DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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Chesterton: Il fondamento della libertà è in Dio. Quella profezia sui banchieri di Wall Street



di Paolo Gulisano

Gilbert Keith Chesterton non è uno scrittore del secolo passato, ma del futuro prossimo. Nella produzione decisamente abbondante, consona al suo autore, che ci ha lasciato, accanto alle ben note opere narrative, tra le quali spiccano i racconti di Padre Brown, nonché i romanzi, ricchi di immaginazione fantastica, da Il Napoleone di Notting Hill a L'Osteria Volante a L'uomo che fu Giovedì, troviamo una produzione saggistica assolutamente eccezionale: il suo talento ebbe modo di sfornare opere come Ortodossia o le biografie di santi come Francesco d'Assisi e Tommaso d'Aquino, e altro ancora.

CHESTERTON LEGGE PROFETICAMENTE LA REALTÀ

Dopo anni di oblio, Chesterton sembra tornato di moda: lo si ripubblica, si offrono (finalmente) al pubblico italiano diversi inediti, e se ne parla in incontri e convegni. Se ne mette in evidenza – e giustamente – lo spirito apologetico del cristianesimo, ma c'è anche un altro fondamentale aspetto da sottolineare del grande giornalista e scrittore inglese: la sua capacità di leggere profeticamente la realtà. Già negli anni 30 scriveva e discuteva di eugenetica, ma non solo: vide in anticipo tutti i guasti che avrebbero prodotto i sistemi politici che a vario titolo soffocavano le libertà autentiche, in particolare giudicando con straordinaria preveggenza i guai di un moderno "stato servile" dove l'uomo è espropriato della sovranità personale, della possibilità di disporre del proprio lavoro, del proprio tempo, persino dei propri talenti.

PRENDERE SUL SERIO LA REALTÀ NELLA SUA INTEGRITÀ

Chesterton scrisse in una lettera alla fidanzata, agli inizi del proprio impegno giornalistico: "È facile, a volte, donare il proprio sangue alla patria, e ancora più facile donarle del denaro. Talvolta è più difficile donarle la verità". Urgeva in lui il desiderio appassionato di salvaguardare le coscienze e il pensiero dei suoi connazionali dai veleni della propaganda di parte, con tutte le sue falsità e menzogne.
L'intento di Chesterton era quello di prendere sul serio la realtà nella sua integrità, a cominciare dalla realtà interiore dell'uomo, e di adoperare fiduciosamente l'intelletto – ovvero il buon senso – nella sua originale sanità, purificato da ogni incrostazione ideologica.

USO SAPIENTE DEL PARADOSSO

Di fronte ai mali della Modernità, e, al loro progressivo affermarsi, Chesterton non rispose con pessimismo recriminante, ma con la lieta ribellione del cristiano.
Con l'uso sapiente del paradosso, Chesterton non si limita a far sorridere il lettore. Gli svela che il mondo lasciato a se stesso diventa sempre peggiore. La conseguenza più deleteria della scristianizzazione non è stato il pur gravissimo smarrimento etico, ma lo smarrimento della ragione. Il mondo che rifiuta Dio, che gli volta le spalle, che vuole fare a meno di Lui, impazzisce. Il rapporto individuo-società, libertà personale-ordinamento civile, ovvero persona-stato, è uno dei nodi cruciali della modernità. Uno dei modi più originali di affrontarlo è stato rappresentato dal movimento inglese del Distributismo, cui novant'anni fa Chesterton diede vita insieme agli amici Hilaire Belloc, scrittore, giornalista e parlamentare, e Vincent MacNabb, frate domenicano irlandese.

IL DISTRIBUTISMO, OVVERO UN'ALTERNATIVA AL CAPITALISMO E AL SOCIALISMO

Un problema mai risolto, si potrebbe obiettare, quello della "terza via" tra liberismo capitalista e socialismo collettivista, e forse superato dai tempi. In realtà quanto avviene oggi, i segnali di sostanziale fallimento della globalizzazione, ci invitano a riprendere seriamente in considerazione la questione, e una riscoperta del pensiero di Chesterton è quanto mai attuale.
Chesterton e i suoi amici distributisti avevano identificato nello "Stato servile", capitalista o marxista è indifferente, l'asservimento dell'uomo allo Stato o al proprietario, e alle loro pretese.
Al contrario, secondo il Distributismo, le persone dovrebbero essere messe in grado di guadagnarsi da vivere senza dover contare sull'uso della proprietà altrui. Esempi di persone che si guadagnano da vivere in questo modo sono gli agricoltori che possiedono la loro terra e le relative macchine (oppure in consorzio con altri agricoltori); gli artigiani che possiedono i loro strumenti, e che attraverso essi possono sviluppare il loro talento e la loro creatività. Il Distributismo prevedeva inoltre un approccio corporativo, o cooperativo, che prevedeva la co-proprietà di comunità locali più grandi di una famiglia, ad esempio, partner in un business oppure in un consorzio, pur sempre permanendo in una forma di indipendenza aziendale.
Il Distributismo, inoltre, prevedeva l'eliminazione, o una profonda rielaborazione, del sistema bancario, con un ruolo molto diverso dei governi in campo economico, ad esempio tramite accordi fiscali con tali piccole (se non piccolissime) imprese, finalizzati all'incentivazione della fiducia delle banche nei confronti dei creditori fruitori del credito sociale e dello sviluppo della fiscalità monetaria.

IL FONDAMENTO DELLA LIBERTÀ STA IN DIO

Utopie? In realtà Chesterton non fa che richiamarsi esplicitamente a quei principi di dottrina sociale cattolica che affondano le proprie radici nell'esperienza benedettina (Ora et labora) ed espressi modernamente in diverse encicliche papali.
Chesterton e i distribuisti ritenevano che ogni autorità, nella famiglia, nel negozio, nell'azienda, nella regione, nello stato non esiste mai, in nessun caso, a beneficio di coloro che la posseggono e ne fanno uso. Nessun padrone ha il diritto di sfruttare un solo uomo. Eppure ogni epoca, nota Chesterton, ha cercato di produrre una sua versione della tirannide e dello schiavismo. Il governo deve governare, ma mai divenire un tiranno; i governati devono obbedire, ma non devono mai adattarsi a divenire schiavi.
Il fondamento della libertà - a differenza di quanto recitano le diverse ideologie da duecento anni - sta in Dio. Dimenticare che Dio è l'unica fonte di autorità è un cominciare ad offrire a Cesare quel che è di Dio, venerare la Bestia dell'Apocalisse e adorare ciò che desidera primeggiare.
Il vero dramma della modernità, pertanto, sta nella scelta tra Dio e gli idoli, tra la civiltà cristiana e il nuovo paganesimo che adora potere, denaro e lussuria.
 

Il Sussidiario, 7 febbraio 2013

Il web come la democrazia: la libertà senza legami provoca esiti disumani



venerdì 12 marzo 2010


In Verità tolleranza libertà del 2003, il cardinale Ratzinger ha sviluppato i temi trasversali nominati nel titolo per affrontare la difficile questione del pluralismo, la possibile convivenza civile di religioni diverse, senza scadere nel relativismo. Solitamente si ritiene che la verità sia per sua natura violenta, perché costringerebbe gli altri a conformare le loro idee alla “verità” arbitraria di un gruppo potente. Ratzinger sostiene la tesi contraria, in perfetta consonanza con ciò che disse un altro grande: «la verità vi renderà liberi».


I parallelismi con la questione di libertà in Internet sono parecchi:proprio per l’assenza di confini territoriali e per la potenza straordinaria dei mezzi di comunicazione gratuitamente disponibili a chiunque abbia una connessione alla rete, si è parlato tantissimo della “perfetta democrazia” possibile in rete. Il problema, come ho cercato di evidenziare nei due articoli precedenti, è che questa “democrazia” virtuale ha lo stesso bisogno di ordine che ha uno stato democratico. Le leggi, nella società civile e in Internet, esistono proprio per garantire la libertà.


Nelle pagine conclusive del volume, Ratzinger approccia la questione così: «Si è isolato il concetto di libertà falsandolo: la libertà è un bene, ma lo è solo in unione con altri beni, con i quali costituisce una totalità inscindibile. Dall’altra, si è ristretto il concetto di libertà stesso ai diritti individuali di libertà e lo si è così privato della sua verità umana». In questo isolamento nasce l’equivoco: l’uomo vorrebbe essere sciolto da ogni legame di dipendenza, e rompere le catene della tradizione, della società patriarcale, della religione, e via dicendo. Ma proprio questo movimento di liberazione ha nelle sue premesse il desiderio di sciogliere anche ogni legame di dipendenza reciproca tra persone, che ha nella lotta tra madre e figlio (aborto) la sua espressione più tragica.


La libertà allora si configura, nella più comune delle interpretazioni, come libertà di fare ciò che voglio fino al punto in cui incomincio a limitare la libertà altrui. Ma allora l’altra persona, in quanto rappresenta il limite della mia libertà, è anche il mio inferno, come nella tremenda intuizione di Sartre. E, ultimamente, qualsiasi azione ha effetti sugli altri.

Ratzinger continua: «Il fine implicito di tutti i movimenti di liberazione moderni è di essere finalmente come un Dio, non dipendenti da nulla e da nessuno, non limitati nella propria libertà da nessuna libertà estranea. […] Essere totalmente liberi, senza la concorrenza di altre libertà, senza un “da” e un “per”, nasconde non un’immagine di Dio, ma di un idolo. L’errore originario di tali radicalizzate volontà di libertà sta nell’idea di una divinità che è concepita in modo puramente egoistico. Il Dio pensato così non è un Dio, ma un idolo, anzi l’immagine di colui che la tradizione cristiana chiamerebbe il diavolo — l’anti-dio —, perché in esso si trova proprio l’opposto radicale del vero Dio: il vero Dio è per sua essenza totalmente “essere-per” (Padre), “essere-da” (Figlio) ed “essere-con”(Spirito Santo)».


Da questo passo si può comprendere, in modo pienamente laico, ciò che manca alla concezione autonomistica della libertà. Manca l’altro, che non è l’inferno, ma il fratello. Manca ciò che, nell’esperienza universale degli uomini, è il bene più prezioso: la possibilità di una coesistenza delle libertà. Nei casi più belli e profondi, questa coesistenza prende il nome di amicizia.

Ricordiamo allora da dove siamo partiti: dall’affermazione degli avvocati di Google che la condanna del 24 febbraio è un «un attacco ai principi fondamentali di libertà sui quali è stato costruito Internet».


Ratzinger sostiene che occorre pensare la libertà a partire dalla comunità reale, concreta, in cui si vive. Attraverso questa riflessione, si vede che un uomo non può concepire la propria libertà a prescindere da quella di sua moglie, dei suoi figli, della sua città, del suo paese. Un paese non può legittimamente pensare la propria libertà e i propri diritti a prescindere dai rapporti con altre nazioni e con gli uomini e le donne che vi abitano. E una azienda di estensione globale, che fattura più del PIL di molti paesi, non può illudersi di poter “offrire servizi” senza tenere alcun conto di come questi servizi vengono usati. E’ il principio della responsabilità, contrassegno dell’uscita dall’adolescenza e l’ingresso nella maturità. Questa responsabilità non è altro che il riconoscimento cordiale e onesto della verità dei fatti: l’uomo non nasce da solo e non vive da solo.



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Libertà e responsabilità per Internet

di Fausto Carioti
Tratto da Libero del 16 dicembre 2009
Tramite A Conservative Mind, il blog di Fausto Carioti

La gente che incontri su Internet è la stessa che incroci per strada: c’è la persona educata che rispetta la precedenza, c’è quello che sbaglia ma ti chiede subito scusa e c’è la teppa che prima ti investe e poi ti ricopre di insulti.

La differenza è nelle regole: per strada bene o male le puoi applicare, sul Web no. Perché le automobili hanno la targa, e a ogni targa corrisponde una persona da multare. Sul Web, invece, la rintracciabilità esiste in teoria, ma non in pratica. La condizione normale è l’anonimato, e risalire dall’anonimo che sparge odio e calunnie a un nome e un indirizzo è impresa difficile e costosa. Così Internet assomiglia sempre più alle pareti dei cessi pubblici: chiunque passi si sente in diritto di lasciarci il peggio di sé. Tanto, nessuno saprà mai chi è stato. Con la differenza che online quelli che ti leggono sono mille volte di più: vuoi mettere la soddisfazione.

Insomma, sul Web c’è la libertà, e ce n’è tanta. È la responsabilità che manca. Internet è uno strumento potentissimo perché dà a chiunque metta online un pensiero scritto o un filmato la possibilità di essere visto da centinaia, migliaia di persone, in brevissimo tempo. Ma anche i fumetti americani insegnano che «da grandi poteri derivano grandi responsabilità», e da questo punto di vista proprio non ci siamo. In compenso, abbonda la retorica dell’impunità: guai a toccare la libertà dell’ultimo frustrato di fare i complimenti al compagno Massimo Tartaglia «a nome di tutti gli italiani che non ne possono più di questo puttaniere colluso con la mafia» o di augurare a Silvio Berlusconi «che muoia ‘sto nano del cazzo» (come si legge in due commenti apparsi ieri su Youtube). O di iscriversi al gruppo di Facebook «Accoppiamo Berlusconi» (ma ce n’è per tutti, anche se il Cavaliere è in cima alle preferenze).

Solo ipotizzare due o tre regolette per questo Far West, dove oggi chiunque è libero di vomitare su chi gli sta sulle scatole, equivale a prendersi la patente di infame censore. Se ne è accorto il ministro Roberto Maroni. Il governo ha infatti la pretesa - nientemeno - di estendere sul serio allo sgangherato universo del Web le regole già in uso per il normale consorzio umano. Come risultato, il commento più gentile che si è beccato Maroni è quello di ottuso censore. Perché «la Rete è libertà», «altrimenti diventiamo come la Cina» e via così, come recitano i tanti luoghi comuni che avvolgono il Web.

E invece, più che di libertà, è di etica della responsabilità che occorre parlare. Chi vuole avere tra le mani uno strumento tanto potente da far fare al suo pensiero il giro del mondo in un istante deve essere disposto ad accettare che c’è un prezzo da pagare per chi incita a uccidere il prossimo o sparge insulti e calunnie. Se vado in piazza e dico a dieci persone che il mio vicino di casa è un pedofilo, presto o tardi dovrò risponderne. Se lo faccio a mezzo stampa o davanti a una telecamera, la mia responsabilità sarà proporzionale alla platea. L’unico luogo in cui questo non avviene, oggi, è la fantastica nuova frontiera della rete.

Ci vuole un responsabile. In termini più prosaici, ci vuole qualcuno da denunciare. I vituperatissimi mezzi d’informazione tradizionali hanno mille difetti, ma c’è sempre un direttore responsabile, qualcuno che paga in prima persona per ciò che finisce in pagina o viene messo in onda. E che quindi si preoccupa che questi contenuti siano a norma di legge. Su Internet, invece, in pochi secondi chiunque può mettere online tutto ciò che vuole. Per risalire alla sua identità occorrerà passare per server e società domiciliati in giro per il mondo, che non hanno alcun interesse a fornire questi dati a chi li chiede. A meno che non si voglia avviare una procedura legale internazionale costosa, lunga e dall’esito incerto. Al termine della quale, magari, si scopre che nel frattempo quei dati sono stati cancellati dai server. Chiamare i grandi provider internazionali a rispondere per ciò che viene trasmesso sulle loro piattaforme (siti, blog, social network…), qualora non rendano possibile rintracciare il responsabile del reato, è un primo passo.

Dire che porsi simili problemi è inutile, perché Internet è la cosa più globalizzata che esista, è una risposta ipocrita e falsa. Ipocrita perché, se uno Stato abdica al governo dei nuovi territori dell’insediamento umano, tanto vale decretarne il fallimento. E falsa perché l’impresa è tecnicamente difficile, ma non impossibile. Passa anche attraverso accordi internazionali con altri Paesi e con società estere, nei confronti dei quali uno Stato sovrano ha il dovere e il potere di trattare da posizioni di forza, almeno per ciò che compiono i suoi cittadini sul suo territorio. E chi, come Dario Franceschini, si ribella a questa idea perché «accusare la Rete è come accusare le Poste del contenuto delle lettere», mostra di non averci capito nulla. Il contenuto delle lettere non è visibile a chiunque, ma quello del Web sì, ed è proprio qui il punto. La Rete, semmai, può essere paragonata ai giornali e alle televisioni. Dove chi sbaglia paga.

Dunque, se le nuove norme serviranno a rendere responsabili gli utenti e chi pubblica i loro contenuti, saranno le benvenute. La censura e la fine della libertà su Internet non c’entrano proprio niente. C’entra solo il coraggio di mettere un nome e una faccia su quello che si fa. Chi questo coraggio ce l’ha, ha tutto da guadagnare dall’applicazione del principio di responsabilità. Gli altri, potranno sempre continuare a esprimere il loro pensiero sulle pareti dei bagni pubblici.