo primo fondo sovrano per strappare a Pechino accordi e forni­tori. Secondo il
Financial Times , i gruppi petro­liferi pressano il governo per un miglior utilizzo dei 278 miliardi di dollari di riserve in valuta e­stera del Paese: utilizzarli per competere con la Cina. Secondo l’agenzia Bloomberg , le compa­gnie cinesi l’anno scorso hanno speso la cifra re­cord di 32 miliardi di dollari per acquistare fon­ti energetiche, contro investimenti indiani che non superano i 2,1 miliardi. La sfida – politica, mi­­litare, economica – è più aperta che mai.
Il capo dell’esercito di New Delhi e altre fonti militari parlano apertamente di un possibile conflitto con Pechino Cresce la spesa per la Difesa, mentre si acuiscono le tensioni di frontiera nell’Arunachal Pradesh, lo Stato conteso da anni. E si prepara un missile intercontinentale
Evaporato il sogno di Cindia, il miraggio di un’unione produttiva tra giganti, i due Paesi hanno ripreso a gareggiare. Secondo alcune previsioni, nel 2018 l’economia indiana, grazie a una crescita sostenuta, potrebbe superare quella cinese, oggi più forte. Gara alle fonti energetiche



© Copyright Avvenire 1 aprile 2010

La Chiesa indiana in difesa dei dalit, discriminati e senza diritti

Anche in questo periodo quaresimale i dalit vivono in India una "Via Crucis" senza fine. Oltre 10 mila cosiddetti "fuori casta" cristiani e musulmani si riuniscono oggi a Nuova Delhi per chiedere al governo di moltiplicare i propri sforzi contro le discriminazioni sociali. La scorsa settimana si è tenuta inoltre nello Stato indiano del Tamil Nadu la ‘Lunga Marcia’ di 800 chilometri in favore dei dalit. La manifestazione si è conclusa con l’arresto e il successivo rilascio dei vescovi del Tamil Nadu. Sulla ‘Lunga Marcia’ si sofferma, al microfono di Emer McCarthy, uno degli organizzatori di questa iniziativa, padre Cosmon Arokiaraj, segretario esecutivo della Commissione per le minoranze della Conferenza episcopale indiana (Cbci):

R. – The initiative was taken by…
L’iniziativa è stata presa dalla Commissione per i dalit della Conferenza episcopale cattolica indiana. Ma la Commissione ha organizzato anche l’incontro di tutti i leader del movimento, in particolare dei leader cristiani dei dalit del Tamil Nadu, che hanno creato un’alleanza. Con i leader del movimento hanno inoltre organizzato questa marcia.


D. – Una marcia lunga più di 800 chilometri che ha attraversato lo Stato del Tamil Nadu, con destinazione finale Chennai, capitale del Tamil Nadu. Come è stata vissuta la marcia?


R. – This march, in my opinion, …
Questa marcia, secondo me, in questo periodo quaresimale, è come una Via Crucis, che ha portato nostro Signore Gesù a raggiungere il Golgota. Lui è morto sulla Croce ed è risorto: è un segno di speranza! Questa marcia, perciò, è un segno di speranza, uno dei segni di speranza per i cristiani dalit e i musulmani dalit, che ha avuto il suo culmine il 5 marzo a Chennai, in un grande incontro pubblico, cui hanno partecipato circa 20 mila persone e tutti i vescovi del Tamil Nadu. Era previsto anche un incontro con il primo ministro, che non è stato possibile, perché la polizia ha impedito ai partecipanti alla marcia di entrare in città. I vescovi, però, hanno deciso di entrare comunque per una marcia pacifica. Ma sono stati trattenuti e arrestati. Poi i presuli e altre persone sono state rilasciate e insieme con i leader politici hanno lanciato un appello. Hanno richiesto l'istituzione di una commissione nazionale per le minoranze linguistiche e religiose.


D. – Quindi, la conclusione è stata positiva, con il rilascio dei leader religiosi e l’appello da parte dei leader politici locali alla gente...


R. – Around 7 o’clock in the evening…
Intorno alle 7 di sera, il primo ministro del Tamil Nadu ha incontrato la delegazione dei vescovi ed ha assicurato che le loro richieste saranno presentate al governo centrale.

India: Vescovi arrestati perché a favore dei diritti degli “intoccabili”

La polizia arresta centinaia di persone che partecipavano a una manifestazione


CHENNAI, martedì, 9 marzo 2010 (ZENIT.org).- Tre presuli e numerosi sacerdoti, suore e laici sono stati arrestati, insieme a centinaia di persone, venerdì 5 marzo vicino Chennai per aver partecipato a una manifestazione in difesa dei diritti degli “intoccabili” cristiani.

I presuli arrestati dalla polizia sono l'Arcivescovo di Madras-Mylapore, monsignor Malayappan Chinnappa, S.D.B., l'Arcivescovo di Madurai, monsignor Peter Fernando, e il Vescovo di Chinglepet, monsignor Anthonisamy Neethinathan, secondo quanto rende noto l'agenzia Ucanews.

La polizia indiana li ha trattenuti per quattro ore in occasione di un incontro di migliaia di persone con cui culminava una marcia di 500 chilometri a favore degli “intoccabili”, evento durato quasi un mese e iniziato a Kanyakumari, nel sud del Paese.

La manifestazione aveva l'obiettivo di sensibilizzare la popolazione e le autorità indiane sulla situazione di emarginazione subita dai membri delle caste sociali più basse (in lingua locale “dalit”), in base al sistema tradizionale di divisione della società indiana.

I leader cristiani chiedono al Governo federale e ai Governi statali di mettere in pratica il Rapporto Ranganath Misra per garantire agli “intoccabili” cristiani e musulmani un aiuto per gruppi sociali svantaggiati.

Il presidente del Consiglio dei Vescovi del Tamil Nadu, l'Arcivescovo Chinnappa, ha dichiarato ai mezzi di comunicazione che i “dalit” cristiani e musulmani stanno subendo il ritardo nell'applicazione del Rapporto.

Questo documento della Commissione Mista stabilisce che non includere i cristiani e i musulmani nella lista dei beneficiari degli aiuti rappresenta una discriminazione per motivi religiosi che va contro la Costituzione dell'India.

I “dalit” vivono in sobborghi e possono aspirare solo a lavori faticosi e umili, ma dal 1950 il Governo indiano ha avviato programmi di promozione e inclusione sociale che prevedono vie preferenziali nell'istruzione e nel pubblico impiego per i membri di questa categoria.

Tali programmi, inizialmente rivolti ai “dalit” indù e poi aperti a quelli di religione sikh e ai buddisti, continuano tuttavia a escludere i cristiani e i musulmani, che rappresentano la maggior parte degli “intoccabili”.

India e la Cristianofobia negata

i Maurizio De Santis
Tratto da Giustizia Giusta il 25 febbraio 2010

Ai più ingenui sembrava plausibile che lo stupro di Neelam Paswan, una giovane donna di 28 anni, abitante del povero villaggio di Elha nel Nord-est dell’India, potesse essere uno degli ultimi capolavori della cristianofobia indù. Lo sfregio che gli estremisti indù riservavano alla moglie di un pastore protestante.

Il bollettino, invero, era fermo agli orrori perpetrati nel 2008, contro i cristiani dello Stato di Orissa. In quella occasione, gli estremisti indù giustificarono i numerosi massacri come “doveroso” gesto di vendetta per onorare la memoria di uno dei loro responsabili, malamente accoppato da qualche cristiano stanco delle continue vessazioni.

Un atto che provocò la morte di 110 cristiani e la distruzione presso che completa di almeno 170 chiese e 4. 500 case. Per tacere degli oltre 54. 000 indiani di fede cristiana, letteralmente deportati per meri motivi di sicurezza.

Ma, purtroppo, ogni inguaribile ottimista ha avuto l’onore di essere prontamente smentito dall’impietoso incedere dei fatti reali.

E così ecco servita, quasi a bacchetta, l’ennesimo affronto alla comunità cristiana (che, ricordiamo, è molto più antica della stessa minoranza musulmana, visto che sussistono prove concrete della sua presenza al terzo secolo).

Succede così che, tra i libri destinati ai bambini della Scuola elementare di San Giuseppe (di età tra i 6 ed i 10 anni), compaia un abbecedario edito dalla Skyline Publications, notoriamente finanziata da un gruppo induista (decisamente non candidato al nobel per la pace…). Nel detto abbecedario, accanto ad ogni lettera viene associata un’immagine, per facilitare la costruzione mentale della parola. Ora, sopra la lettera I (associata alla parola “Idolo”), compare l’immagine di un Gesù benedicente, con in mano una birra (si spera fresca) e sigaretta.

Esultanza tra gli indù, lazzi e cacchini dai musulmani, mentre i vescovi indiani, che iniziano l’assemblea della Conferenza Episcopale a Guwahati (India del Nordest), implorano il “dialogo” (parola che dice tutto e niente).

Nel bailamme generale, al solito, l’Unione Europea tace. Manco fosse il Vaticano della Massoneria Unificata.

Moderata soddisfazione tra gli atei nostrani (che, solitamente, atei non sono, semmai semplici anticristiani di stampo vetero-risorgimentale).

Smarrito senso di inadeguatezza tra i pochi attivisti cristiani rimasti.

Illusione (di tutti), che il problema abbia radici squisitamente circoscrivibili al continente indiano.

Ed invece, non è così. La “globalizzazione” non segue solo principi economici.

Già lo scorso 26 gennaio, il presidente B. S. Yeddyurappa, esponente dal BJP, il partito nazionalista indù al governo nello Stato del Karnataka, aveva affermato che queste manifestazioni di comunitarismo offendevano il governo locale.

Prologo niente male da parte di quest’uomo, dal nome impronunciabile. Che, di fatto, ha tirato la volata ai fanatici del Sri Ram Sena (Esercito del Signore Rama'), dedito alla difesa dei valori tradizionali indiani.

Quelli che Mark Twain non mancò di evidenziare in modo graffiante: “L'India ha due milioni di dei, e li adora tutti. Nella religione le altre nazioni sono delle miserabili; l'India è l'unica milionaria”.

E, siccome i cristiani in India sono carne da macello e non certo un pericolo, il munifico SRS ha trovato un buon pretesto fuori dai confini.

Precisamente in Australia. Dove, quasi da due anni, i cittadini indiani sono vittime di aggressioni sempre più frequenti, tanto da compromettere le relazioni diplomatiche tra i due paesi.

Dunque, gli integralisti indù compirebbero legittime rappresaglie, per vendicare le recenti aggressioni, delle quali due mortali, contro la Comunità indiana (70. 000 persone), che lavora o studia in Australia.

Ma se suscita perplessità il razzismo religioso indiano, richiamerei volentieri l’attenzione sulla graduatoria stilata da Portes Ouvertes France, sui peggiori Stati in termini di libertà religiosa, : troveremmo la suddetta India al 26° posto. Preceduta dall’Algeria e seguita (di sette lunghezze) nientemeno che dalla Turchia (che sarebbe quella che dovrebbe entrare in UE).

Con l’inquietante nota di colore delle Maldive, paradiso in predicato di scomparire sotto i flutti dell’acqua alta, dove molti europei migrano per palesar le chiappe chiare.

Bene. Le Maldive, che noi foraggiamo con il turismo spicciolo, sono quinte. Precedute, tra gli Stati boia, solo da insigni benefattori quali Nord-Corea, Iran, Arabia Saudita e Somalia.

Si accettano proposte per il prossimo Nobel.

Quei sacerdoti in India: ecco cos’è dedicarsi agli altri FERDINANDO CAMON

V orrei, ma non ci riuscirò e ne soffro, che questo articolo giungesse fra le mani di quegli indiani che hanno pensato, disegnato e pubblicato prima in Internet, poi in un sillabario per le elementari, e infine su manifesti da esporre per le strade, l’immagine blasfema di Gesù. Altri giornalisti, scrittori, opinionisti stanno commentando la stessa immagine, leggo i loro commenti, sono dotti, obiettivi, inconfutabili.
Parlano della reciproca tolleranza, del rispetto per la religione altrui come pilastro su cui si regge la civiltà di un popolo. Sono reazioni sagge. Ma vorrei aggiungerne un paio, per indicare a quei profanatori due insegnanti elementari, molto amati dai bambini in India.
Cristo oltraggiato, India, scuole elementari, questo è il contesto. Ho amici cristiani che vivono in India e insegnano alle elementari. ' Vivono' è una parola insufficiente: diciamo spendono la vita. Sono due salesiani, uno è un insegnante semplice, l’altro un grande traduttore. Il primo mi raccontava che all’inizio di ogni anno scolastico, davanti alla scuola cattolica ( nella quale non si fa educazione religiosa, la legge non lo
permette, ma si fa scrittura, lettura, storia, geografia, calcolo), c’è la ressa per le iscrizioni: i figli portati dalle madri sono così numerosi, che è impossibile accoglierli tutti. I sacerdoti sono costretti a selezionare.
Hanno scoperto che le madri, perché i figli siano accolti, imbrogliano: dicono che hanno 6 anni anche quando ne hanno 5 o 4. I salesiani mettono questi bambini in fila e li passano in rassegna: ogni bambino è invitato ad alzare il braccio destro, scavalcarsi la testa con la mano, e toccarsi l’orecchio sinistro. Se ci arriva ha 6 anni. Se non ci arriva ne ha meno, e viene rimandato a casa.
Le madri tirano il braccio ai figlioletti per allungarglielo e fargli superare l’esame. La scuola cattolica è contesa, le famiglie sanno che il figlio lì impara il bene. Io conosco uno di questi frati e so una cosa: lui e tutti i suoi fratelli non sarebbero là, se non avessero conosciuto Cristo. Raffigurare Cristo come fanno i profanatori significa non- comprendere quegli insegnanti,
e questo passi, ma anche le famiglie che mandano loro i figli, e le famiglie che vorrebbero mandarglieli e non possono e aspettano l’anno prossimo. Significa non comprendere davvero l’India.
L’altro cristiano che ha sempre fatto l’insegnante elementare è il tradutto­re italiano di Rabindranath Tagore, anche lui salesiano. Dall’India torna a casa una volta all’anno e la sua città lo festeggia organizzando ' la giornata di Tagore'. Viene un sacco di gente, lui legge le ultime traduzioni, qualche scrittore italiano lo presenta, l’ho fat­to anch’io. Adesso ha 85 anni. Cristo è l’intermediario che l’ha convinto a vi­vere in India, e che lo spinge a tradur­re ( etimologicamente: trasportare) il meglio della letteratura indiana qui da noi. Questi due insegnanti ele­mentari danno agli scolaretti indiani tutto il bene che possono, perché so­no cristiani. Cosa gli danno, in cam­bio, i profanatori di Cristo?
Pro bono, malum. Pro maximo bono, maximum malum.


© Copyright Avvenire 24 febbraio 2010

Il racconto del missionario: in India ci difendiamo con la testimonianza


martedì 23 febbraio 2010


Nuovi scontri ieri nella regione del Punjab, in India, tra estremisti indù e cristiani. Il caso è scoppiato in seguito alle proteste della comunità cristiana di Batala, nel distretto di Gurdaspur, che ha chiesto alle autorità di ritirare un libro destinato all’uso scolastico in cui compare un’immagine blasfema, nella quale si vede Gesù Cristo che tiene in mano una sigaretta e una lattina di birra. Gli estremisti indù hanno reagito attaccando i cristiani. Sono dieci i cristiani feriti e due le chiese distrutte. Le autorità hanno condannato l’immagine blasfema e hanno detto di voler ripristinare al più presto l’ordine pubblico. Padre Antonio Grugni, missionario del Pime, medico, è in India da 34 anni. Ha accettato di parlare con ilsussidiario.net di quest’ultimo episodio di cristianofobia, che ripropone il tema della sopravvivenza delle minoranze cristiane nei paesi del Medio e dell’Estremo oriente.

Qual è la sua reazione di fronte a quest’ultimo episodio di persecuzione anticristiana?

Sono addolorato e spero che le violenze abbiano fine presto. Un anno e mezzo fa in Orissa 40 cristiani hanno pagato la fede con la vita. Ma sono anche perplesso, perché qui né i giornali né la televisione hanno parlato dei fatti che lei mi riporta. È una cosa che andrebbe chiarita perché i libri in uso nelle scuole pubbliche sono autorizzati dal governo, ma nessun governo pubblicherebbe immagini che offendono la guida spirituale o il dio di un’altra religione, ben sapendo che questo creerebbe gravi disordini.

Come spiega queste violenze da parte di estremisti indù?

In India tutte le religioni hanno convissuto pacificamente per secoli. Il fenomeno di queste reazioni violente è nato in concomitanza con la diffusione del partito indù del Bjp (Bharatiya Janata party, ndr), di stampo fortemente ideologico. Un movimento di tipo fondamentalista che per avere il potere ha dovuto sobillare i sentimenti religiosi della comunità indù. Agli estremisti del Bjp interessa comparire davanti alla gente come i campioni dell’induismo: vedete? siamo noi a difendere la nostra religione e la nostra cultura.

Normalmente quindi le religioni convivono pacificamente?

Nel sud dell’India, dove io sono da anni e dove il governo locale è in mano al Partito del Congresso, non c’è nessuna tensione o scontro di tipo religioso. Ci sono templi indù, chiese, moschee, e uno prega come vuole. Un partito secolare come il Partito del Congresso sa che l’India è e non può non essere multiculturale, multietnica e multireligiosa. Nella stessa costituzione dell’India è codificato che ogni religione ha il diritto di esistere e di essere praticata.

Se c’è libertà di culto, perché si sta diffondendo una mentalità anticristiana?

L’animo indiano è per natura religioso, la fede nel trascendente è dentro l’animo. Difficile trovare un indiano che dica «io non credo in Dio». Oggi però i problemi vengono insieme dalla politicizzazione e dall’eredità storica. Non dobbiamo dimenticare duecento anni di dominio coloniale inglese. Europei e americani sono considerati cristiani. Noi sappiamo bene quanto questo non sia vero, ma non importa. Chi è bianco è cristiano. Dopo l’indipendenza del ’47 si è affermata la convinzione ideologica, in molti fautori dell’induismo, di dover recuperare l’identità religiosa tradizionale indiana, induista. Compreso chi non ce l’ha: in Orissa c’erano santoni indù che volevano riconvertire i cristiani.

Vien da pensare che valga solo per la religione dominante. E se uno vuol convertirsi ad un’altra religione?

La sola idea di propagandare una religione per convertire è considerata inaccettabile. In questo ha pesato molto - va detto - il proselitismo spinto di parte protestante. Anche i vescovi non pronunciano la parola conversione: predichiamo, viviamo il Vangelo ma senza fare «attività di conversione». In India ci sono leggi anticonversione: uno che voglia convertirsi deve fare una dichiarazione legale al prefetto per attestare che lo fa di spontanea volontà. Ma la parola conversione crea una ribellione immediata.

Sono presi più di mira i protestanti o i cattolici?

Dove vedono una croce e una bibbia gli induisti attaccano. Non conoscono bene la differenza tra un cattolico e un protestante, esattamente come l’opinione pubblica europea non distingue al lato pratico tra musulmani sciiti e sunniti.

Qual è la sua esperienza personale di convivenza e di incontro con i fedeli delle altre religioni?

Sono da 34 anni in India, ho lavorato tra i lebbrosi, i tubercolotici e i sieropositivi nelle baraccopoli di Mumbai di altre città, ma non ho mai avuto problemi di rifiuto e nemmeno sono stato vittima del sospetto di fare conversioni. Anche perché cerco di vivere la mia missione come servizio e come amore verso tutti. In India è questo che conta.

Se il primo sospetto è quello di fare proselitismo, su cosa può basarsi la missione cristiana?

Su un ritorno a Gesù. Occorre abbandonare l’ottica del progetto, della costruzione di un edificio con tutti i crismi istituzionali. Questo approccio blocca anche i rapporti con le persone e finisce per ingessare tutto. Occorre tornare alla modalità dell’incontro, come faceva madre Teresa: un approccio che tocchi di nuovo la vita delle persone. Lei e le sue sorelle erano in giro per le strade, si sono mescolate con la gente. È l’unica personalità cristiana di cui si può parlare pubblicamente come di un grande esempio di fede, senza provocare tensioni. Ha dato se stessa con un amore totalmente gratuito e disinteressato.



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INDIA - I profughi cristiani dell’Orissa, un obbrobrio da nascondere

Bhubaneswar (Agenzia Fides) – Continua l’immane sofferenza dei profughi cristiani dell’Orissa, vittime delle violenze anticristiane verificatesi nell’agosto 2008. Come comunica all’Agenzia Fides, la Chiesa dell’Orissa, i profughi sono stati colpiti e oltraggiati due volte: la prima quando furono cacciati dai lori villaggi per la furia dei gruppi estremisti indù che hanno dato alle fiamme le loro case e rubato loro proprietà; la seconda è avvenuta in questi giorni, in quanto il governo locale dell’Orissa – dopo un lungo tira e molla – ha finalmente autorizzato la visita di una delegazione di rappresentanti dell’Unione Europea (UE) nel noto distretto di Kandhamal, teatro delle violenze anticristiane.
La presenza dei profughi accampati alla meglio per le strade, le loro evidenti condizioni di marginalità e miseria, l’assoluta carenza di ogni assistenza sociale, lo stato di abbandono in cui versano, sarebbero stati segno evidente della responsabilità e indifferenza del governo locale di fronte a questa penosa situazione. I funzionari civili hanno dunque deciso di “ripulire” l’area che sarà visitata dalla delegazione della UE, in arrivo il 4 e 5 febbraio.
E così circa 100 persone di 21 famiglie poverissime, di 11 villaggi cristiani – attualmente sistemati in tendoni di fortuna, dove e faticano a sopravvivere – sono state costrette a lasciare in fretta e furia la cittadina di G Udaigiri, dove si erano stabiliti all’indomani delle violenze.
La Chiesa locale dice a Fides: “Sono persone sull’orlo della disperazione: non possono tornare ai loro villaggi perchè abusivamente occupati da estremisti indù, che continuano a minacciarli; hanno dovuto lasciare all’improvviso i campi profughi, chiusi dal governo; sono rifiutati ed emarginati nei villaggi o nelle città dove cercano riparo e soccorso. Continuano a subire vessazioni, minacce e violenze”. Ora, la loro presenza è sgradita al governo dell’Orissa che alla delegazione della UE intende mostrare solo le case ricostruite, raccontando come l’area di Kandhamal sia tornata alla competa normalità e all’armonia.
“La situazione è molto grave. Abbiamo scritto una lettera alla Commissione Nazionale per le Minoranze, per segnalare questa ulteriore, patente violazione dei diritti di questi profughi cristiani e cittadini indiani”, ha detto all’Agenzia Fides John Dayal, responsabile dell’All India Christian Council, organismo ecumenico che difende i diritti delle minoranze religiose in India. “Al momento non si hanno notizie di dove siano stati trasferiti i rifugiati. Occorre ricordare che oltre la metà delle 5.600 case distrutte o bruciate a Kandhamal sono ancora da ricostruire. Intanto nessuno si preoccupa dell’occupazione di questa gente, primo strumento per una sopravvivenza dignitosa, e dell’istruzione dei loro figli”. (PA)

Due Chiese profanate in India. Mons. Moras: i cristiani fanno del bene al Paese

Nuovi attacchi contro i cristiani nello stato del Karanataka, in India, dove questa notte due chiese sono state danneggiate e profanate. Il primo è avvenuto poco dopo la mezzanotte nel villaggio di Thernamakki. Il secondo, invece, nel villaggio di Inkal, dove è stata profanata la statua della Vergine posta nel sagrato della chiesa della Sacra famiglia, già attaccata da una folla di 70 induisti nel 2002. Si teme la mano dell’estremismo indù. C’è grande preoccupazione nella comunità cristiana. Sulla situazione, Kelsea Brennan-Wessels ha intervistato mons. Bernard Moras, vescovo della dicoesi di Bangalore:

R. – This fundamental group considers ...
Questo gruppo fondamentalista considera i cristiani come stranieri e la religione cattolica una religione straniera; in particolare, pensano che stiamo portando la gente a lasciare la loro religione per la nostra. Pur apprezzando i servizi che rendiamo loro, questi fondamentalisti sono anticristiani. I nostri servizi si sviluppano nel campo dell’educazione, degli aiuti, nel campo del lavoro sociale, del sostegno ai poveri. Alla fine, in realtà, i nostri servizi sono apprezzati a tutti i livelli, sia nel governo sia altrove; ne fanno uso e ne traggono beneficio tutti. Nelle nostre scuole, nei nostri ospedali più dell’80 per cento delle persone che beneficiano di questi servizi sono non-cristiani.

India - «Io, bramino e discepolo di Gandhi, ho abbracciato Cristo “luce che vince le tenebre”».

di Nirmala Carvalho (qui a fianco nella foto con Pandit Dharam Prakash Sharma)

Pandit Dharam Prakash Sharma è figlio di due eroi dell’indipendenza dell’India. All’età di 17 anni legge il Discorso della montagna, che gli fa incontrare Gesù. Dopo 20 anni di ricerca, una carriera nel cinema, negli affari e nella politica, la conversione e il battesimo. Solo Cristo “spezza la catena del peccato e trionfa sulla morte”.


New Delhi (AsiaNews) – Per la prima volta all’età di 17 anni, mentre leggeva il Discorso della montagna di Gesù, ha sentito una voce che gli diceva: “Sono Io, sono Colui che stai cercando sin dall’infanzia”. Queste parole lo hanno accompagnato per più di 20 anni, fino alla conversione al cristianesimo avvenuta nel 1976. La storia di Pandit Dharam Prakash Sharma, un bramino, figlio unico di due eroi dell’indipendenza dell’India, nato in carcere e cresciuto sotto l’ala protettrice del Mahatma Gandhi, è un cammino di fede che lo ha spinto a seguire le orme di Cristo, la “luce” che vince “l’oscurità”, colui che “ci libera dai peccati”.

“In una sera del 1954, quando ero ancora studente – racconta ad AsiaNews – mi sono imbattuto in un testo in lingua inglese che riportava il Discorso della montagna. L’ho letto tutto d’un fiato. Ha ispirato la vita e l’opera di Gandhi e di tutto il movimento per l’indipendenza indiano. È stato un momento memorabile: all’improvviso ho sentito una voce che mi diceva ‘Sono Io, sono Colui che stai cercando sin dall’infanzia’ e il mio cuore ha provato una improvvisa sensazione di pace…”.

Egli racconta di aver letto più volte il Discorso, con una preghiera sulle labbra e la sensazione di una presenza attorno a sé: “Dio, puoi rispondermi – si domandava – Ci sei?”.

Pandit Dharam Prakash Sharma (nella foto con la corrispondente di AsiaNews) è nato il 23 dicembre 1937 nel carcere di Fatehpur, nell’Uttar Pradesh, figlio unico di uno dei più importanti leader religiosi di Pushkar – nel Rajastan – una città santa per gli indù e meta di continui pellegrinaggi. Il padre Pandit Sohan Lal Sharma e la madre, Gyaneshwary Devi, sono due figure di primo piano del movimento di indipendenza e hanno più volte sofferto la prigionia.

All’età di cinque anni è stato accolto nell’ashram di Pavanar, vicino a Nagpur, ed è cresciuto sotto la guida amorevole e attenta del Mahatma Gandhi. Dharam ha intrapreso una brillante carriera cinematografica, poi è passato agli affari, fino alla nomina parlamentare: dal 1969 al 1973 ha ricoperto un seggio nel Rajya Sabha, il Senato indiano. Egli ha rassegnato le dimissioni il 1 gennaio 1977, dopo aver abbracciato il cristianesimo, nonostante le pressioni dell’allora premier Indira Gandhi. Durante gli anni di prigionia l’ex Primo Ministro si rivolse proprio a Dharam, chiedendogli di “pregare Dio” per la sua salvezza.

Il cammino che ha portato Pandit Dharam Prakash Sharma alla conversione, testimonia la ricerca profonda avviata sin dalla prima giovinezza e che solo in età adulta ha trovato pieno compimento. Dopo aver letto il Discorso della montagna di Gesù, egli si è rivolto al suo professore di inglese, che non seppe però soddisfare la sua sete di ricerca. Quindi l’incontro con un sacerdote di origini italiane, che prima di rispondere alle sue domande esigeva la conversione e il battesimo.

Dharam, però, non era ancora pronto ad abbracciare il cristianesimo, perché associava la religione agli invasori inglesi, fonte di sofferenze e dolori per la famiglia. “Odio l’idea di diventare cristiano” affermava deciso, mentre la ricerca di una risposta sull’incontro con Gesù si faceva sempre più forte.

La conversione al cristianesimo arriva molti anni più tardi, nel 1976, mentre si trova in missione diplomatica nel Gujarat. Dharam incontra il cristiano evangelico Bakht Singh – figura conosciuta in tutta l’Asia del Sud – e con lui trascorre otto giorni approfondendo lo studio della Bibbia e delle Sacre Scritture. Il 16 maggio riceve il sacramento del battesimo, portando a compimento il cammino di fede “verso il vero Dio e la sua grazia”.

Una conversione coltivata anche negli anni di matrimonio – Dharam ha sposato una cristiana – e che ha spinto i genitori, in età avanzata, a seguire l’esempio del figlio. Dieci giorni prima di morire il padre, Pandit Sohan Lal Sharma, gli confessa: “Figlio mio per dieci anni ho osservato la tua vita, i cambiamenti e la pace che hai raggiunto. Sei sulla strada giusta. Il tuo Dio è il mio Dio”.

A chi gli chiede come si raggiunge il Moksha, la piena realizzazione spirituale che nella religione indù porta alla liberazione dal ciclo vita/morte, egli risponde: “In un momento in cui tutto era buio, è apparsa una luce argentata nel cielo… e l’Altissimo si è fatto uomo nella persona di Gesù Cristo… per spezzare la catena del peccato e trionfare sulla morte”.

Speranza in Orissa

DI S TEFANO V ECCHIA
F
inalmente un Natale senza violenza, quello appena tra­scorso nello Stato orientale indiano dell’Orissa, il terzo con­secutivo sotto la pressione del fon­damentalismo induista, il primo relativamente tranquillo. Almeno, seppure in aree protette e soven­te lontano dalle loro casa, una ve­nuta del Signore non accompa­gnata da morti e devastazioni.
Le minacce del gruppo M2, affi­liato alla federazione dei movi­menti induisti più radicali, sono risultate priva di fondamento in un territorio fortemente presidia­to dalla polizia, ed è per fortuna caduto nel vuoto l’invito a una ser­rata il 24 e 25 dicembre nel di­stretto del Kandhamal, al centro delle violenze dello scorso anno.
L’M2, sigla relativamente nuova nella galassia radicale, aveva già organizzato con successo due giorni di sciopero ed è esemplare dell’attività di movimenti che, con il pretesto religioso, di fatto si tra­sformano in milizie private. So­vente si pongono al soldo di inte­ressi i quali non tollerano una pre­senza cristiana sui territori che vorrebbero controllare – risorse, terreni e popolazione insieme. E ciò facendo leva su antichi privi­legi di casta e sull’appoggio poli­tico di partiti a loro volta espres­sione di movimenti da tempo fuo­rilegge o al limite della legalità per la loro propaganda violenta e xe­nofoba.
Se un segnale positivo doveva es­servi, è arrivato a pochi giorni dal Natale. « L’arresto nel distretto di Kandhamal di Gururam Patra, se­gretario generale del Bharatiya Ja­nata Party ( Bjp), ritenuto corre­sponsabile delle violenze peggio­ri, ha messo in subbuglio gli am­bienti radicali, ma anche acceso la speranza nei cristiani » , dice Au­gustine Singh, consulente delle vittime della violenza.
« Quest’anno abbiamo avuto cele­brazioni in tutte le 14 parrocchie del Kandhamal, salvo una – spie­ga padre Mritunjay Digal, sacer­dote dell’arcidiocesi di Cuttack­Bhubaneswar –. Una situazione assai migliore rispetto a un anno fa, e questo nonostante le minac­ce
» . Padre Manoj Nayak coordina il programma di assistenza ai pro­fughi dell’arcidiocesi e proviene dallo stesso villaggio dove un altro sacerdote, padre Bernard Digal, venne massacrato con altri sette cristiani e anche suo padre ha ri­schiato di essere trucidato. Rien­trato al villaggio in occasione del Natale, ha potuto verificare di per­sona i piccoli segnali di pace e di riconciliazione che vanno facen­dosi strada nella paura. Nei centri maggiori, dove la ' presa' dei vio­lenti e dei facinorosi è meno for­te, la distensione è ancora più vi­sibile. Per fare un esempio, la mag­gioranza dei 2.000 partecipanti al­la celebrazione della Giornata in­ternazionale per i diritti umani or­ganizzata il 10 dicembre dall’arci­diocesi era composta da non cri­stiani.
È lo stesso padre Manoj a deli­neare, tuttavia, una situazione di insicurezza per diversi aspetti an­cora drammatica, che solo un ot­timismo che unisce fede e impe­gno arriva a indicare come ' nor­male'. « A Natale abbiamo vissuto una situazione di apparente sere­nità – racconta il sacerdote di ori­gine tribale – senza fatti partico­lari » . Tuttavia, sui mass media si sono rincorse voci, probabilmen­te diffuse ad arte, per creare pau­ra e ansia tra la gente. « Minacce rimaste sulla carta – dice il sacer­dote – ma che non hanno certa­mente alleggerito la pressione su quanti sono chiamati a testimo­niare nei processi contro i presunti responsabili delle violenze e per quanti, nei villaggi più remoti, su­biscono quasi quotidianamente le intimidazioni perché si converta­no all’induismo o se ne vadano per sempre » .
Una situazione che non va gene­ralizzata, ma che certo è da af­frontare con gli strumenti della politica, dell’ordine pubblico ma
anche della volontà di conviven­za. « A esclusione dei fondamen­­talisti, la maggior parte dei non cristiani vedono nel Natale una grande celebrazione dei fedeli in tutto il mondo e, per essi, un’oc­casione comunque di gioia e di rinnovato impegno di pace » .
Ma quali sono i problemi che, in prospettiva, i cristiani dell’Orissa si troveranno davanti il prossimo anno? Risponde Ajay Kumar Sin­gh, coordinatore delle attività di emergenza e assistenza della Chiesa locale per il Kandhamal: « In sintesi, un mix di problemi pratici, diciamo comuni, e di altri legati alla situazione creatasi ne­gli ultimi due anni. Le pressioni sui testimoni nei processi contro organizzatori e esecutori delle vio­lenze dello scorso anno, la scar­sità di cibo, la difficoltà nel repe­rire vestiario adeguato ad affron­tare il clima invernale, la continua lotta della gente per ottenere giu­stizia... Quanto è successo non va dimenticato ma superato, come vanno superate povertà diffusa e antiche discriminazioni » .
Avvenire 29 dic. 2009