DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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Il Papa spiega che dove inculturazione e perdita di fede nel potere di Dio la liturgia non è più cristiana completamente dipendente dal Signore

Discorso ai Vescovi della regione Norte 2 del Brasile in “visita ad limina”


CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 15 aprile 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo giovedì da Benedetto XVI nel ricevere in udienza i presuli della regione Norte2 della Conferenza episcopale del Brasile, in occasione della loro visita “ad limina Apostolorum”.



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Amati Fratelli nell'Episcopato,

La vostra visita ad limina ha luogo nel clima di lode e giubilo pasquale che avvolge la Chiesa intera, adornata dalla luce sfolgorante di Cristo Risorto. In lui, l'umanità ha superato la morte e ha completato l'ultima tappa della sua crescita entrando nei Cieli (cfr Ef 2, 6). Ora Gesù può liberamente ritornare sui suoi passi e incontrare, come, quando e dove vuole, i suoi fratelli. In suo nome, sono lieto di accogliervi, devoti pastori della Chiesa di Dio che peregrina nella Regione Norte 2 del Brasile, con il saluto fatto dal Signore quando si presentò risorto agli Apostoli e compagni: «Pace a voi» (Lc 24, 36).

La vostra presenza qui ha un sapore familiare, poiché sembra riprodurre il finale della storia dei Discepoli di Emmaus (cfr Lc 24, 33-35): siete venuti per narrare quello che è accaduto lungo il cammino fatto con Gesù dalle vostre diocesi disseminate nell'immensità della regione amazzonica, con le loro parrocchie e le altre realtà che le compongono, come i movimenti, le nuove comunità e le comunità ecclesiali di base in comunione con il loro vescovo (cfr Documento di Aparecida, n. 179). Nulla potrebbe rallegrarmi maggiormente del sapervi in Cristo e con Cristo, come testimoniano i resoconti diocesani che avete inviato e per i quali vi ringrazio. Sono riconoscente in modo particolare a monsignor Jesus Maria Cizaurre per le parole che mi ha appena rivolto a nome vostro e del popolo di Dio a voi affidato, sottolineando la sua fedeltà e la sua adesione a Pietro. Al vostro ritorno, assicuratelo della mia gratitudine per questi sentimenti e della mia benedizione, aggiungendo: «davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!» (Lc 24, 34).

In quell'apparizione, le parole — se ci sono state — sono sfumate nella sorpresa di vedere il Maestro redivivo, la cui presenza dice tutto: ero morto, ma ora sono vivo e voi vivrete attraverso di me (cfr Ap 1, 18). E, essendo vivo e risorto, Cristo può divenire «pane vivo» (Gv 6, 51) per l'umanità. Per questo sento che il centro e la fonte permanente del ministero petrino sono nell'Eucaristia, cuore della vita cristiana, fonte e culmine della missione evangelizzatrice della Chiesa. Potete così comprendere la preoccupazione del Successore di Pietro per tutto ciò che può offuscare il punto più originale della fede cattolica: oggi Gesù Cristo continua a essere vivo e realmente presente nell'ostia e nel calice consacrati.

La minore attenzione che a volte si presta al culto del Santissimo Sacramento è indice e causa dell'oscuramento del significato cristiano del mistero, come avviene quando nella Santa Messa non appare più preminente e operante Gesù, ma una comunità indaffarata in molte cose, invece di essere raccolta e di lasciarsi attrarre verso l'Unico necessario: il suo Signore. Ora l'atteggiamento principale e fondamentale del fedele cristiano che partecipa alla celebrazione liturgica non è fare, ma ascoltare, aprirsi, ricevere... È ovvio che, in questo caso, ricevere non significa restare passivi o disinteressarsi di quello che lì avviene, ma cooperare — poiché di nuovo capaci di farlo per la grazia di Dio — secondo «la genuina natura della vera Chiesa. Questa ha infatti la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, fervente nell'azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e tuttavia pellegrina; tutto questo, in modo tale, però, che ciò che in essa è umano sia ordinato e subordinato al divino, il visibile all'invisibile, l'azione alla contemplazione, la realtà presente alla città futura, verso la quale siamo incamminati» (Sacrosanctum Concilium, n. 2). Se nella liturgia non emergesse la figura di Cristo, che è il suo principio ed è realmente presente per renderla valida, non avremmo più la liturgia cristiana, completamente dipendente dal Signore e sostenuta dalla sua presenza creatrice.

Quanto sono distanti da tutto ciò coloro che, a nome dell'inculturazione, incorrono nel sincretismo introducendo nella celebrazione della Santa Messa riti presi da altre religioni o particolarismi culturali (cfr Redemptoris Sacramentum, n. 79)! Il mistero eucaristico è un «dono troppo grande — scriveva il mio venerabile predecessore Papa Giovani Paolo II — per sopportare ambiguità e diminuzioni», in particolare quando, «spogliato del suo valore sacrificale, viene vissuto come se non oltrepassasse il senso e il valore di un incontro conviviale fraterno» (Ecclesia de Eucharistia, n. 10). Alla base delle varie motivazioni addotte, vi è una mentalità incapace di accettare la possibilità di un reale intervento divino in questo mondo in soccorso dell'uomo. Questi, tuttavia, «si trova incapace di superare efficacemente da sé medesimo gli assalti del male, così che ognuno si senta come incatenato» (Costituzione Gaudium et spes, n. 13). La confessione di un intervento redentore di Dio per cambiare questa situazione di alienazione e di peccato è vista da quanti condividono la visione deista come integralista, e lo stesso giudizio è dato a proposito di un segnale sacramentale che rende presente il sacrificio redentore. Più accettabile, ai loro occhi, sarebbe la celebrazione di un segnale che corrispondesse a un vago sentimento di comunità.

Il culto però non può nascere dalla nostra fantasia; sarebbe un grido nell'oscurità o una semplice autoaffermazione. La vera liturgia presuppone che Dio risponda e ci mostri come possiamo adorarlo. «La Chiesa può celebrare e adorare il mistero di Cristo presente nell'Eucaristia proprio perché Cristo stesso si è donato per primo ad essa nel sacrificio della Croce» (Esortazione apostolica Sacramentum caritatis, n. 14). La Chiesa vive di questa presenza e ha come ragion d'essere e di esistere quella di diffondere tale presenza nel mondo intero.

«Resta con noi, Signore!» (cfr Lc 24, 29): così pregano i figli e le figlie del Brasile in vista del XVI Congresso eucaristico nazionale, che si terrà fra un mese a Brasilia e che in tal modo vedrà il giubileo aureo della sua fondazione arricchito con l'«oro» dell'eternità presente nel tempo: Gesù Eucaristia. Che egli sia veramente il cuore del Brasile, da dove proviene la forza per tutti gli uomini e le donne brasiliani di riconoscersi e di aiutarsi come fratelli, come membri del Cristo totale. Chi vuole vivere, ha dove vivere, ha di che vivere. Si avvicini, creda, entri a far parte del Corpo di Cristo e sarà vivificato! Oggi, e qui, tutto questo auguro a quella porzione speranzosa di questo Corpo che è la Regione Norte 2, nell'impartire a ognuno di voi, a quanti collaborano con voi e a tutti i fedeli cristiani, la Benedizione Apostolica.

[Traduzione dal testo originale in portoghese a cura de “L'Osservatore Romano”]

Le culture autentiche non sono chiuse in se stesse. di Tarcisio Bertone

Nell'ambito della sua visita in Cile, il cardinale segretario di Stato ha tenuto, nella Pontificia Università Cattolica del Cile, una conferenza su "La Chiesa e lo stato a duecento anni dall'indipendenza nazionale. Storia e prospettive". Ne pubblichiamo ampi stralci.

di Tarcisio Bertone

La celebrazione del bicentenario rappresenta un'opportunità per guardare con gratitudine al passato, per crescere nell'amore per la patria e nella concordia nazionale, per rinnovarsi nell'impegno al servizio del bene comune del popolo cileno e del bene comune della comunità internazionale, al quale il Cile, a partire dalla sua ricca cultura ed esperienza, ha tanto da offrire. Pensare all'indipendenza è anche pensare all'identità nazionale, ripercorrendo gli inizi della vita politica nazionale e considerando i diversi fattori che hanno configurato la nazionalità culturale cilena. Non vi è dubbio che il cattolicesimo è uno di quegli elementi che hanno contribuito notevolmente a conformare l'identità nazionale cilena e che oggi continua a costituire un valore di primissimo ordine.
A tale proposito, non vorrei perdere l'occasione di ricordare qui tutte quelle nazioni latinoamericane, come l'Argentina, la Bolivia, la Colombia, l'Ecuador o il Messico, che celebrano sempre quest'anno il bicentenario della loro indipendenza. Come in Cile, anche in esse la Chiesa ha svolto un ruolo importante in quel momento tanto significativo, contribuendo a forgiare sin dall'inizio una cultura e un'identità nazionale ispirate ai più alti valori umani ed evangelici.
Il punto di partenza della formazione dell'amata nazione cilena è l'incontro degli spagnoli con i popoli autoctoni, che avviò un ambivalente processo di fondazione di alcune società nuove, nel quale l'evangelizzazione fu un fattore importante, insieme ad altri d'indole molto diversa, per la definizione del modo di essere di queste società. Come ha messo in evidenza Papa Benedetto XVI nel suo storico viaggio in Brasile: "dall'incontro di quella fede con le etnie originarie è nata la ricca cultura cristiana di questo continente espressa nell'arte, nella musica, nella letteratura e, soprattutto, nelle tradizioni religiose e nel modo di essere delle sue genti" (Discorso inaugurale della v Conferenza Dell'Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi, Aparecida, 13 maggio 2007). In effetti, con l'arrivo a metà del XVI secolo della piccola e amata immagine della Virgen del Socorro, che portò con sé Pedro de Valdivia, dei primi chierici secolari e di missionari domenicani, francescani e mercedari, e, dal 1593, dei gesuiti e, due anni dopo, degli agostiniani, cominciò l'annuncio del Vangelo in questa nobile terra.
Il bene spirituale e materiale degli abitanti originari del Cile fu sin dal primo momento una delle grandi preoccupazioni della Chiesa locale. Come precoci esempi della ricerca della giustizia possiamo menzionare il virtuoso parroco Cristóbal de Molina, che intercedette dinanzi al re per gli indios e i meticci, il focoso domenicano frate Gil González de San Nicolás, primo protettore degli indios in questa terra, e il vescovo Antonio de san Miguel, frate francescano, che nel 1572 convinse il re a ordinare che si sostituisse il lavoro personale degli indigeni con un tributo moderato. Fu merito di vari membri della Compagnia di Gesù, principalmente di Padre Luis de Valdivia, e del vescovo Juan Pérez de Espinosa, se questo ordine del re non restò lettera morta e se, anni dopo, portò all'esenzione dal lavoro almeno per le donne e per i minorenni. Inoltre, l'opera educativa del clero e, in particolare, della Compagnia di Gesù, fu sin dall'inizio di capitale importanza per il Paese. Detto questo, bisogna aggiungere anche che non si possono ignorare le ombre che hanno accompagnato l'opera di evangelizzazione del continente latinoamericano. Come ha ricordato Papa Benedetto XVI, "non è possibile dimenticare le sofferenze e le ingiustizie inflitte dai colonizzatori alle popolazioni indigene, spesso calpestate nei loro diritti umani fondamentali. Ma la doverosa menzione di tali crimini ingiustificabili - crimini peraltro già allora condannati da missionari come Bartolomeo de Las Casas e da teologi come Francesco da Vitoria dell'Università di Salamanca - non deve impedire di prendere atto con gratitudine dell'opera meravigliosa compiuta dalla grazia divina tra quelle popolazioni nel corso di questi secoli" (Udienza generale, 23 maggio 2007).
In tal senso, la celebrazione del bicentenario, come avviene anche in altre nazioni del continente, suscita in Cile un'importante riflessione circa le condizioni delle popolazioni indigene e la loro integrazione nella vita nazionale. Il coraggio e l'eroismo con cui il popolo araucano difese la sua libertà di fronte all'avanzare della conquista suscitò profonda ammirazione negli spagnoli, e restò immortalato nel poema epico La araucana, di Alonso de Ercilla y Zúñiga, che ancora oggi è motivo di orgoglio per la memoria nazionale cilena. Le culture indigene sono chiamate a continuare ad arricchire con l'apporto delle loro tradizioni il bagaglio degli autentici valori nazionali del presente e del futuro. Ricordo qui l'ordine del padre della patria Bernardo O'Higgins, del 3 giugno 1818, affinché nei libri parrocchiali non si usassero più i termini "spagnolo" e "indio", ma tutti venissero chiamati indistintamente cileni. La promozione del bene comune obiettivo, quello che corrisponde alla verità dell'essere umano e della società, passa per il cammino della conoscenza e della stima reciproca, del rispetto, del dialogo e della collaborazione fra tutti i settori del popolo, senza escludere o dimenticare nessuna minoranza. Così come ci segnala il Santo Padre Benedetto XVI nella sua ultima enciclica, la cooperazione per lo sviluppo "deve diventare una grande occasione di incontro culturale e umano" (Caritas in veritate, n. 59), cercando tutti insieme di fare la "verità nella carità" (Efesini, 4, 15), conformemente all'insegnamento di san Paolo.
Per trattare questo tema occorrono grande discernimento e saggezza. Papa Benedetto XVI, nel sopracitato viaggio in Brasile, ha detto: "Le autentiche culture non sono chiuse in se stesse né pietrificate in un determinato momento della storia, ma sono aperte, più ancora, cercano l'incontro con altre culture, sperano di raggiungere l'universalità nell'incontro e nel dialogo con altre forme di vita e con gli elementi che possono portare ad una nuova sintesi nella quale si rispetti sempre la diversità delle espressioni e della loro realizzazione culturale concreta" (Discorso inaugurale della v Conferenza dell'Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi, 13 maggio 2007). Sorprenderebbe ancora il voler ridare vita alle religioni precolombiane, separando i gruppi indigeni da Cristo e dalla Chiesa universale, come se il passato non preparasse all'incontro con Cristo, nel quale trova il suo significato e la sua pienezza, o come se le persone fossero al servizio delle espressioni culturali invece che queste ultime al servizio delle persone. In realtà, ciò sarebbe un'involuzione verso un momento storico ancorato al passato. Piuttosto, si deve cercare di preservare e anche di far risplendere la purezza del Vangelo e la saggezza dei popoli indigeni in un processo di autentica inculturazione della fede cristiana.
Avendo come fondamento questa ricca base storica e la molteplicità di sfumature, il Cile deve continuare a lavorare, come sta facendo da molto tempo, affinché i nostri fratelli delle popolazioni originarie possano ricevere pienamente, come membri attivi e decisivi dello sviluppo nazionale, tutti i benefici che sono propri di uno Stato moderno, assumendo allo stesso tempo gli obblighi e le responsabilità che esso comporta. Come ha lasciato scritto Papa Giovanni Paolo ii nel suo libro Memoria e identità: "La patria è un bene comune di tutti i cittadini e, come tale, anche un grande dovere".
Nel celebrare il bicentenario e nel ricordare la storia nazionale, bisogna essere consapevoli che lo sguardo al passato comporta sempre il rischio di riaprire vecchie ferite. Non tutti i membri di una società condividono gli stessi punti di vista riguardo al loro passato comune, né tutti hanno vissuto gli eventi allo stesso modo nella propria carne e nel proprio spirito. Il rispetto per questa legittima diversità di sensibilità storiche è un requisito per ogni riflessione matura sulla storia patria, che, come memoria collettiva, è e deve essere patrimonio di tutti i figli della nazione cilena. Sarebbe, pertanto, un deplorevole errore se la contemplazione del passato servisse ad approfondire le distanze e se le differenze di sensibilità storica degenerassero nell'inasprirsi di antiche rivalità.
Se la domanda sulla storia è sempre una domanda sull'identità, la risposta deve essere sempre un richiamo alla responsabilità, all'impegno nel presente per la costruzione del futuro. Il Cile, come molte altre nazioni della terra, ha vissuto antagonismi interni. Alcuni sono stati difficili da superare, condizionando dopo decenni la concordia nella Nazione. Al dovuto e legittimo anelito di giustizia, e di riparazione per i danni subiti, si deve aggiungere il, a sua volta dovuto, desiderio di concordia, ossia di cancellare rancori e di superare animavversioni. A questa autentica riconciliazione vuole contribuire anche la Chiesa. La nazione cilena, come ogni nazione, ha bisogno e merita gli sforzi di tutti i suoi membri per offrire alle nuove generazioni un futuro di giustizia e di amore.
La relazione fra lo Stato e la Chiesa nei primi tempi di vita indipendente non fu facile. Ebbene, il Cile ha il privilegio di essere stata la prima nazione fra tutte quelle dell'America indipendente a inviare un rappresentante a Roma. L'allora canonico Cienfuegos giunse alla città eterna nell'agosto del 1822 al fine di sollecitare a Papa Pio vii un legato pontificio per il Cile che potesse ristabilire l'organizzazione ecclesiastica. La richiesta fu accolta e il 3 gennaio 1824 giungeva in Sud America il vescovo monsignor Giovanni Muzi, in qualità di vicario apostolico, accompagnato da Giovanni Maria Mastai Ferretti, futuro Papa Pio ix, che si sarebbe sempre interessato molto all'America Latina, e del sacerdote Giuseppe Sallustri. La loro missione, pur non ottenendo molto in quanto a ricostruzione della vita ecclesiastica, resta come testimonianza di un precoce e reciproco interesse fra il Cile e la Santa Sede a mantenere qualche tipo di relazione a beneficio del popolo cileno.
Nelle relazioni fra lo Stato e la Chiesa in Cile durante il primo secolo dopo l'indipendenza, constatiamo che era frequente e persino normale l'ingerenza di un'istituzione nelle questioni proprie dell'altra, spiegabile in parte per le condizioni specifiche della società e dell'epoca in cui si viveva; tuttavia, questo non portò, se non raramente, a situazioni di conflitto. Ciò dimostra che il Cile ebbe fra le sue autorità civili ed ecclesiastiche uomini capaci di dialogo che seppero anteporre il bene comune agli interessi di parte. A tale proposito, i vescovi del Cile, nel 1925, dopo che fu stabilita la separazione fra la Chiesa e lo Stato, scrissero che la Chiesa "resterà pronta a servirlo; ad occuparsi del bene del popolo; a ricercare l'ordine sociale, ad accorrere in aiuto di tutti, senza escludere i propri avversari nei momenti di angoscia in cui tutti sono soliti, durante le grandi agitazioni sociali, ricordarsi di essa e chiederle aiuto" (Pastoral Colectiva sobre la separación de la Iglesia y el Estado, 22 settembre 1925).
Un'analisi storica seria, serena e obiettiva sull'interazione fra politica e religione ai tempi della lotta per l'indipendenza e per l'instaurazione di un nuovo ordine politico nella nazione, come pure nel successivo susseguirsi degli eventi, può validamente contribuire alla purificazione della memoria storica e all'assimilazione di questa esperienza storica collettiva.
La speranza è che, in sintonia con la tradizione della buona intesa reciproca, continui e s'intensifichi sempre la sana collaborazione fra lo Stato e la Chiesa in linea con gli auspici espressi dal concilio Vaticano II (Gaudium et spes, n. 76). Una collaborazione fondata sul riconoscimento e sul rispetto reciproco dell'autonomia propria di ogni istituzione e volta sempre al servizio della persona umana, la quale ha diritto a vedere garantita la sua libertà religiosa (Dignitatis humanae). In effetti, che esista la separazione fra Stato e Chiesa non significa che vi sia ignoranza reciproca, e tanto meno inimicizia. È fondamentale distinguere fra la sana laicità dello Stato, in base alla quale questo si mantiene neutrale nelle questioni religiose, facendo sì che siano i cittadini a esprimere liberamente il proprio sentimento religioso nella vita sociale, e il laicismo dello Stato, in base al quale questo si arrogherebbe la facoltà di limitare l'espressione sociale della vita religiosa, interferendo pertanto in essa.
In tal senso, la Chiesa, come insegna Papa Benedetto XVI, è consapevole che: "non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile, Non può e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia. Deve inserirsi in essa per la via dell'argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunce, non può affermarsi e prosperare" (Deus caritas est, n. 28).
Credo che questa visione che ci offre il Papa, in linea con gli insegnamenti del concilio Vaticano II, debba illuminare il cammino delle relazioni fra la Chiesa e lo Stato in una nazione come quella cilena, dove la fede cristiana è radicata nella stragrande maggioranza del suo popolo e la Chiesa gode di stima, essendo la sua presenza, il suo lavoro e la sua parola rispettati. Non passa inosservato a chi si avvicina alla storia dell'indipendenza cilena l'impegno con cui molti dei protagonisti di allora ricercarono la giustizia, e la convinzione che questa esigesse che Dio fosse in qualche modo riconosciuto nella sfera pubblica. Una delle conseguenze più gravi dell'organizzare la vita sociale voltando le spalle a Dio è il relativismo, poiché, una volta accantonato Dio, non ci si mette molto ad accantonare anche la ragione naturale.
Negando la possibilità di conoscere la verità e, di conseguenza, ignorando ogni esigenza che da essa proviene, si farebbe del relativismo il fondamento filosofico della democrazia. "Questa, in effetti, si edificherebbe sulla base secondo la quale nessuno può avere la pretesa di conoscere la via vera, e si nutrirebbe del fatto che tutti i cammini si riconoscono reciprocamente come frammenti dello sforzo verso ciò che è migliore (...) Una società liberale sarebbe, quindi, una società relativista; solo a questa condizione potrebbe rimanere libera e aperta al futuro" (cardinale Joseph Ratzinger, Conferenza nell'incontro dei presidenti delle commissioni episcopali dell'America Latina per la dottrina della fede, Guadalajara,Messico, novembre 1996). Tuttavia, l'impossibilità di accedere alla verità e di formulare pertanto norme etiche universalmente valide, potrebbe condurre, in virtù della sua stessa logica interna, alla situazione paradossale di ammettere l'immoralità come qualcosa di moralmente accettabile, disprezzando il giudizio della stessa ragione naturale. Ciò, a sua volta, porterebbe a quello che sia Giovanni Paolo ii sia Benedetto XVI hanno chiamato "dittatura del relativismo", "che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie" (Omelia nella messa "Pro Eligendo Pontifice", 18 aprile 2005). Tutto resta allora alla mercé della forza dei voti, delle pressioni dei potenti, degli interessi di parte, facendo così trionfare la ragione della forza e non la forza della ragione; allora, afferma Papa Benedetto XVI, "le nostre società non diventeranno più ragionevoli o tolleranti o duttili, ma saranno piuttosto più fragili e meno inclusive, e dovranno faticare sempre di più per riconoscere quello che è vero, nobile e buono" (Incontro con il Mondo Accademico della Repubblica Ceca, 27 settembre 2009). Il Cile, negli ultimi decenni, ha vissuto uno sviluppo economico e sociale accelerato, che è motivo di gioia e di speranza, e sono certo che l'impegno e la laboriosità di questo amato popolo non permetteranno che si oscurino, nonostante le dolorose vicissitudini delle scorse settimane. Allo stesso tempo però, è necessario restare vigili affinché questo sviluppo non vada contro l'identità propria della nazione o gli aspetti che riguardano essenzialmente la dignità della persona e della famiglia. Bisogna tener presente che possiamo parlare di autentico sviluppo solo quando questo risponde alle esigenze morali più profonde della persona. È auspicabile che il popolo cileno, per tanti motivi esemplare, abbia il coraggio di evitare i cammini sbagliati che oggi si deplorano in altre latitudini. Ciò dipenderà in buona parte dall'agire responsabile e coerente dei cattolici nella vita pubblica, difendendo quei valori "non negoziabili" che fanno parte della propria e intrinseca dignità della persona e che non sono pertanto esclusivi di una concezione cristiana dell'uomo.
Permettetemi di segnalare fra i principi fondamentali di ogni azione politica e sociale la tutela della vita umana in tutte le sue fasi, dal momento del concepimento fino alla morte naturale, poiché mai sarà lecito in una società moderna che aspira alla giustizia e alla verità, introdurre norme legali che permettano di porre fine a una vita umana già concepita. Desidero sottolineare anche la tutela del diritto dei genitori a educare i propri figli in sintonia con le loro convinzioni morali e religiose. Ciò implica che l'autorità politica provveda e predisponga gli spazi necessari affinché questo diritto sia davvero effettivo. È necessario riconoscere il servizio sociale che la Chiesa in Cile realizza nell'ambito dell'educazione, contribuendo così non solo all'esercizio positivo di un diritto dei genitori, ma anche allo sviluppo dell'intera società.


(©L'Osservatore Romano - 14 aprile 2010)

Ai piedi del sicomoro. Comunicazione e cultura: nuovi percorsi per l’evangelizzazione nel terzo millennio. Card. Joseph Ratzinger

Intervento del cardinale Joseph Ratzinger al convegno

COMUNICAZIONE E CULTURA:

NUOVI PERCORSI PER L’EVANGELIZZAZIONE NEL TERZO MILLENNIO

9 novembre 2002

Avvenire 24 aprile 2005



Il tema, che mi è stato proposto, comprende tre concetti principali: comunicazione - cultura - evangelizzazione. Innanzitutto occorre dire che i due concetti di comunicazione e di evangelizzazione sono chiaramente collegati: evangelizzazione è comunicazione di una parola, che è qualcosa di più che una parola - è un modo di vivere, anzi la vita stessa. Così l'impostazione del problema è innanzitutto: come il vangelo può superare la soglia fra me e l'altro? Come si può giungere ad una comunione nel vangelo, così che esso non solo mi unisca all'altro, ma unisca entrambi con la parola di Dio e così ne nasca un'unità che vada veramente in profondità?

Fra le due parole comunicazione ed evangelizzazione nel nostro tema si trova la parola cultura. Evidentemente si intende così designare il mezzo di comunicazione, l'ambiente, nel quale la comunicazione si può verificare. Di fatto il vangelo non viene portato ad uomini, il cui spirito sarebbe una "tabula rasa", come secondo Aristotele e Tomaso d'Aquino è lo spirito umano nel primo momento del risvegliarsi alla vita. No, la tavola dello spirito, alla quale giunge la nostra predicazione, è riempita di molteplici scritte e viene continuamente in contatto con innumerevoli comunicazioni, così che sembra quasi impossibile collocarvi ancora qualche altra cosa. Nell'odierna sovrabbondanza di informazioni vi è ancora posto sulla tavola delle nostre anime, ovvero il vangelo, come sembra accadere spesso, può essere scritto ormai solo sul suo margine più esterno? O forse il vangelo non è un'informazione fra le altre, una riga sulla tavola accanto ad altre, ma la chiave, un messaggio di natura totalmente diversa dalle molte informazioni, che ci sommergono giorno dopo giorno? Dalla questione della caratteristica di questo messaggio dipende anzi anche la questione della forma giusta della sua comunicazione. Se il vangelo appare solo come una notizia fra molte, può forse essere scartato in favore di altri messaggi più importanti. Ma come fa la comunicazione, che noi chiamiamo vangelo, a far capire che essa è appunto una forma totalmente altra di informazione - nel nostro uso linguistico, piuttosto una "performazione", un processo vitale, per mezzo del quale soltanto lo strumento dell'esistenza può trovare il suo giusto tono?

Non è facile dare una risposta. Avevo affermato che la tavola dello spirito non è priva di scritte. Dobbiamo aggiungere: la persona umana non è mai sola, essa viene plasmata da una comunità, che le offre le forme del pensare, del sentire, dell'agire. Questo insieme di forme di pensare e di rappresentare, che plasma in antecedenza l'essere umano, la chiamiamo cultura. Della cultura fanno parte innanzitutto la lingua comune, poi la costituzione della comunità, quindi lo stato con le sue articolazioni, il diritto, le consuetudini, le concezioni morali, l'arte, le forme del culto, ecc.. La parola del vangelo si inserisce in questo insieme vitale della "cultura". Si deve rendere comprensibile in essa, e deve divenire efficace in essa, plasmare tutta questa forma di vita, essere in essa per così dire lievito, che penetra tutta la massa. Il vangelo in una certa misura presuppone la cultura, non la sostituisce, ma la plasma. Nel mondo greco al nostro concetto di cultura corrisponde quale termine più adeguato la parola paideia - educazione nel senso più alto, in quanto conduce l'uomo alla vera umanità; i latini hanno espresso la stessa cosa con la parola eruditio: l'uomo viene di-rozzato, viene formato quale vero essere umano. In questo senso il vangelo è per sua natura paideia - cultura, ma in questa educazione dell'uomo si unisce a tutte le forze, che si propongono di configurare l'essere umano come essere comunitario.

Il tema a me proposto tuttavia aggiunge alla questione generale della comunicazione del vangelo tramite lo strumento della cultura ancora una determinazione temporale: il terzo millennio. Non si tratta quindi in astratto del rapporto fra vangelo e cultura, ma di come si possa rendere comunicabile il vangelo nell'ambito della cultura di oggi. Così occorre almeno in modo molto breve domandarci: cosa è dunque la nostra cultura, che scrive oggi sulla tavola delle nostre anime? La precisazione temporale è inoltre accompagnata a motivo della cornice del nostro convegno anche da una determinazione locale: si tratta della Chiesa in Italia. Ora, l'Italia con le sue caratteristiche del tutto specifiche fa parte del mondo occidentale e della sua cultura. Questa cultura da una parte è stata edificata dal cristianesimo, ed in Italia questa conformazione attraverso la fede cattolica è senza dubbio ancora sostanzialmente più fortemente operante che in molti altri paesi occidentali. In questo senso il vangelo parla qui non semplicemente in una cornice totalmente estranea. Questi elementi perduranti di una cultura cristiana non possiamo sottovalutarli e non vogliamo nello zelo del rinnovamento metterli da parte quale ciarpame invecchiato, come è accaduto qui e là nel primo entusiasmo del tempo postconciliare, in cui tutta la cultura cristiana esistente con una singolare frattura temporale fu improvvisamente bollata come preconciliare e così etichettata come superata. No, dovremmo essere lieti di queste forme cristiane che danno configurazione alla nostra vita comunitaria, spolverarle e purificarle - laddove è necessario - , ma comunque rafforzarle ed incoraggiarle. Tuttavia già sempre, anche nel medioevo, questa cultura cristiana era insidiata da elementi non cristiani e anticristiani. A partire dall'illuminismo la cultura dell'occidente si allontana con velocità crescente dai suoi fondamenti cristiani. La dissoluzione della famiglia e del matrimonio, i crescenti attacchi alla vita umana ed alla sua dignità, la riduzione della fede a realtà soggettiva e la conseguente secolarizzazione della coscienza pubblica così come la frammentazione e la relativizzazione dell'ethos ci mostrano questo in modo oltremodo chiaro. In questo senso la cultura di oggi in Italia ed in forme diverse in tutto il mondo occidentale è anche una cultura lacerata da contraddizioni interne. Esistono modalità di cultura cristiana che si affermano o che nuovamente emergono, esistono in contrasto a queste con crescente forza di diffusione forme che si contrappongono alla paideia cristiana. L'evangelizzazione, che parla a questa cultura, non ha dunque a che fare con un destinatario unitario. Deve esercitare l'arte del discernimento in una realtà contraddittoria e deve trovare anche nelle zone secolarizzate di questa cultura vie, che si lascino aprire alla fede.

Prima che io cerchi di concretizzare ancora ulteriormente queste riflessioni in un paio di tesi, vorrei proporre per questo itinerario di incontro e di confronto culturale un'immagine, che ho trovato in Basilio il Grande (+ 379), il quale nel confronto con la cultura greca del suo tempo si vide posto davanti ad un compito assai simile a quello che è posto a noi. Basilio si riallaccia all'autopresentazione del profeta Amos, il quale diceva di sé: "Pastore sono e coltivatore di sicomori" (7,14). La traduzione greca del libro del profeta, la LXX, rende in modo più chiaro nel seguente modo l'ultima espressione: "Io ero uno, che taglia i sicomori". La traduzione si fonda sul fatto che i frutti del sicomoro devono essere incisi prima del raccolto, poi maturano entro pochi giorni. Basilio presuppone nel suo commentario ad Is. 9, 10 questa prassi, infatti egli scrive: "Il sicomoro è un albero, che produce moltissimi frutti. Ma non hanno alcun sapore, se non li si incide accuratamente e non si lascia fuoriuscire il loro succo, cosicché divengano gradevoli al gusto. Per questo motivo, noi riteniamo, (il sicomoro) è un simbolo per l'insieme dei popoli pagani: esso forma una gran quantità, ma è allo stesso tempo insipido. Ciò deriva dalla vita secondo le abitudini pagane. Quando si riesce a inciderla con il Logos, si trasforma, diviene gustosa e utilizzabile". Christian Gnilka commenta così questo passo: "In questo simbolo si trovano l'ampiezza, la ricchezza, la fastosità del paganesimo... ma anche si trova qui il suo limite: così come è, è insipido, inutilizzabile. Necessita di un cambiamento totale, ma questo cambiamento non distrugge la sostanza, ma le dà la qualità che le manca... I frutti restano frutti; la loro abbondanza non viene diminuita, ma riconosciuta come pregio... D'altra parte la trasformazione necessaria non potrebbe essere sottolineata in modo più forte dal punto di vista dell'immagine se non proprio dicendo che si rende commestibile, ciò che prima non era fruibile. Nella 'fuoriuscita' del succo inoltre sembra alludersi al processo di purificazione". Ancora una cosa si deve notare: la trasformazione necessaria non può derivare da una proprietà dell'albero e del suo frutto - è necessario un intervento del coltivatore, un intervento dall'esterno. Applicando questo al paganesimo, a ciò che è proprio della cultura umana, ciò significa: il Logos stesso deve incidere le nostre culture ed i suoi frutti, cosicché ciò che non era fruibile venga purificato e non divenga soltanto fruibile, ma buono. Osservando attentamente il testo e le sue affermazioni, possiamo aggiungere un'ulteriore considerazione: si, ultimamente è solo il Logos stesso, che può condurre le nostre culture alla loro autentica purezza e maturità, ma il Logos ha bisogno dei suoi servitori, dei "coltivatori di sicomori": l'intervento necessario presuppone competenza, conoscenza dei frutti e del loro processo di maturazione, esperienza e pazienza. Poiché Basilio parla qui dell'insieme dei pagani e delle loro abitudini, è evidente che in questa immagine non si tratta semplicemente della guida individuale delle anime, ma della purificazione e della maturazione delle culture, tanto più che la parola "abitudini" (mores) è una delle parole, che corrispondono presso i padri più o meno al nostro concetto di cultura. Così in questo testo è rappresentato esattamente ciò, su cui ci stiamo interrogando: il percorso dell'evangelizzazione nell'ambito della cultura, il rapporto del vangelo con la cultura. Il vangelo non sta accanto alla cultura. Non è rivolto semplicemente all'individuo, ma alla cultura, che plasma la crescita ed il divenire spirituale del singolo, la sua fecondità o infecondità per Dio e per il mondo. L'evangelizzazione non è neppure un semplice adattarsi alla cultura, ovvero un rivestirsi con elementi della cultura nel senso di un concetto superficiale di inculturazione, che ritiene siano sufficienti un paio di innovazioni nella liturgia e espressioni linguistiche cambiate. No, il vangelo è un taglio - una purificazione, che diviene maturazione e risanamento. E' un taglio, che esige paziente approfondimento e comprensione, cosicché esso sia fatto nel momento giusto, nella fattispecie giusta e nel modo giusto, che esige quindi sensibilità, comprensione della cultura dal suo interno, dei suoi rischi e delle sue possibilità nascoste o anche palesi. Così è evidente che questo taglio "non è affare di un momento, al quale dovrebbe poi semplicemente seguire una ovvia maturazione", ma è necessario un continuo paziente incontro fra il Logos e la cultura, mediato dal servizio dei credenti.

A me sembra che in tal modo veramente sia stato detto l'essenziale di ciò, che esige l'incontro oggi necessario fra fede e cultura. Così è anche corretta la concezione unilaterale, che oggi spesso associamo con il concetto di inculturazione. Forse è però pur sempre utile illustrare ancora brevemente in tre tesi ciò che si è voluto dire.

1. La fede cristiana è aperta a tutto ciò che di grande, vero e puro vi è nella cultura del mondo, come Paolo ha ben espresso nella lettera ai Filippesi: "Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri" (4,8). Paolo si riferisce qui certamente innanzitutto agli elementi essenziali della concezione morale stoica, che egli riteneva si avvicinasse al cristianesimo, ma in generale a tutto quello che di grande vi era nella cultura greco-romana. Ciò che egli ha detto in quell'ambiente, vale universalmente. Chi oggi evangelizza, innanzitutto ricercherà nella nostra cultura, ciò che in essa si apre al vangelo e si preoccuperà per così dire di sviluppare ulteriormente questi "semi del Verbo". Prenderà in considerazione naturalmente anche i contesti sociologici e psicologici, che oggi si oppongono alla fede o viceversa possono divenire punti di incontro. Il cristianesimo in passato aveva avuto inizio in una cultura cittadina ed era riuscito solo lentamente ad interessare la campagna: gli abitanti della campagna rimanevano "pagani". Si è poi associato alla cultura agraria ed oggi deve ritrovare nelle culture cittadine gli spazi, in cui poter porre la sua dimora. I 'movimenti', le nuove forme di itinerari alla fede nei pellegrinaggi, ecc., gli incontri nei santuari, le giornate della gioventù indicano dei modelli; su di ciò dovranno riflettere le Conferenze episcopali con i loro esperti.

2. La fede conosce e ricerca i punti di contatto, recupera ciò che vi è di buono, ma è anche opposizione a ciò, che nelle culture sbarra le porte al vangelo. E' un "taglio", come abbiamo sentito. E' quindi stata anche sempre critica delle culture e deve essere proprio anche oggi impavida e coraggiosa. Gli irenismi non aiutano nessuno. Hugo Rahner ha mostrato questo efficacemente nel suo lavoro sulla "pompa diaboli": del rito battesimale fa parte infatti la rinuncia alla "pompa del demonio". Che cosa è? da che cosa qui il cristiano si separava? Di fatto la parola si riferiva innanzitutto al teatro pagano, ai giochi del circo, nei quali lo scannamento di uomini era divenuto uno spettacolo ricercato, crudeltà, violenza, disprezzo dell'uomo era il culmine dell'intrattenimento. Ma con questa rinuncia al teatro si intendeva naturalmente tutto un tipo di cultura o detto meglio: la degenerazione di una cultura, dalla quale innanzitutto doveva separarsi colui che voleva diventare cristiano e che si impegnava a vedere nell'uomo un'immagine di Dio e a vivere come tale. Così questa rinuncia battesimale è espressione sintetica del carattere critico nei confronti della cultura che è tipico del cristianesimo ed un contrassegno per il "taglio", che qui si rende necessario. Chi non potrebbe vedere le analogie con il presente e le sue degenerazioni culturali?

3. Nessuno vive solo. Il richiamo al rapporto fra vangelo e cultura vuole mettere in luce questo. Divenire cristiano necessita un rapporto vitale, nel quale si possano realizzare risanamento e trasformazione della cultura. L'evangelizzazione non è mai soltanto una comunicazione intellettuale, essa è un processo vitale, una purificazione ed una trasformazione della nostra esistenza, e per questo è necessario un cammino comune. Perciò la catechesi deve necessariamente assumere la forma del catecumenato, nel quale si possano compiere i necessari risanamenti, nel quale soprattutto viene stabilito il rapporto fra pensiero e vita. Eloquente è al riguardo il racconto, che Cipriano di Cartagine (+ 258) ha dato della sua conversione alla fede cristiana. Egli ci racconta che prima della sua conversione e battesimo non poteva affatto immaginarsi, come si potesse mai vivere da cristiano e superare le abitudini del suo tempo. Egli fornisce in proposito una cruda descrizione di quelle abitudini, che ricorda proprio le Satire di Giovenale, ma anche fa pensare al contesto vitale, nel quale oggi devono vivere i giovani: si può qui essere cristiani? non è questa una forma di vita superata? Quanti si chiedono questo, a ragione in realtà parlando da un punto di vista puramente umano. Ma l'impossibile, così narra Cipriano, fu reso possibile per la grazia di Dio ed il sacramento della rinascita, che naturalmente è considerato nel luogo concreto, nel quale esso può divenire efficace: nel cammino comune dei credenti, che aprono una via alternativa da vivere e la mostrano come possibile. Qui siamo ora di nuovo al tema della cultura, al tema del "taglio". Infatti Cipriano parla proprio della violenza delle "abitudini", cioè di una cultura, che fa apparire la fede come impossibile. Più di cento anni dopo Gregorio di Nazianzo (+ 390) esalta la conversione di Cipriano con le seguenti parole: "Per le sue conoscenze... rendono testimonianza anche le opere, di cui egli compose molte e notevoli per il nostro argomento, dopo che, grazie alla bontà di Dio, 'che tutto crea' e 'volge al meglio' (Amos 5,8 LXX) egli aveva messo in salvo la sua formazione precedente portandola da questa parte e aveva sottomesso l'irragionevolezza alla ragione". Proprio perché egli sul cammino della conversione, mediante il taglio del Logos, ha trasformato la cultura del suo mondo, egli ha "messo in salvo" ciò che di essenziale e di vero essa conteneva. Mediante l'incisione nel sicomoro della cultura antica i Padri l'hanno nel complesso "messa in salvo" per noi e trasformata da strumento marcio in un frutto grandioso. Questo è il compito, che oggi è a noi proposto nei confronti della cultura secolarizzata del nostro tempo - questo è evangelizzazione della cultura.

Inculturazione o inter-culturalità? Cristo, la fede e le culture. Card. Joseph Ratzinger

iprendiamo sul nostro sito il testo della conferenza tenuta dall’allora cardinal Joseph Ratzinger in occasione dell’incontro dei vescovi della FABC (Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche), tenutosi ad Hong Kong nei giorni 2-6 marzo 1993. Il testo è stato tradotto da Piero Gheddo e Rodolfo Casadei e pubblicato su ASIA NEWS, n. 141, 1-15 gennaio 1994, con il titolo.


Con le sue ultime parole, il Signore risorto manda i suoi Apostoli fino agli ultimi confini della terra: "Andate e fate discepole tutte le nazioni, battezzandole ... e insegnate ad esse tutto quello che ho insegnato a voi" (Mt 28,19 ss.; At 1,8). Il cristianesimo entra nel mondo conscio di una missione universale. Fin dall’inizio i seguaci di Gesù Cristo sono coscienti del loro dovere di trasmettere la fede a tutti gli uomini. Essi vedevano nella fede un bene che non apparteneva solo a loro, ma che tutti avevano diritto di ricevere. Gli Apostoli sarebbero stati infedeli al loro Maestro, se non avessero portato fino agli estremi confini della terra ciò che avevano ricevuto. Il punto di partenza dell’universalismo cristiano non è un desiderio di potere, ma la certezza di aver ricevuto la conoscenza che salva e l’amore che redime, che tutti gli uomini hanno diritto di ricevere ed a cui aspirano fin dal profondo del loro essere. La missione non era percepita come un’operazione di conquista per esercitare il potere, ma come la trasmissione obbligatoria di quel bene che era stato dato per tutti e di cui tutti hanno bisogno. Oggi sono sorti dei dubbi circa l’universalità della fede cristiana. Molti non vedono più la storia della missione mondiale come la storia della diffusione della verità che libera e dell’amore, ma una storia di alienazione e di violenza. Questa nuova consapevolezza chiede a noi cristiani di riconsiderare radicalmente chi siamo e chi non siamo, cosa crediamo e cosa non crediamo, cosa abbiamo da dare agli altri e cosa non abbiamo da dare. Nel quadro di questa conversazione, posso solo tentare di compiere un piccolo passo in una così vasta problematica. La mia intenzione è di considerare il diritto e la capacità della fede cristiana di comunicare se stessa alle altre culture, di assimilarle e di diffondersi in esse. Essenzialmente, questo include tutti i problemi che riguardano il fondamento dell’esistenza cristiana. Perché credere in qualcosa? Esiste la verità, una verità raggiungibile dall’uomo e che tutti possono conoscere? Oppure siamo destinati, attraverso vari simboli, a scorgere solo alcuni bagliori della verità, che in realtà non ci è mai stata rivelata? Parlare della verità della fede è presunzione o dovere? Anche questi interrogativi non possono essere presi di petto e discussi nella loro integrale profondità. Noi li teniamo presenti nell’impostare la nostra discussione su fede e cultura.

1/ Cultura – Inculturazione – Incontro delle culture

Il nostro primo interrogativo è questo: cos’è la cultura? In quale rapporto sta con la religione e in che modo può essere in contatto con forme religiose che originariamente le erano estranee? Prima di tutto dobbiamo notare che è stata l’Europa moderna ad inventare un concetto di cultura nel quale la cultura appare come un campo distinto o anche in opposizione alla religione. In tutte le culture storicamente conosciute, la religione è l’elemento essenziale della cultura, anzi il nucleo determinante, caratterizzante. È la religione che determina le strutture dei valori e perciò dà ad essi la loro logica interna.

Ma se questo è vero, l’inculturazione della fede cristiana nelle altre culture appare ancor più difficile, poiché non si capisce come una cultura, che vive e respira la religione con cui è profondamente interconnessa, possa essere trapiantata in un’altra religione, senza che ambedue vadano in rovina. Se da una cultura togliete la religione che l’ha generata, la private del suo cuore. Potete metterle un nuovo cuore, il cuore cristiano, ma sembra inevitabile che l’organismo che non è orientato a ricevere questo nuovo cuore, debba alla fine rigettarlo come un corpo estraneo.

Una soluzione positiva è difficile da immaginare. L’operazione può solo aver senso se la fede cristiana e l’altra religione, con la cultura che essa ha originato, non sono in una situazione di radicale differenza e opposizione; se esse sono interiormente aperte l’una all’altra o, per dirla in altro modo, se esse naturalmente tendono ad avvicinarsi e ad unirsi. Perciò l’inculturazione presuppone la potenziale universalità di ogni cultura, che in tutte le culture la stessa natura umana sia al lavoro e che cercare l’unità è la comune verità della condizione umana come si esprime nelle culture. In altre parole, il programma di inculturazione ha senso solo se non si compie nessuna ingiustizia nei confronti di una cultura quando, data l’universale disposizione dell’uomo a cercare la verità, la cultura è aperta e viene sviluppata da una nuova potenza culturale.

Ne consegue che ogni elemento che in una cultura esclude questa apertura e scambio va giudicato come una deficienza di quella cultura, poiché l’esclusione degli altri va contro la natura dell’uomo. Il segno della nobiltà di una cultura è la sua apertura, la sua capacità di dare e di ricevere, che le permetta di essere purificata e di diventare più conforme alla verità e all’uomo.

Vorrei tentare di dare una definizione di cultura: è quella forma comune di espressione delle intuizioni e dei valori che storicamente s’è sviluppata e che caratterizza la vita di una comunità. Esaminiamo ora più da vicino gli elementi di questa definizione per comprendere meglio la possibilità di inter-comunicazione delle culture, secondo quanto indica il termine "inculturazione".

a) Anzitutto, la cultura ha a che fare con la conoscenza e i valori.
È un tentativo di comprendere il mondo e l’esistenza dell’uomo nel mondo, non in un senso puramente teorico, ma orientato agli interessi fondamentali dell’esistenza umana. La comprensione ci dovrebbe indicare come essere uomini, come l’uomo deve prendere il suo posto in questo mondo e come deve vivere per realizzare se stesso nella sua ricerca di successo e di felicità.

Tuttavia, nelle grandi culture, questo problema non è posto ai singoli individui, come se ciascuno debba pensare ad un modello di vita per venire a patti col mondo e con l’esistenza. Il singolo può riuscire solo con gli altri: il problema della retta conoscenza è dunque un problema di adeguata formazione della comunità. D’altra parte, la comunità è la condizione primaria, indispensabile per la realizzazione dell’individuo. Nella cultura noi trattiamo di una comprensione che è conoscenza, da cui nasce la prassi della vita, il modo di vivere; in altre parole, noi stiamo trattando di una conoscenza che comprende l’indispensabile dimensione dei valori o morale.

Possiamo aggiungere qualcosa d’altro che era evidente per tutti nel mondo antico. I problemi dell’uomo e del mondo sempre contengono la questione fondamentale di Dio. Non si può capire il mondo né vivere onestamente, se la domanda su Dio rimane senza risposta. In realtà, andando alla radice delle grandi culture possiamo dire che esse interpretano il mondo per ordinarlo alla divinità.

b) La cultura, in un senso classico, include l’andare oltre le cose visibili per raggiungere le cause reali: così la cultura, nel suo nucleo più profondo, significa un’apertura al divino. A ciò, come già abbiamo visto, è collegata la nozione secondo cui l’individuo trascende se stesso nella cultura e si trova portato in un soggetto sociale più vasto, di cui eredita le intuizioni, dà ad esse continuità e le sviluppa. La cultura è sempre unita ad un soggetto sociale che da un lato assume le esperienze dell’individuo e, dall’altro, aiuta a formarle.

Il soggetto comune conserva e sviluppa le intuizioni che superano le capacità di un individuo; intuizioni che possono essere definite pre-razionali e super-razionali. In questo modo, le culture richiamano la sapienza degli "antenati", che furono più vicini agli dèi; esse richiamano le primordiali tradizioni che hanno carattere di rivelazione, cioè non vengono da un’indagine e decisione umana, ma da un originario contatto con la radice di tutte le cose. In altre parole, le culture indicano una comunicazione da parte della divinità[1].

La crisi di una cultura, di conseguenza, viene quando quella cultura non è più capace di portare avanti l’eredità sopra-razionale, mettendola in relazione in modo convincente con una nuova conoscenza critica. In questo caso, la verità ereditata viene messa in questione; quello che una volta era verità diventa solo abitudine, costume e perde la sua vitalità.

c) Un altro punto importante è questo: le società camminano e le culture hanno a che fare con la storia. Nel suo viaggio attraverso il tempo, la cultura si sviluppa incontrando nuove realtà e con l’emergere di nuove intuizioni.

La cultura non è isolata dal fiume dinamico del tempo, formato da tante correnti culturali che muovono verso l'unità. La storicità di una cultura significa la sua capacità di progredire e questo dipende dalla sua capacità di essere aperta e di trasformarsi attraverso l’incontro.

In realtà, si potrebbe distinguere tra culture cosmico-statiche e culture storiche. Le antiche culture, come si dice, descrivono il mistero del cosmo che è sempre uguale, mentre il mondo culturale giudeo-cristiano concepisce il rapporto con Dio come storia. La storia è dunque fondamentale a questo mondo culturale. La distinzione fra culture statiche e culture dinamiche è corretta, ma non dice tutto, in quanto le culture statiche credono nella morte e nella rinascita, alla condizione umana come cammino. Come cristiani noi diciamo che esse contengono una dinamica messianica, ma questo è un tema su cui ritorneremo in seguito[2].

I nostri piccoli sforzi per chiarificare le categorie di base del concetto di cultura ci aiutano a capire meglio come le culture possono incontrarsi e intercomunicare. Possiamo ora dire che l’attaccamento ad una identità culturale, ad una particolare espressione culturale, è la base per la molteplicità delle culture e le loro rispettive caratteristiche.

D’altra parte possiamo constatare che la storicità di una cultura, il suo movimento attraverso il tempo, comprende il suo essere aperta. Una singola cultura non vive solamente la propria esperienza di Dio, del mondo e dell’uomo. Piuttosto, necessariamente, incontra sulla sua via altre culture con le loro esperienze tipicamente differenti, e deve confrontarsi con esse.

Così, una cultura approfondisce e raffina le proprie intuizioni e valori, nella misura in cui è aperta o chiusa, internamente vasta o stretta. Questo può portare ad una profonda evoluzione della sua primitiva configurazione culturale e questa trasformazione non può in nessun modo essere definita alienazione o violazione. Una trasformazione ben riuscita è spiegata dall’universalità potenziale di tutte le culture, che diventa concreta in una data cultura attraverso l’assimilazione delle altre e la sua interna trasformazione.

Un tale procedimento può anche risolvere l’alienazione latente dell’uomo dalla verità e da se stesso, che una cultura può albergare. Può significare la Pasqua di salvezza di una cultura: mentre sembra morire, la cultura realmente nasce, ritrovando pienamente se stessa per la prima volta.

Per questo motivo noi non dovremmo più parlare di "inculturazione", madi incontro di culture o "inter-culturalità", se vogliamo forgiare una nuova espressione. Infatti l’inculturazione presume che la fede, liberata dalla cultura, sia trapiantata in un’altra cultura religiosamente indifferente, dove due soggetti, sconosciuti l’uno all’altro, si incontrano e si fondono.

Ma questo modo di concepire l’incontro della fede con le culture è anzitutto artificiale e irrealistico, perché, con l’eccezione della civiltà moderna tecnologica, non esiste una fede senza cultura o una cultura senza fede. È difficile immaginare come due organismi, estranei l’uno all’altro, possano diventare improvvisamente un insieme coerente in un trapianto che arresta lo sviluppo di ambedue. Invece, se è vero che le culture sono potenzialmente universali e aperte l’una all’altra, l’inter-culturalità può portare a una fioritura di nuove forme.

Fino a questo punto abbiamo espresso considerazioni che possono essere definite fenomenologiche, cioè abbiamo notato come le culture agiscono e si sviluppano. Facendo questo, abbiamo ragionato sulla potenziale universalità di tutte le culture, come espressione fondamentale dell’idea che la storia va verso l’unificazione.

Ma allora noi ci chiediamo: perché è così? Perché tutte le culture sono particolari e quindi diverse l’una dall’altra? Perché esse sono, allo stesso tempo, aperte a tutte le altre culture e capaci di reciproco scambio, purificazione, perfezionamento? Non voglio dare una risposta positivista a questi interrogativi, anche se esiste.

A me sembra che proprio nel nostro caso il riferimento alla metafisica non può essere evitato. L’incontro delle culture è possibile perché l’uomo, nonostante tutte i divergenti cammini della sua storia e dei suoi sistemi sociali, rimane un unico ed identico essere. Quest’unico uomo, tuttavia, è segnato in profondità nella sua esistenza dalla verità. La fondamentale apertura di ogni persona all’altra può essere spiegata solo dal fatto misterioso che le nostre anime sono state toccate dalla verità; e questo spiega la sostanziale concordanza che esiste anche fra le culture più lontane l’una dall’altra.

D’altra parte, la diversità che porta all’isolamento è attribuibile alla limitatezza dello spirito umano. Nessuno afferra il tutto. Le miriadi di intuizioni e di forme sono una specie di mosaico che rivela la loro complementarietà e la loro interconnessione. Per essere se stesso, ciascuno ha bisogno dell’altro. L’uomo si avvicina all’unità e alla totalità del suo essere solo nella reciprocità di tutte le grandi realizzazioni culturali.

In realtà dobbiamo riconoscere che questa diagnosi ottimistica non corrisponde alla realtà dei fatti. La potenziale universalità delle culture si scontra sempre di nuovo con ostacoli insormontabili, quando tentiamo di tradurla in un’universalità pratica, poiché non si tratta solo della forza dinamica di ciò che noi abbiamo in comune.

Dobbiamo anche considerare gli elementi di separazione, le barriere e le contraddizioni, l’impossibilità di raggiungere l’altra sponda perché le acque che ci dividono sono troppo profonde e non esistono ponti. Abbiamo parlato dell’unità dell’essere umano, toccato da Dio in modo misterioso attraverso la verità. Ma ci rendiamo anche conto che esiste un fattore negativo nell’esistenza umana, un’alienazione che ostacola la conoscenza e taglia fuori l’uomo, almeno in modo parziale, dalla verità e, perciò, impedisce agli uomini di incontrarsi.

In questo innegabile fattore di alienazione sta la povertà dei nostri sforzi per promuovere l’incontro delle culture. Da questo fatto, mentre possiamo dedurre che è sbagliato accusare tutte le religioni della terra di idolatria, sarebbe anche scorretto considerare tutte le religioni solo in modo positivo. Non dobbiamo dimenticare la critica della religione che non solo Feuerbach e Marx, ma anche grandi teologi come Karl Barth e Bonhoeffer hanno acceso come un fuoco nelle nostre anime.

2/ Fede e cultura

Veniamo alla seconda parte delle nostre considerazioni. Abbiamo discusso l’essenza della cultura e le condizioni che permettono l’incontro delle culture, il loro reciproco influsso che origina la nascita di nuove forme culturali. Dal piano dei princìpi dobbiamo ora scendere a quello dei fatti.

Ma prima riassumiamo i risultati essenziali delle nostre riflessioni e chiediamoci cosa può unire le culture in modo che non siano solo superficialmente appiccicate l’una all’altra, ma il loro incontro diventi occasione per il mutuo arricchimento e perfezionamento. Il mezzo che può unire le culture non può essere altro che la verità partecipata sull’uomo, la quale necessariamente chiama in gioco la verità su Dio e sulla realtà del mondo nel suo complesso.

Una cultura, più è umana e più è grande, più esprimerà la verità che in precedenza ignorava e più sarà capace di assimilare la verità e sarà essa stessa assimilata dalla verità. A questo punto, la speciale comprensione di se stessa della fede cristiana diventa manifesta.

La fede cristiana, se è vigile e onesta, sa benissimo che c’è una buona parte di umano nelle sue espressioni culturali particolari, molto del quale necessita di essere purificato e aperto.

Ma la fede cristiana è anche certa che il suo nucleo fondamentale è la rivelazione della verità stessa e perciò è la redenzione. Poiché la vera povertà dell’uomo è essere all’oscuro della verità, il che falsifica le nostre azioni e ci scatena l’un contro l’altro, appunto perché siamo corrotti, alienati da noi stessi, tagliati fuori dalla radice del nostro essere, che è Dio.

La comunicazione della verità porta alla liberazione dall’alienazione e dalla divisione, ci dà il criterio universale di giudizio, che non fa violenza ad alcuna cultura, anzi conduce ciascuna al suo proprio centro, dato che ogni cultura è in fondo attesa della verità.

Questo non significa uniformità. Proprio l’opposto. Solo quando questo si verifica l’opposizione tra le culture può diventare complementarietà poiché ogni cultura, basata su un comune criterio di giudizio, può ora portare i suoi frutti particolari.

Questo è il grande mandato col quale la fede cristiana venne al mondo; esso sottolinea l’intimo impegno di mandare tutti i popoli alla scuola di Gesù, poiché Egli è la verità in persona e quindi la via dell’umanità. Non è qui il caso di discutere la legittimità del mandato missionario, ma ritorneremo su questo punto. Chiediamoci ora: quali conclusioni possiamo trarre da quanto detto finora riguardo al concreto rapporto della fede cristiana con le culture del mondo?

Primo, possiamo dire che la fede stessa è cultura. Non esiste la nuda fede o la pura religione. In termini concreti, quando la fede dice all’uomo chi egli è e come deve incominciare ad essere uomo, la fede crea cultura. La fede è essa stessa cultura.

La parola fede non è un’astrazione; è maturata attraverso una lunga storia e rapporti interculturali nei quali essa ha formato un organico sistema di vita, l’interazione dell’uomo con se stesso, i suoi vicini, il mondo e Dio. Questo significa anche che la fede è, in se stessa, una comunità che vive in una cultura, che noi chiamiamo "Popolo di Dio".

Il carattere storico della fede come soggetto può essere forse più chiaramente espresso da questo concetto. Significa questo che la fede si pone come una cultura fra le altre, così che uno debba scegliere se appartenere a questo popolo, come comunità culturale, o ad un altro? No. A questo punto appare evidente ciò che è speciale e proprio di una cultura.

Il soggetto culturale "Popolo di Dio" differisce dalle culture classiche, che sono definite dalla tribù, dal popolo o dai confini di una comune regione, mentre il Popolo di Dio esiste nelle diverse culture le quali, pur diventando cristiane, non cessano di essere culture in modo primario e non relativo.

Il cristiano non cessa di essere francese, tedesco, americano, indiano, ecc. Nel mondo pre-cristiano, anche nelle grandi culture dell’India, Cina e Giappone, l’identità e l’indivisibilità del soggetto culturale rimane. Una doppia appartenenza è impossibile, con l’eccezione del buddhismo, capace di inserirsi in altre culture come una specie di principio interno.

Ma la doppia appartenenza culturale incomincia in modo consistente con la cristianità, così che l’uomo vive oggi in due mondi culturali, la sua cultura storica e quella nuova della fede: ambedue contribuiscono a formare la sua identità. Questa interazione non porterà mai ad una sintesi compiuta, poiché essa include la necessità di continui sforzi verso la riconciliazione e la perfezione.

Sempre di nuovo l’uomo deve imparare la trascendenza verso la totalità e l’universalità che sono proprie non di un popolo specifico, ma precisamente del Popolo di Dio che abbraccia tutti gli uomini. D’altra parte, sempre più quanto è posseduto in comune dev’essere ricevuto nel campo del particolare e vissuto o anche sofferto nella storia concreta.

Da tutto questo deriva qualcosa di molto importante. Si potrebbe pensare che la cultura è un problema della storia di ogni singolo paese (Germania, America, Francia, ecc.), mentre la fede per parte sua è alla ricerca di un’espressione culturale. Le singole culture dovrebbero quindi fornire alla fede un corpo culturale per esprimersi. Di conseguenza, la fede dovrebbe sempre vivere in culture imprestate che rimangono alla fine in qualche modo esterne e corrono il rischio di essere gettate via. Soprattutto, una forma culturale imprestata non potrebbe parlare a chi vive in un’altra cultura. Così l’universalità diventerebbe alla fine fittizia.

Questo modo di pensare è, alla sua radice, manicheo. La cultura è svilita, diventa un guscio intercambiabile, e la fede è ridotta ad uno spirito disincarnato, ultimamente privo di realtà. Una simile visione è tipica della mentalità post-illuministica. La cultura è ridotta ad una pura forma e la religione a mero sentimento inesprimibile o puro pensiero. Si perde la feconda tensione che dovrebbe caratterizzare la coesistenza di due soggetti.

Se la cultura è più di una pura forma o principio estetico, se essa è piuttosto l’ordinamento di valori in una forma storica e vivente e non può prescindere dal problema di Dio, allora noi non possiamo evitare che la Chiesa sia per il fedele il suo proprio soggetto culturale. Questo soggetto culturale: Chiesa, Popolo di Dio, non coincide con alcun altro soggetto culturale storico, anche in tempi di apparente piena cristianizzazione, come si pensa sia stata raggiunta nell’Europa del passato. Piuttosto la Chiesa mantiene, significativamente, la sua forma culturale come una volta, un arco al di sopra di tutte le altre culture.

Se le cose stanno così, quando la fede e la sua cultura incontrano un’altra cultura fino a quel momento ad essa estranea, non si tratta di dissolvere la dualità delle culture a vantaggio di una o dell’altra. Entrare in una cristianità privata del suo carattere umano, al prezzo di perdere la propria eredità culturale, sarebbe un errore allo stesso modo che se la fede abbandonasse la sua propria fisionomia culturale. Veramente la tensione è fruttuosa, poiché essa rinnova la fede e guarisce la cultura.

Sarebbe dunque insensato offrire una sorta di cristianesimo pre-culturale o deculturato, che dovrebbe privare se stesso della sua forza storica e degradarsi ad un vuoto contenitore di idee. Non dobbiamo dimenticare che già nel Nuovo Testamento il cristianesimo è frutto di una storia culturale, storia di accettazione e di rifiuto, di incontro e cambiamento. La storia della fede in Israele, che è stata assunta dal cristianesimo, trovò la sua propria forma nel confronto con le culture egiziana, ittita, sumera, babilonese, persiana e greca. Tutte queste culture erano allo stesso tempo religioni, totalizzanti forme storiche di modi di vivere.

Israele, con sofferenza, le adottò e trasformò nel corso della sua lotta con Dio e con i grandi profeti, in modo da preparare un vaso più puro per la novità della rivelazione dell’unico Dio. Così, queste altre culture raggiunsero la loro definitiva realizzazione. Esse sarebbero scomparse nel lontano passato, se non fossero state purificate ed elevate nella fede della Bibbia, raggiungendo così la loro permanenza.

In verità, la storia della fede in Israele incomincia con la chiamata di Abramo: "Esci dalla tua terra, dalla tua stirpe e dalla casa di tuo padre" (Gen 12, 1): incomincia con una rottura culturale. Questa rottura con la sua storia precedente, questo andare oltre segnerà sempre l’inizio di una nuova epoca nella storia della fede.

Ma questo nuovo inizio si manifesta come un potere risanante e capace di attirare a sé tutto quello che è umano, tutto ciò che viene realmente da Dio. "Quando sarò elevato da terra, attirerò a me tutti gli uomini" (Gv 12, 31): queste parole del Signore risorto si applicano anche qui. La croce è prima di tutto rottura, espulsione, elevazione dalla terra, ma proprio per questo diventa un nuovo centro di attrazione magnetica, che orienta la storia del mondo verso l’alto e raduna gli uomini divisi.

Chiunque entra nella Chiesa deve essere cosciente di entrare in un soggetto culturale con la sua inter-culturalità che s’è sviluppata nella storia con molteplici manifestazioni. Non si può diventare cristiani senza un certo "esodo", una rottura con la precedente vita in tutti i suoi aspetti. La fede non è una via privata a Dio, essa conduce dentro al Popolo di Dio e nella sua storia. Dio ha legato se stesso ad una storia che ora è anche la sua e che noi non possiamo rifiutare. Cristo resta uomo in eterno, egli conserva il suo corpo nell’eternità. Essendo uomo e avendo un corpo, inevitabilmente questo include una storia e una cultura, una particolare storia e cultura, lo vogliamo o no.

Noi non possiamo replicare l’avvenimento dell’incarnazione per accontentare noi stessi, nel senso di rimuovere la carne di Cristo e offrirgliene un’altra. Cristo rimane Se stesso, col Suo vero corpo. Ma Egli ci attira a sé.

Questo significa che, poiché il Popolo di Dio non è una particolare entità culturale, ma invece è stato tratto da tutti i popoli, perciò la sua stessa primaria identità culturale, nata dalla rottura, ha il suo posto. Ma non solo questo. La prima identità è necessaria per permettere all’Incarnazione di Cristo, del Logos, di raggiungere la sua pienezza. La tensione dei molti soggetti nell’unico soggetto appartiene essenzialmente al dramma non ancora completato dell’Incarnazione del Figlio. Questa tensione è il reale e intimo dinamismo della storia, che si sviluppa sotto il segno della Croce, cioè, sempre deve lottare contro le spinte contrarie della chiusura mentale e del rifiuto.

3/ Fede cristiana e religioni non cristiane nell’attuale situazione storica

Se Gesù di Nazareth è veramente l’Incarnazione del senso della storia, il Logos, l’auto-manifestazione della verità, allora è chiaro che questa verità è il luogo dove ciascuno può essere riconciliato e non perde nulla della propria dignità e del proprio valore.

Ma a questo punto oggi si sollevano varie obiezioni. Affermare che le concrete asserzioni di una religione sono vere è considerato oggi non solo presunzione, ma un segno di non essere illuminati. Hans Kelsen esprime lo spirito del nostro tempo quando sostiene che la questione posta da Pilato "Cosa è la verità?" è il solo punto di vista adeguato di fronte ai gravi problemi morali e religiosi dell’umanità.

La verità è sostituita dalla decisione della maggioranza, egli dice, precisamente perché non c’è alcun modello vincolante e accessibile per l’uomo [3]. Così la molteplicità delle culture diventa la prova della loro relatività. La cultura è messa in opposizione alla verità. Questo relativismo, sentimento basilare dell’uomo illuminista che oggi è penetrato profondamente nella teologia, è il più grave problema del nostro tempo. È anche il motivo fondamentale per cui la prassi ha preso il posto della verità e così ha spostato l’asse delle religioni.

Noi non sappiamo cosa è vero, ma noi sappiamo cosa dobbiamo fare, cioè annunziare una società migliore, il "regno", come spesso si dice, prendendo una parola biblica ed usandola in un senso profano, utopico. La centralità della Chiesa, di Cristo e di Dio, tutto questo sembra essere sostituito dalla centralità del regno, come compito comune a tutte le religioni, in cui tutte si possono incontrare[4].

Così non c’è più motivo per cui le religioni debbano essere conosciute nel loro nucleo essenziale o che si debbano mettere in relazione reciproca nei loro messaggi morali e religiosi. Al contrario, le religioni sono distorte nella loro profonda essenza, in quanto ci si attende che esse servano come mezzi per una futura struttura che in realtà è estranea ad esse e le svuota di contenuto.

Il dogma del relativismo agisce anche in un’altra direzione. L’universalismo cristiano portato avanti nella missione non è più la doverosa trasmissione di un bene, cioè della verità e dell’amore validi per tutti gli uomini. La missione diventa invece l’arrogante presunzione di una cultura che si ritiene superiore alle altre e così le spoglia di ciò che hanno di buono e di caratteristico.

Le conclusioni che derivano da questo relativismo differiscono da cultura a cultura, anche se la spinta di base è comune. Nell’America Latina vi è oggi un movimento sotterraneo che si definisce "teologia india", in riferimento ai popoli indigeni. Il movimento lamenta la scomparsa delle antiche religioni di questo continente e vorrebbe in qualche modo richiamarle in vita. Le religioni sono viste come vie dei differenti popoli a Dio, egualmente e fondamentalmente valide per la salvezza. Ogni popolo ha il diritto alla sua propria via. L’America Latina deve al fine essere liberata dall’alienazione che ha sperimentato quando il cristianesimo occidentale fu imposto su di essa.

La situazione è abbastanza diversa in Africa dove, in contrasto con l’America Latina, le religioni tribali originali sono ancora vigorose. Ma anche qui si verifica un movimento di ritorno al passato, dovuto al dubbio su di sé che affligge oggi il cristianesimo e alla riduzione della sua essenza religiosa a puri imperativi morali.

Perché l’Africa dovrebbe gettar via la sua identità religiosa, in favore di una religione la cui proclamazione e impiantazione appare a molti, in una visione retrospettiva, come un altro aspetto alienante della colonizzazione imposta agli africani?

Chiunque esamina questi problemi da vicino, si rende subito conto che non può esserci alcun semplice ritorno al passato. Non solo perché la convergenza dell’umanità verso una singola comunità con una vita e un destino comune è un movimento inarrestabile (essendo questa tendenza fondata nell’essenza dell’essere umano), ma anche perché la diffusione della civiltà tecnologica è irrevocabile. È un sogno romantico quello di preservare isole pre-tecnologiche nel mare dell’umanità. Non potete chiudere uomini e culture in una specie di riserva naturale spirituale.

In pratica nessuno, sia in America Latina che in Asia e in Africa, vuole seriamente escludere se stesso dalla scienza naturale e dalla tecnologia che ebbero origine in Occidente. Ma poiché la tecnologia come scienza naturale appare neutrale, alcuni dicono: perché non accettare le realizzazioni dell’epoca moderna, mantenendo allo stesso tempo le religioni indigene?

Quest’idea così apparentemente illuminata non funziona. Poiché in realtà la moderna civiltà non è pura moltiplicazione di conoscenza e di metodi. Essa è profondamente fondata sul modo di intendere l’uomo, il mondo e Dio; essa cambia i modelli e i comportamenti e capovolge l’interpretazione del mondo alla base. La visione sacrale del cosmo è necessariamente scossa. L’arrivo di queste nuove possibilità di esistenza è come un terremoto che scuote il panorama intellettuale fin dalle sue fondamenta.

In ogni modo, succede sempre più di frequente che la fede cristiana è scartata come un’eredità culturale europea e le antiche religioni sono ripristinate, mentre, allo stesso tempo, la tecnologia, sebbene indubbiamente occidentale, viene adottata e utilizzata con passione. Questa divisione dell’eredità occidentale nell’utile che viene accettato e nello straniero che viene rifiutato, non porterà le antiche culture alla salvezza.

Oggi si può vedere che quello che è grande e profetico, cioè la dimensione messianica delle antiche religioni, entra in crisi perché sembra incompatibile con la nuova conoscenza del mondo e dell’uomo, mentre il magico (nel senso lato della parola), tutto quello che promette potere sul mondo, rimane intatto e diventa per la prima volta determinante per la vita. Così le religioni perdono la loro dignità, poiché quello che in esse è il meglio viene eliminato e resta solo quello che è pericoloso.

La situazione dell’Asia riguardo al cristianesimo è diversa da quella dell’America Latina e dell’Africa nera. Qui infatti non abbiamo a che fare con culture tribali senza scrittura, ma con alte culture religiose, che hanno anche prodotto un vasto patrimonio di testi sacri e scritti filosofici e di riflessione teologica. In Africa, il cristianesimo incontrò le religioni indigene in un momento in cui le stesse, piene di giovanile vigore, erano ancora alla ricerca di una definitiva parola.

Si può riconoscere una certa analogia con la situazione del mondo mediterraneo nel momento del suo incontro con Cristo, anche se l’analogia contiene tante differenze quante sono le somiglianze, come in tutte le analogie. La prima proclamazione del cristianesimo al mondo greco-romano si trovò di fronte a religioni che erano moribonde, avevano perso la loro credibilità e vitalità. La gente era alla ricerca di un qualcosa di nuovo. Possiamo dire che c’era un’aspirazione al monoteismo, a conoscere l’unico Dio sopra tutti gli dei. La filosofia lo vedeva da lontano, ma non era in grado di indicare il cammino verso di Lui; come filosofia, non poteva sostituire la religione.

Qui la proclamazione cristiana fu la risposta interiormente attesa che afferrò il pensiero filosofico e lo riempì con una realtà religiosa. In Africa esisteva e tuttora c’è una simile esigenza di autotrascendenza delle religioni tribali. Anche queste non sono adeguate alle esigenze del momento storico. L’islam e il cristianesimo stanno tentando di rispondere ai problemi posti dalle religioni stesse.

La situazione è diversa in Cina e Giappone, poiché le religioni tradizionali hanno prodotto sistemi filosofici che interpretano il mondo nel suo complesso e inquadrano razionalmente la religione nella struttura della vita e della cultura. Perciò qui il cristianesimo non ha potuto essere sperimentato come nel Mediterraneo o anche nell’Africa nera, come un nuovo passo avanti nel cammino di questi popoli, che già va in quella direzione. Invece, il cristianesimo è apparso più come una cultura e una religione straniera che si è collocata accanto a quelle asiatiche, minacciando di soppiantarle. Per questo motivo, le conversioni al cristianesimo sono rimaste largamente marginali nel quadro dell’intera società.

Tuttavia, il confronto tra i mondi religiosi cristiano e asiatico non è rimasto senza effetto, ma ha condotto ad un profondo processo di trasformazione, specie nella religiosità. Il neo-induismo come rappresentato da Radhakrishnan, ad esempio, viene dalla fusione delle tradizioni indiane con una tarda forma di cristianesimo occidentale.

Senza dubbio si può definire una sintesi di cultura e religione, ma forse può essere meglio compresa come una forma di filosofia della religione, in cui il moderno relativismo occidentale si fonde con la spiritualità orientale ed offre una specie di base razionale per prospettive religiose e cultuali che di sicuro hanno perso in gran parte il loro senso originario in questa nuova visione. Se in questo caso il momento indiano è determinante nella sintesi, si può dire che in Panikkar si verifica un’unione in cui l’accento è posto sulla componente cristiana. Ma anche qui si tratta più di filosofia della religione che di religione.

Al di là di questi tentativi, bisogna trovare una via di incontro autentico di culture e religioni, caratterizzato non dalla perdita di fede o di verità ma da un più profondo contatto con la verità, che renda possibile dare a tutto ciò che è maturato in passato il suo pieno e profondo significato. Questa sintesi di verità non può essere inventata a tavolino, altrimenti non supererà lo status di filosofia o di pura teoria. Piuttosto è indispensabile un processo di fede vissuta, che crei la capacità di incontrare nella verità e così, come dice il Salmo, "porre le cose in un vasto spazio" (31,8). Ma naturalmente questo processo deve essere guidato e ordinato a pensare la fede.

Questo è il grande compito che la teologia in Asia nel nostro tempo deve affrontare, un compito che nello stesso tempo riguarda tutta la Chiesa. Il nostro incontro qui a Hong Kong dovrebbe essere un incoraggiamento a intraprendere questo lavoro e nello stesso tempo aiutarci a chiarificare i necessari principi che ne sono coinvolti. I Padri della Chiesa possono mostrarci la via per conseguire i retti principi poiché essi hanno affrontato un simile compito nel loro incontro con le religioni dell’area del Mediterraneo, con le loro endemiche filosofie della religione.

Infatti, sebbene la fede negli dei e quindi il significato immediato degli antichi culti si fossero disintegrati, vennero concepite nuove giustificazioni filosofiche delle religioni pagane che mostrano caratteristiche molto simili alle filosofie della religione del nostro secolo, per esempio a quella di Radhakrishnan.

Citerò soltanto due esempi notevoli. Il primo ce lo fornisce il retore romano Simmaco (ca. 345-402), che difese appassionatamente la preservazione dell’antica religione romana. Egli divenne famoso soprattutto per la sua richiesta a Cesare di reinstallare la statua della dea Vittoria nel Senato romano. La frase chiave del suo memorandum contenente la richiesta recita: uno itinere non potest veniri ad tam grande secretum, non si può accedere a un così grande mistero per un’unica strada.

Questa frase è una classica espressione dell’idea romana di religione: il mistero divino è così grande che nessuna via umana può esaurirlo, nessuna religione può circoscriverlo. Può essere accostato solo da lati diversi e deve essere rappresentato in varie forme. Simmaco non voleva abolire il cristianesimo, voleva soltanto integrarlo nella sua concezione di religione. Il cristianesimo doveva imparare a considerarsi come un modo di vedere, cercare e parlare di Dio, ammettendo che ci sono anche altri modi. Anche il cristianesimo non può pretendere di esaurire il grande mistero.

Forse la questione si può capire ancora meglio nel caso dell’imperatore Giuliano l’ApostataLa sua principale critica al cristianesimo e la sua decisa obiezione all’ebraismo riguardavano il primo comandamento. Non poteva e non voleva ammettere l’unicità dell’unico Dio.

Anche il Dio di Israele, il Dio di Gesù Cristo, era per lui soltanto una manifestazione del divino, che non esauriva il "grande mistero". Per questo motivo, il Dio dell’Antico Testamento, il Dio dei cristiani doveva tollerare altri dei oltre a Sé. Per questa ragione, il Nazareno non poteva essere riconosciuto come il Logos incarnato che è l’unico mediatore per tutta l’umanità. Nella polemica col politeismo filosofico illuminato i Padri della Chiesa hanno individuato i fondamenti della fede biblica: relativizzarli significa annullare questa fede e privarla della sua identità. Ciò che resterebbe dopo l’abbandono sarebbero elementi selezionati di tradizione biblica, ma non la fede della Bibbia in quanto tale.

Tenterò brevemente di indicare questi elementi fondamentali che i Padri hanno derivato dalle Sacre Scritture.

a) Il primo grande comandamento è allo stesso tempo il primo articolo di fede e il principio fondativo di identità della fede: "Il Signore, nostro Dio, è un solo Signore". Tutti gli "dei" non sono Dio. Pertanto solo l’unico Dio può essere adorato nella verità; adorare altri dei è idolatria. Senza questa fondamentale decisione non c’è cristianesimo.

Dove essa è dimenticata o relativizzata, ci si trova fuori della fede cristiana. Cristologia, ecclesiologia, adorazione e sacramento possono essere correttamente trattati solo quando esiste questa decisione. Il cristianesimo rivoluzionò il mondo antico con questa confessione di fede. Il mondo antico aveva preso le mosse dal principio esattamente opposto, nuovamente formulato dall’imperatore Giuliano alla fine dell’antichità.

Certamente l’unico Dio non è un tema sconosciuto nella storia della religione. In realtà si può dire che la grande maggioranza delle religioni ne ha nozione. Pertanto esse sanno che gli dei non rappresentano la potenza ultima, ma solo potenze relative. In generale le religioni sono anche coscienti che gli "dei" non sono "Dio".

Allo stesso tempo, l’unico Dio è spesso privo di culto, o almeno è privo di importanza livello di culto, poiché è troppo lontano dalla vita dell’uomo. Pertanto le pratiche cultuali sono indirizzate agli dei, dimodoché nelle religioni Dio è spesso nascosto quasi interamente dietro gli dei per quanto riguarda tutti gli aspetti pratici. La fede cristiana è consistita, per il mondo mediterraneo e poi ancora per l’America latina e per l’Africa, in una liberazione dagli dei perché ora l’unico Dio si è mostrato ed è diventato il "Dio con noi".

Le parole cruciali con cui Gesù respinge Satana, il tentatore dell’umanità, recitano: "Adorerai il Signore Dio tuo e Lui solo servirai" (Mt 4,10; Lc 4,8; Dt 5,9; 6,13). Senza l’accettazione di questo comando non ci si può collocare dalla parte di Gesù Cristo nella religione professata dalla Bibbia.

b) L’esistenza cristiana comincia con questa decisione fondamentale e si fonda sempre su di essa. Quando scompare la differenza fra adorazione e idolatria, il cristianesimo è distrutto. La Bibbia e il linguaggio dei Padri chiamano "conversione" (metanoia) la necessaria decisione.

Una teologia che omettesse il concetto di conversione trascurerebbe la categoria decisiva della religione biblica. La fede cristiana è un nuovo inizio, e non semplicemente una nuova variante culturale di una strutture religiosa sempre in via di svolgimento. Per questo motivo i Padri sottolineavano con enfasi la novità del cristianesimo.

L’atto della conversione è essenziale alla speciale comprensione della verità dei cristiani. In un grande numero di religioni, come abbiamo visto, la realtà del Dio unico non è certamente sconosciuta, ma questo Dio unico è troppo distante. Il suo mistero è inaccessibile. Così i contenuti concreti della religione possono essere solo di natura simbolica. Essi non sono la verità, ma manifestazioni parziali al di là delle quali sono possibili altre manifestazioni.

La fede cristiana riconosce nel Dio di Israele, nel Dio di Gesù Cristo, l’unico vero Dio, la verità stessa che si manifesta. Pertanto la conversione cristiana è nella sua essenza fede nel fatto della rivelazione di sé che la verità attua. Mentre il mistero non è per questo abolito, il relativismo è senza dubbio escluso, poiché esso separa l’uomo dalla verità facendone uno schiavo. La reale povertà dell’uomo consiste nell’oscurità rispetto alla verità. Egli diventa libero per la prima volta quando è obbligato a servire la sola verità.

Tuttavia un altro punto è importante in questa riflessione. I Padri hanno anzitutto enfatizzato con molto vigore il carattere della conversione come decisione e di conseguenza il carattere della fede come esodo. Una volta garantito questo punto, hanno sempre più sottolineato il secondo aspetto, cioè che la conversione è trasformazione, non distruzione.

La conversione non distrugge le religioni e le culture, ma le trasforma. Sulla base di questa intuizione, i Padri giunsero sempre più a opporsi all’iconoclastia di fanatici cristiani dalla visuale ristretta. I templi non furono più smantellati, ma trasformati in chiese. La profonda continuità fra le religioni e la fede cristiana divenne visibile.

Essa condusse alla resurrezione del meglio delle antiche religioni. Non fu una filosofia della religione relativistica che diede ad esse esistenza continuata; in realtà, proprio questa filosofia in un primo momento le aveva rese inutili. La fede diede alle religioni lo spazio in cui la loro verità potè svilupparsi e dare frutti. Entrambi gli aspetti dell’atto di conversione sono importanti, ma solo dopo che è stato compiuto il primo passo, cioè la svolta decisiva verso l’unico Dio, può seguire il secondo, la conservazione trasformante.

c) Il mistero di Gesù Cristo può essere compreso solo in questo contesto del primo comandamento e dell’atto di conversione che esso esige. Per Gesù, che non abolì il Vecchio Testamento ma lo portò a compimento, il primo comandamento rimase il fondamento di ogni cosa ulteriore; rimase il contenuto che sta alla base della fede: "Ascolta, Israele: il Signore nostro Dio è un solo Signore".

Oso sostenere che la centralità di questo passo per tutta la letteratura dell’Antico Testamento è anche la ragione essenziale del posto unico che l’Antico Testamento tiene nella fede cristiana. Poiché l’intero Antico Testamento è costruito attorno a questa singola frase, per questo motivo esso rappresenta un "canone" per i cristiani, quindi Sacra Scrittura. Solo per questa ragione esso rende testimonianza a Gesù e viceversa. Gesù è la chiave all’Antico Testamento perché egli rende concreta questa frase nella Sua stessa carne.

Sfortunatamente, la mancanza di tempo non ci permette di presentare la questione cristologica come meriterebbe. Per questo motivo mi piace tanto più rimandare all’enciclicaRedemptoris Missio, in cui gli argomenti essenziali sono esposti in maniera vivida e chiara. Questa enciclica deve costituire il modello per ogni ulteriore ricerca di Teologia delle religioni e della missione. Non sarà mai studiata e accolta abbastanza intensamente.

Qui mi devo limitare a una breve allusione. Il problema che si pone in India ma anche altrove trova espressione nella famosa frase di Panikkar: "Gesù è Cristo, ma Cristo non è (soltanto) Gesù".

Per capire tutta l’ampiezza del problema dovremmo sostituire la parola "Cristo" con Logos o Figlio di Dio, dal momento che Cristo è un titolo storico-salvifico nel quale l’intera profondità metafisica del mistero di Gesù non viene ancora alla luce. Nella sua vita storica, Gesù fu reticente sull’uso di questo titolo. La tradizione post-pasquale spiega il titolo sempre più decisamente col titolo di Figlio, che infine lo sostituisce e che allora di nuovo Giovanni interpreta in profondità per mezzo del concetto di Logos.

Questo processo dello sviluppo della rivelazione, comunque, è già molto evidente nella tradizione sinottica. La confessione di Pietro suona molto semplicemente in Marco: "Tu sei il Cristo (il Messia)". In Matteo leggiamo: "Tu sei il Cristo (il Messia), il Figlio del Dio vivente" (Mc 8,29; Mt 16,16). Gesù dice espressamente a Pietro che quest’ultimo non aveva appreso questa confessione dalla carne e dal sangue, cioè dalla sua cultura o dalla sua tradizione religiosa, ma "te l’ha rivelata il Padre mio che sta nei cieli" (Mt 16,17).

Pertanto questa confessione, la fondamentale confessione di tutta la Chiesa di ogni tempo e luogo, è espressamente dichiarata estranea alle semplici tradizioni umane e definita come una rivelazione nel senso stretto del termine. Ogni interpretazione che non perviene ad essa rappresenta un ritorno al puramente umano. Il cristianesimo sta o cade sulla base di questa confessione.

Essa non può essere separata dalla confessione fondamentale di Israele: "Il Signore nostro Dio è un solo Signore". L’unico Dio mostra Se stesso a noi nel Suo unico Figlio e desidera essere adorato come l’unico Dio in Lui. Ciò risponde in via di principio alla questione della reversibilità delle formule cristologiche. Quando Panikkar nega la semplice reversibilità, egli ha ragione nella misura in cui le due nature, divina ed umana, rimangono distinte. La natura umana di Gesù ha il suo inizio nel tempo, la natura divina del Logos è eterna. Le due sono tanto diverse come sono diversi creatore e creatura, e perciò non sono intercambiabili.

Tuttavia, nell’Incarnazione il Logos eterno ha legato Se stesso a Gesù in modo tale che la reversibilità delle formule deriva dalla Sua persona. Il Logos non può essere più pensato indipendentemente dalla Sua connessione con l’uomo Gesù. Il Logos ha tratto a Sé Gesù e ha unito Se stesso a Lui in modo tale che essi sono solo un’unica persona nella dualità delle nature.

Chiunque entra in contatto col Logos tocca Gesù di Nazareth. Gesù è più del sacramento del Logos. Egli è il Logos stesso che nell’uomo Gesù è un soggetto storico. Certamente Dio tocca l’uomo in molti modi anche al di fuori dei sacramenti.

Ma Egli lo tocca sempre attraverso l’uomo Gesù che è la Sua automediazione nella storia e la nostra mediazione nell’eternità. Cristo non è una semplice teofania, una manifestazione di Dio, ma piuttosto in Lui l’essere di Dio stesso entra in unità con l’essere dell’uomo. Se noi - con Pietro, con tutto il Nuovo Testamento, con l’intera Chiesa - confessiamo Gesù come Cristo, Figlio del Dio vivente, allora noi non vogliamo solo dire che questo Gesù è diventato la più alta manifestazione del divino per noi, mentre altri altrove possono ben aver trovato i loro propri salvatori.

La Fede, nel senso del Nuovo Testamento, significa esattamente che veniamo distolti dalle nostre valutazioni puramente umano-culturali, che Colui che ci prende per mano è Colui che attraversa il mare del tempo senza affondare perché Egli è Signore del tempo. La fede come atto trascende ogni esperienza. È un atto di assenso che possiamo fare solo al Dio vivente, che è verità in persona. Non possiamo tributare, questa obbedienza a nessuna realtà relativa. È quel che Pietro vuole significare quando dice ai capi e agli anziani del popolo di Israele: "... non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo salvarci" (At 4,12).

Nelle sue lettere dalla prigione Paolo sviluppa il significato cosmico di Cristo e così dischiude per noi una cristologia nel senso di quanto abbiamo prima detto a proposito dalla conversione. La fede in Gesù Cristo diventa un nuovo principio di vita e dischiude un nuovo spazio di vita. Il vecchio non è distrutto, ma trova la sua forma definitiva e il suo pieno significato. Questa conservazione trasformante, praticata dai Padri in modo splendido nell’incontro fra la fede biblica e le sue culture, è il contenuto reale dell’"inculturazione", dell’incontro e dell’interfecondazione di culture e religioni sotto il potere di mediazione della fede.

È qui che si collocano i grandi compiti dell’attuale momento storico. Senza dubbio la missione cristiana deve capire ed accogliere le religioni in un modo molto più profondo di quanto abbia fatto fino ad ora. D’altra parte le religioni, per vivere in modo autentico, devono riconoscere il loro proprio carattere messianico che le sospinge in avanti verso Cristo.

Se procediamo in questo senso verso una ricerca interculturale di indizi dell’unica verità comune, scopriremo qualcosa di inatteso: gli elementi che il cristianesimo ha in comune con le antiche culture dell’umanità sono più grandi di quelli che esso ha in comune col mondo razionalistico-relativistico. Quest’ultimo ha tagliato i ponti con le fondamentali intuizioni comuni che sono di sostegno all’umanità e ha condotto l’uomo in un vuoto esistenziale che lo minaccia di rovina se non giungerà una risposta.

Infatti la conoscenza della dipendenza dell’uomo da Dio e dall’eternità, la conoscenza del peccato, della penitenza e del perdono, la conoscenza della comunione con Dio e con la vita eterna, e infine la conoscenza dei precetti morali fondamentali come hanno preso forma nel decalogo, tutte queste conoscenze permeano le culture. Non è certo il relativismo a trovare conferma. Al contrario, è l’unità della condizione umana, l’unità dell’uomo che è stata toccata da una verità più grande di lui.


Note

[1] Cfr. Josef Pieper, Überlieferung: Begriff und Anspruch, Monaco 1970; e Über die platonischen Mythen, Monaco 1965.

[2] Soprattutto T. Häcker ha sottolineato il concetto del messianico nel precristiano. Cfr. T. Häcker, Vergil: Vater des Abendlandes Lipsia 1931; ristampato Monaco 1947.

[3] Cfr. V. Possenti, Le società liberali al bivio: Lineamenti di filosofia della società, Marietti 1991, pp. 315-345, spec. 345.

[4] Cfr. le indicazioni di J. Dupuis in The Kingdom of God and World Religions in Vidyajyoti, Journal of Theological Reflection n. 51 (1987), pp. 530-544.