DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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Che fine ha fatto “el continente de la esperanza”? Il declino dei cattolici in America latina, sempre meno numerosi e sempre più insipidi



Non solo sempre meno numerosi e non solo sempre più secolarizzati. C’è tanto altro da dire sui cattolici latinoamericani e sui loro conterranei protestanti, ci sono un sacco di scoperte sfiziose nell’indagine sulla religiosità dei latinoamericani realizzata dal Pew Research Center di Washington e diffusa a metà di novembre. I commenti della stampa italiana si sono concentrati sulla flessione percentuale dei cattolici sul totale degli abitanti del continente a vantaggio dei protestanti e dei non affiliati e sulle loro opinioni eterodosse in materia di dottrina morale e di diritto canonico. Mentre scendevano dal 92 al 69 per cento della popolazione sudamericana adulta fra il 1970 e il 2014 (una flessione media di mezzo punto percentuale all’anno), i cattolici assorbivano gran parte dei valori secolari, fino a dichiararsi, in molti paesi, in maggioranza favorevoli a riforme radicali della dottrina morale e della disciplina canonica cattolica includenti la legittimità del ricorso agli anticoncezionali (16 paesi su 19), l’accettabilità del divorzio (13 paesi su 19), l’introduzione dell’ordinazione sacerdotale femminile (8 paesi su 19) e del clero sposato (9 paesi su 19). Donne prete e sacerdoti sposati sono l’opzione prevalente di una minoranza di paesi ma di un numero assoluto di cattolici maggioritario, in quanto ottengono la maggioranza nei paesi più popolosi: nel solo Brasile i favorevoli all’ordinazione femminile sarebbero il 78 per cento, mentre maggioranze di cattolici favorevoli al clero sposato si trovano in Brasile, Argentina, Cile e Venezuela. In Argentina e Uruguay maggioranze assolute di cattolici sono favorevoli al matrimonio fra persone dello stesso sesso, in Cile e Messico lo sarebbero maggioranze relative.

Dati piuttosto scioccanti, ma per nulla gli unici interessanti della ricerca. Per esempio la secolarizzazione dei percentualmente calanti cattolici andrebbe letta in contrappunto con l’ortodossia dottrinale dei sempre più numerosi protestanti, cresciuti dal 9 al 19 per cento di tutti i latinoamericani fra il 1970 e il 2014. Che si tratti del matrimonio fra gay o del sesso fuori dal vincolo coniugale, della condanna del divorzio e dell’aborto legale, dell’omosessualità attiva o dell’uso degli anticoncezionali, i protestanti si mostrano intransigenti là dove i cattolici si rivelano lassisti. Se in alcuni paesi la maggioranza di tutti i cristiani continua a mostrarsi statisticamente contraria al matrimonio fra persone dello stesso sesso, è perché sono i protestanti a far pendere da quella parte la bilancia. Ma il ritratto del protestante sudamericano come un tipo da una parte moralmente conservatore e dall’altra sedotto dal Vangelo dell’abbondanza, cioè dalle promesse di miracoli, ricchezza e salute delle Chiese pentecostali, non corrisponde alla realtà così come emerge dall’indagine. Al contrario, mediamente i protestanti prendono più seriamente i contenuti spirituali e morali della loro fede di quanto facciano i cattolici, e sono anche più socialmente impegnati di loro.


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Chi segue la liturgia settimanale?

Che si tratti della frequenza settimanale del luogo di culto, della preghiera personale, del digiuno quaresimale, della lettura delle Scritture, della partecipazione alle attività della congregazione o del pagamento della decima, cioè del sostegno economico alla propria Chiesa, i protestanti sopravanzano sempre i cattolici. In Argentina solo il 15 per cento dei cattolici va a Messa tutte le settimane, mentre partecipano al servizio liturgico settimanalmente il 55 per cento dei protestanti; in Brasile la percentuale dei cattolici frequentanti è un po’ più alta col 37 per cento, ma quella dei protestanti è addirittura massiccia: 76 per cento. In Cile, Perù, Venezuela, Ecuador, Argentina, Uruguay e Porto Rico i cattolici che versano una quota fissa del loro reddito alla Chiesa sono ovunque meno del 20 per cento, negli stessi paesi i protestanti che lo fanno oscillano fra il 41 e il 71 per cento. Tranne che a Panama (56 per cento), in nessun paese la maggioranza assoluta dei cattolici pratica digiuni durante la Quaresima, mentre in tutti i paesi tranne Cile, Argentina e Uruguay i protestanti che digiunano costituiscono la maggioranza assoluta del loro insieme.
Ma non è solo sullo specifico religioso che i protestanti si dimostrano più impegnati dei cattolici. Gli atteggiamenti nei confronti della povertà e del bisogno materiale riservano sorprese. L’interpretazione un tempo dominante secondo cui le Chiese protestanti latinoamericane sarebbero composte da ricchi egoisti privi di coscienza sociale e da poveracci motivati principalmente dalla speranza di beneficiare di miracoli e di vantaggi economici va in crisi quando si analizzano attentamente alcune evidenze statistiche dell’inchiesta. La grande maggioranza dei cristiani sudamericani di ogni confessione crede nella necessità di aiutare i poveri e di portare a loro Cristo. Quando però le risposte alla povertà vengono messe in alternativa fra loro, cioè viene chiesto se la prima cosa da fare coi poveri sia portare loro Cristo oppure aiutarli materialmente, la consueta divaricazione fra cattolici e protestanti riemerge: per la maggioranza dei cattolici, aiutare materialmente i poveri viene prima dell’annuncio del Vangelo, viceversa per i protestanti. In Argentina solo il 18 per cento dei cattolici ritiene che il modo più importante di aiutare i poveri sia di portare loro Cristo, mentre lo afferma il 51 per cento dei protestanti; divari superiori ai 30 punti percentuali fra cattolici e protestanti su questo argomento si registrano anche in Colombia, Bolivia, Perù e Paraguay. All’inverso, i cattolici che considerano priorità assoluta l’aiuto caritatevole ai poveri sono più dei protestanti che la pensano in questo modo in tutti e 19 i paesi sondati, anche se le differenze sono meno accentuate e si collocano fra i 10 e i 26 punti.

Ma la vera sorpresa emerge quando si chiede ai seguaci delle due confessioni se loro personalmente aiutano i poveri non solo con l’elemosina ma con varie forme di impegno. In tutti i paesi, i protestanti che dichiarano di avere preso parte ad attività caritative verso i poveri negli ultimi dodici mesi sono percentualmente più numerosi dei cattolici. I fedeli della Chiesa di Roma non ci fanno una bella figura: in maggioranza affermano che aiutare concretamente i poveri è più importante che annunciare loro Cristo, ma quando poi si tratta di mostrarsi coerenti con quello che dicono, si fanno bagnare il naso dai protestanti. I quali, evidentemente, non sono quegli spiritualisti disincarnati che si vorrebbe far credere. In particolare, in Venezuela e in Messico i protestanti coinvolti nell’aiuto umanitario sono rispettivamente il 27 e il 25 per cento in più dei cattolici. Lo stesso trend si osserva se si chiede alle persone se la loro Chiesa aiuta la gente a trovare un lavoro: dappertutto i protestanti rispondono “sì” più spesso dei cattolici. Il paese con la differenza più forte è l’Argentina, dove il 70 per cento dei protestanti risponde affermativamente alla domanda, contro il 37 per cento dei cattolici. Non ci sono invece differenze significative, tranne che in un paio di paesi, fra le risposte dei cattolici e quelle dei protestanti quando gli si chiede se la loro Chiesa cerca di convincere il governo ad aiutare i poveri.

Le ragioni della secolarizzazione

Un altro argomento dove le differenze di sensibilità fra protestanti e cattolici non sono particolarmente forti è l’aborto. I cattolici sono apparentemente più secolarizzati quando si parla di divorzio, contraccezione e matrimonio gay, ma sulla questione dell’aborto fanno eccezione solo il piccolo Uruguay e il Cile: il primo è l’unico paese dove i cattolici sono in maggioranza favorevoli all’aborto legale (solo il 44 per cento è contrario), nel secondo sono spaccati a metà fra favorevoli e contrari. In tutti gli altri paesi i cattolici si oppongono all’aborto legale con percentuali che oscillano fra il 74 e il 90 per cento, con la relativa eccezione dell’Argentina che è quotata al 69 per cento. La contrarietà dei protestanti va dal 66 per cento dell’Uruguay al 97 per cento del Paraguay.
Come si sarà notato, il paese che più insistentemente ricorre ai vertici delle opinioni di impronta secolarista è l’Uruguay. Il piccolo paese di 3,4 milioni di abitanti sul Rio de la Plata presenta il triplice primato di essere lo Stato sudamericano con meno cattolici (solo 42 per cento della popolazione), meno cristiani (solo il 57 per cento, contro un 43 di atei, agnostici, non affiliati e di altra religione) e dove i cattolici si dimostrano più secolarizzati, essendo in maggioranza favorevoli ai matrimoni fra persone dello stesso sesso e all’aborto legale. Addirittura solo il 49 per cento dei cattolici uruguaiani giudica che l’aborto come tale sia «moralmente sbagliato». Nei due paesi che con l’Uruguay confinano, Argentina e Brasile, i cattolici che vedono nell’aborto un chiaro male morale sono rispettivamente il 64 e l’80 per cento, nel poco distante Paraguay il 96 per cento. L’Uruguay costituisce un’autentica lezione storica per quei soloni intellettuali cattolici che teorizzano il disimpegno della Chiesa e dei cristiani rispetto alle leggi vigenti in un paese e la lontananza dal potere politico come condizione ideale per un migliore svolgimento della missione della Chiesa.

L’Uruguay avrebbe potuto avere una traiettoria storica simile a quella di uno dei suoi vicini se non fosse stato per le politiche laiciste che ha coerentemente perseguito fin dal 1861, quando il governo nazionalizzò i cimiteri su tutto il territorio nazionale, sottraendoli alle chiese. Poco dopo vennero approvate leggi che proibivano alla Chiesa di avere un ruolo nell’educazione pubblica e di rilasciare certificati matrimoniali. Nel 1919 la nuova Costituzione, che sostituiva quella del 1830, sanciva la totale separazione fra Stato e Chiesa. La secolarizzazione proseguì con la rimozione dei riferimenti religiosi dai nomi di quasi tutte le città e villaggi (non restano che San Carlos e Rosario) e con l’eliminazione del nome di Dio dai giuramenti delle massime cariche dello Stato. Oggi l’Uruguay presenta i tassi di religiosità di gran lunga più bassi fra i paesi analizzati dall’inchiesta del Pew Research Center. Meno di un terzo degli uruguaiani (28 per cento) dichiara che la religione è molto importante per la sua vita, (mentre in nessun altro paese questo valore è inferiore al 41 per cento e nella maggioranza si colloca fra il 70 e l’80 per cento); solo il 29 per cento prega ogni giorno e solo il 13 per cento va in chiesa almeno una volta alla settimana. Nel confinante Brasile il 61 per cento degli adulti prega quotidianamente e il 45 per cento va in chiesa almeno settimanalmente. Gli uruguaiani pregano poco e vanno in chiesa ancora meno, ma molto spesso fanno gli scongiuri. Risulta infatti che il 53 per cento dei cattolici e il 42 per cento degli atei e dei senza religione credono nel malocchio. La media generale del paese è del 46 per cento, che è superiore ai valori registrati in paesi molto religiosi come Bolivia, Paraguay, Perù, Messico, Colombia, eccetera. Chi non crede in Dio comincia a credere a tutto, diceva Chesterton.

La moralità degli indigeni

Un’ultima notazione la meritano i popoli indigeni dell’America latina. Nell’inchiesta del Pew Research Center non c’è nulla che si riferisca direttamente a loro: nella nota metodologica viene indicato il numero dei rispondenti per ogni paese, ma non l’estrazione etnica degli intervistati. Qualche dato però si può estrapolare. I paesi che contano la più alta percentuale di popolazione indigena pura sono la Bolivia (45 per cento), il Guatemala (40,5), il Perù (32,5) e l’Ecuador (25). Ebbene si tratta anche di alcuni dei paesi dove maggiore è l’ostilità al matrimonio omosessuale (contrari fra il 65 e l’83 per cento), dove gli atti omosessuali sono considerati immorali (fra il 73 e il 91 per cento), si giudica l’aborto immorale (fra l’85 e il 96 per cento) e si vuole che non sia legalizzato (fra il 75 e il 92 per cento). Chissà cosa ne pensano i liberal sempre pronti a esaltare le culture indigene contro la tradizione giudaico-cristiana.



 Tempi.it 



Lo que América Latina le puede enseñar a Europa

Alver Metalli22/10/2010

Estamos asistiendo a un proceso de mezcla de pueblos de dimensiones excepcionales. Se están produciendo enormes migraciones desde el sur hacia el norte del mundo, de un continente a otro, entre naciones de un mismo continente. Sin duda siempre se verificaron mezclas y migraciones en la historia de los pueblos, pero lo que en otras épocas ocurría a lo largo de prolongados períodos de tiempo, ahora se concentra en unas pocas décadas. Se puede decir que asistimos "en vivo y en directo" a este fenómeno, con todas las fibrilaciones que implican los movimientos contemporáneos de masas en las regiones elegidas como destino, y sobre todo en Europa. A partir de los procesos de descolonización que afectaron a Asia en los años 60 y a África en los 70, y que luego se aceleraron en los 90 con el fin del comunismo tal como lo hemos conocido, la presión en las fronteras fue in crescendo. Ya no es una profecía de visionarios afirmar que ha comenzado un mestizaje social a gran escala y que éste continuará en el futuro de Europa durante mucho tiempo.

América Latina ya vivió un momento como éste. La historia del descubrimiento y la conquista del Nuevo Mundo está documentada por una bibliografía que a diferencia de otros acontecimientos de dimensiones históricas que la preceden -confiados a una transmisión predominantemente oral- se apoya en documentos escritos por los mismos protagonistas. Los estudios posteriores al descubrimiento tuvieron una continuidad sin interrupciones y entre ellos se cuentan, por citar algunos de los más importantes, los de Dumond, Chaunu, Madariaga, Miralles, Hugs, Martínez, Chevalier, Portillo y Dawson.

La gran migración proveniente de Castilla, que en el siglo XV encontró poblaciones aborígenes y se mezcló con ellas, se produjo en un momento histórico especial, en el cual convergen una serie de circunstancias propicias: la Península Ibérica rompe el cerco de los pueblos musulmanes, la necesidad de encontrar rutas para llevar a Europa ciertos productos de gran valor denominados genéricamente especias (lo que ya había dado origen a incursiones portuguesas y holandesas a Oriente), el desarrollo de la tecnología marítima que permitía largas travesías y una cultura de base católica que postulaba la recapitulación universal de los hombres y de la historia en el Reino de Dios. Éstos fueron, sintéticamente, los ingredientes del sustrato cultural que dio lugar al descubrimiento y sucesiva ocupación del Nuevo Mundo.

En las naves que desafían el Océano viaja una vanguardia de hombres que buscan fortuna, riquezas y gloria, transportando el germen de una civilización nacida en la cuenca del Mediterráneo a partir de la transformación de la cultura grecorromana que llevó a cabo el cristianismo. Los migrantes de entonces llegaron a tierras de las cuales sólo suponían su existencia, habitadas por pueblos organizados sobre una base local o en reinos más amplios que estaban fundados en una base teocrática. El choque entre las dos ecúmenes fue dramático, y sobre las ruinas de las segundas -la inca y la azteca, que eran las más consolidadas- surge una síntesis antropológica nueva. Un mestizaje único en la historia hasta aquel momento, ya que nada parecido había ocurrido en otras latitudes -pensemos en Oriente- y que no ocurrirá tampoco en los años posteriores -pensemos en África (apartheid), y América del Norte (transplante europeo).

La Iglesia captó en toda su positividad esta síntesis naciente, que imprimió a América Latina la índole de fondo que conocemos. Todas las cumbres, desde la primera en Río de Janeiro en 1955, pasando por Medellín (1969), Puebla (1979) y Santo Domingo (1992) con ocasión de los 500 años del descubrimiento, hasta la última Conferencia general del episcopado latinoamericano que inauguró Benedicto XVI en Brasil en 2007, subrayaron siempre con énfasis el "peculiar proceso de mestizaje" que ha dado al continente latinoamericano una "singular identidad" y una "índole original".

Sobre la base de aquella fundamental síntesis antropológica se verificaron posteriormente nuevos injertos: la componente de raza negra, fundamental en Brasil y en el Caribe de América Central, la corriente migratoria europea a finales del XVIII, primeros cincuenta años del siglo XIX y la posterior sirio-libanesa se latinoamericanizaron rápidamente. Y lo mismo ocurrió con la más reciente que proviene de Oriente, sobre todo de China continental. No está dicho que será igual con la inmigración de los países musulmanes, pero ésta es aún incipiente en América Latina y no desmiente la tendencia de fondo que ha prevalecido hasta el momento.

También deberíamos mencionar, para que el análisis resulte más completo, los movimientos migratorios entre los países de América Latina. Las actuales ciudades de Sudamérica son cada vez más multiétnicas. Miles de bolivianos colorean las ciudades argentinas, tanto al norte como al sur, y las fiestas nacionales de los paraguayos, que emigraron en oleadas más allá de sus fronteras, ya forman parte del paisaje de metrópolis como Buenos Aires. Son migraciones "homogéneas" con las culturas donde se insertan.

Los problemas que plantean estos desplazamientos a los que asistimos "en vivo y en directo" son enormes: de integración en las economías locales, de seguridad, de acceso a los derechos primarios como la asistencia sanitaria, de extensión de los servicios sociales a las multitudes de recién llegados. Pero incluso esto no pone en discusión una sustancial aceptación del proceso de mezcla. El "sustrato básico" del primer gran mestizaje, aquel sui generis que constituyó la fisonomía esencial del hombre latinoamericano, es portador de un sentimiento generalizado de solidaridad, de solicitud activa para con las necesidades de los semejantes, de ayuda al indígena y de sensibilidad ante el dolor y el sufrimiento que son propios de la cultura católica. Y ésa es la razón por la cual las nuevas migraciones encuentran una fundamental comprensión y tolerancia.

Allí donde el catolicismo ha permeado la vida de los hombres, la capacidad de acoger es más compartida, la discriminación provoca repudio y la defensa de los egoísmos -que sin duda existen- se excluye con mayor facilidad de la aprobación de la sociedad. Por eso el Nuevo Mundo, nacido de un mestizaje gigantesco, puede enseñarle mucho al Viejo, que debe hacer frente a la inevitable y colosal mezcla de razas que se está produciendo en su territorio.



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Bajo ataque america latina. Con el “Consenso Brasilia” se fortalece el engaño de la ONU sobre la tutela de la vida y de la familia.

de Cortese Benedetta

Nuestro Observatorio ya muchas veces ha hecho referencia como Latinoamérica ha sido objeto de un potente ataque de los organismos y corporaciones internacionales, de modo que las legislaciones de estos países permitan el aborto. De particular gravedad es lo que sucedió en Brasilia el pasado mes de julio. En esa ciudad se llevo a cabo la 11ª. Conferencia Regional Latinoamericana y del Caribe sobre las mujeres, organizada por las Naciones Unidas. Al final se firmó un documento titulado “Consenso Brasilia” por 33 de los 36 países presentes. En contra Estados Unidos Chile y Costa Rica.

El Objetivo del encuentro era reflexionar sobre los resultados logrados y los nuevos desafíos relativos a la igualdad de género, con particular atención sobre la autonomía de la mujer y su emancipación económica. El Documento final consto de un elenco de compromisos asumidos por los Estados firmantes. Estos compromisos hacen referencia a la igualdad mujer-hombre en el mundo del trabajo, el respeto de los derechos de ciudadanía de la mujer, una mayor participación de ella en las decisiones políticas, la lucha contra cada forma de violencia en su contra, un igualitario acceso a la tecnología y a los medios de comunicación. Hasta este punto todo más o menos compartible.

El capítulo 6 hace referencia a los compromisos sobre la salud de la mujer, sus derechos sexuales y reproductivos. EI capítulo 7 y 8 hacen referencia a la promoción de la “gender equality”, es decir, la igualdad de género. Y aquí surgen los aspectos inaccesibles y preocupantes del documento.

Ahora se ha entendido que sobre estos temas la línea de la ONU es absolutamente inaceptable y que una gran cantidad de funcionarios se movilizarán para hacer pasar estas nuevas ideas. También se entiende que los términos presentes en estos documentos son a propósito ambiguos, e implican intenciones no expresadas claramente. Por ejemplo la expresión “derechos sexuales y reproductivos”, en práctica quiere decir derecho a la contracepción y al aborto seguro. Es claro que si en las sedes ONU se acepta este principio, las agencias ONU y la mega máquina de funcionarios y operadores se empeñarán para hacer campañas también forzadas de contracepción e impulsarán para que haya legislaciones que prevean el aborto.

Lo mismo se entiende con la expresión “igualdad de género” que significaría simplemente que la mujer debe ser considerada igual al hombre. Una cosa, como se ve, justa y sacrosanta. Sólo que la palabra “genero” viene entendida en contraposición a la palabra “sexo”. Esta última indica una identidad sexual natural, mientras que con la palabra género se indica una identidad sexual escogida también en contraposición a aquella natural. De esta manera “igualdad de género” no quiere decir más, sólo igualdad entre hombre y mujer sino también igualdad entre cada orientación sexual escogida, comprendida la homosexualidad y la transexualidad.

El engaño es evidente. ¿Quién se opondría a una solicitud de “salud sexual”?, ¿Quién se opondría a una igualdad entre el hombre y la mujer?; El problema es que aquella frases no viene a decir esto. La primera quiere decir contracepción (también impuesta) y aborto, y la segunda quiere decir igualdad en todo y para todos, tanto en las relaciones homosexuales como entre el hombre y la mujer.

La perpetuación de este engaño revela los intentos ideológicos de la ONU, que quiere imponer una visión de las cosas a los pueblos, pasando por encima de las convicciones morales y religiosas. Es un nuevo pensamiento único al que vienen dedicados recursos inmensos.

El “Consenso Brasilia” se compromete a: “adelantar campañas para promover el uso del preservativo masculino y femenino”; «revisar las leyes que castigan a las mujeres en caso de aborto»; «asegurar que el aborto sea realizado de manera segura y legal»; «promover la reducción de los embarazos en las adolescentes mediante la instrucción, información, acceso a los servicios de la salud reproductiva y acceso a todos los medio anticonceptivos». Por instrucción aquí no se entiende una completa educación sexual, sino una instrucción sobre el uso de los anticonceptivos; “acceso a los servicios de la salud reproductiva”, no se entiende pedir consejo al ginecólogo sino pedir el aborto.

Con respecto a la “igualdad de género”, el Documento se compromete a cooperar con los programas que promueven la igualdad de género y a favorecer el aporte económico de los organismos donantes. Fuera del lenguaje ambiguo de la ONU, esto significa que: aumentarán en las escuelas los programas de instrucción que dirán que todas las identidades de género son iguales; y que aumentarán las finanziaciones de las grandes fundaciones internacionales, fuertemente empeñadas en esta batalla ideológica.

Traducido al Español por

Wilson Ramírez Zea. Pbro.


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