DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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Libertà e responsabilità per Internet

di Fausto Carioti
Tratto da Libero del 16 dicembre 2009
Tramite A Conservative Mind, il blog di Fausto Carioti

La gente che incontri su Internet è la stessa che incroci per strada: c’è la persona educata che rispetta la precedenza, c’è quello che sbaglia ma ti chiede subito scusa e c’è la teppa che prima ti investe e poi ti ricopre di insulti.

La differenza è nelle regole: per strada bene o male le puoi applicare, sul Web no. Perché le automobili hanno la targa, e a ogni targa corrisponde una persona da multare. Sul Web, invece, la rintracciabilità esiste in teoria, ma non in pratica. La condizione normale è l’anonimato, e risalire dall’anonimo che sparge odio e calunnie a un nome e un indirizzo è impresa difficile e costosa. Così Internet assomiglia sempre più alle pareti dei cessi pubblici: chiunque passi si sente in diritto di lasciarci il peggio di sé. Tanto, nessuno saprà mai chi è stato. Con la differenza che online quelli che ti leggono sono mille volte di più: vuoi mettere la soddisfazione.

Insomma, sul Web c’è la libertà, e ce n’è tanta. È la responsabilità che manca. Internet è uno strumento potentissimo perché dà a chiunque metta online un pensiero scritto o un filmato la possibilità di essere visto da centinaia, migliaia di persone, in brevissimo tempo. Ma anche i fumetti americani insegnano che «da grandi poteri derivano grandi responsabilità», e da questo punto di vista proprio non ci siamo. In compenso, abbonda la retorica dell’impunità: guai a toccare la libertà dell’ultimo frustrato di fare i complimenti al compagno Massimo Tartaglia «a nome di tutti gli italiani che non ne possono più di questo puttaniere colluso con la mafia» o di augurare a Silvio Berlusconi «che muoia ‘sto nano del cazzo» (come si legge in due commenti apparsi ieri su Youtube). O di iscriversi al gruppo di Facebook «Accoppiamo Berlusconi» (ma ce n’è per tutti, anche se il Cavaliere è in cima alle preferenze).

Solo ipotizzare due o tre regolette per questo Far West, dove oggi chiunque è libero di vomitare su chi gli sta sulle scatole, equivale a prendersi la patente di infame censore. Se ne è accorto il ministro Roberto Maroni. Il governo ha infatti la pretesa - nientemeno - di estendere sul serio allo sgangherato universo del Web le regole già in uso per il normale consorzio umano. Come risultato, il commento più gentile che si è beccato Maroni è quello di ottuso censore. Perché «la Rete è libertà», «altrimenti diventiamo come la Cina» e via così, come recitano i tanti luoghi comuni che avvolgono il Web.

E invece, più che di libertà, è di etica della responsabilità che occorre parlare. Chi vuole avere tra le mani uno strumento tanto potente da far fare al suo pensiero il giro del mondo in un istante deve essere disposto ad accettare che c’è un prezzo da pagare per chi incita a uccidere il prossimo o sparge insulti e calunnie. Se vado in piazza e dico a dieci persone che il mio vicino di casa è un pedofilo, presto o tardi dovrò risponderne. Se lo faccio a mezzo stampa o davanti a una telecamera, la mia responsabilità sarà proporzionale alla platea. L’unico luogo in cui questo non avviene, oggi, è la fantastica nuova frontiera della rete.

Ci vuole un responsabile. In termini più prosaici, ci vuole qualcuno da denunciare. I vituperatissimi mezzi d’informazione tradizionali hanno mille difetti, ma c’è sempre un direttore responsabile, qualcuno che paga in prima persona per ciò che finisce in pagina o viene messo in onda. E che quindi si preoccupa che questi contenuti siano a norma di legge. Su Internet, invece, in pochi secondi chiunque può mettere online tutto ciò che vuole. Per risalire alla sua identità occorrerà passare per server e società domiciliati in giro per il mondo, che non hanno alcun interesse a fornire questi dati a chi li chiede. A meno che non si voglia avviare una procedura legale internazionale costosa, lunga e dall’esito incerto. Al termine della quale, magari, si scopre che nel frattempo quei dati sono stati cancellati dai server. Chiamare i grandi provider internazionali a rispondere per ciò che viene trasmesso sulle loro piattaforme (siti, blog, social network…), qualora non rendano possibile rintracciare il responsabile del reato, è un primo passo.

Dire che porsi simili problemi è inutile, perché Internet è la cosa più globalizzata che esista, è una risposta ipocrita e falsa. Ipocrita perché, se uno Stato abdica al governo dei nuovi territori dell’insediamento umano, tanto vale decretarne il fallimento. E falsa perché l’impresa è tecnicamente difficile, ma non impossibile. Passa anche attraverso accordi internazionali con altri Paesi e con società estere, nei confronti dei quali uno Stato sovrano ha il dovere e il potere di trattare da posizioni di forza, almeno per ciò che compiono i suoi cittadini sul suo territorio. E chi, come Dario Franceschini, si ribella a questa idea perché «accusare la Rete è come accusare le Poste del contenuto delle lettere», mostra di non averci capito nulla. Il contenuto delle lettere non è visibile a chiunque, ma quello del Web sì, ed è proprio qui il punto. La Rete, semmai, può essere paragonata ai giornali e alle televisioni. Dove chi sbaglia paga.

Dunque, se le nuove norme serviranno a rendere responsabili gli utenti e chi pubblica i loro contenuti, saranno le benvenute. La censura e la fine della libertà su Internet non c’entrano proprio niente. C’entra solo il coraggio di mettere un nome e una faccia su quello che si fa. Chi questo coraggio ce l’ha, ha tutto da guadagnare dall’applicazione del principio di responsabilità. Gli altri, potranno sempre continuare a esprimere il loro pensiero sulle pareti dei bagni pubblici.

Web, altre regole non sono necessarie. Di Beppe Severgnini

La Rete non è stata né causa né strumento della violenza di domenica

Lanciarsi contro Internet perché qualcuno scaglia un souvenir appuntito al presidente del Consiglio appare bizzarro. La Rete non è stata né causa né strumento della violenza di domenica. E’ stato però il teatro delle conseguenze. Brutte. La crudeltà di chi festeggia il dolore altrui. La vigliaccheria di chi sparla e non firma. L’irresponsabilità di chi incita alla violenza — una tragedia che l’Italia ha conosciuto e non ha dimenticato. È arrivato il momento di mettere regole a Internet? Prima di rispondere, è bene che qualcuno si prenda la briga di capire — e poi di spiegare — a cosa le stiamo mettendo. La sensazione è che molti, tra quanti oggi maledicono Facebook e accusano Twitter, non siano mai entrati in un social network, non abbiamo mai inviato un tweet né cliccato il pulsante «pubblica» di un blog.

Vedremo cosa proporrà il ministro Maroni al Consiglio dei ministri, domani. «Misure delicate che riguardano terreni come la libertà di espressione sul Web e quella di manifestazione», ha anticipato. Speriamo non sia una norma inapplicabile come l’abolizione dell’anonimato (non ci sono riusciti i cinesi, che di censura se ne intendono); e neppure un decreto contro generici «siti estremisti». Cosa vuol dire, infatti, «estremista»? A giudicare dal dibattito (?) alla Camera di ieri, infatti, molti deputati definirebbero così l’homepage dei colleghi che non la pensano come loro. Non c’è bisogno, forse, di norme nuove. Ingiurie, minacce, apologia di reato, istigazione e delinquere: nel codice penale ci sono già, come ha scritto ieri Stella sul Corriere , e dovrebbero bastare. A meno di considerare la Rete come uno stadio virtuale: una zona franca dove comandano gli ultras, e tutto è lecito.

Per anni abbiamo difeso Internet distinguendo tra il mezzo e il messaggio (se qualcuno ci offende al telefono, non diamo la colpa al telefono; se qualcuno delira su Internet, perché prendersela con Internet?). Oggi — bisogna ammetterlo — le cose sono cambiate. Le interazioni del web 2.0 (blog, forum, chat, Wikipedia, YouTube, Facebook, Myspace, Twitter, eBay...) hanno creato un mondo. Internet non è più, come negli anni 90, un binario su cui viaggiano insieme il bene e il male (la solidarietà e la pedofilia, l’amicizia e la xenofobia). Luca Sofri lo ha spiegato ieri su wittgenstein. it : «Quando il mezzo ha una potenza quantitativa straordinaria, questa si riverbera sulla qualità delle cose e determina cambiamenti. Limitarsi a definirlo 'neutro' non è sufficiente».

Ci sono, poi, alcune caratteristiche italiane. Internet raccoglie giovani umori anti-berlusconiani che, in tv, non arriveranno mai; e sui giornali non hanno più (o ancora) voglia di arrivare. Alcuni legittimi e articolati; altri aggressivi e sgangherati. Ma è curioso notare come umori simili appaiano nei siti d’informazione, nei blog e nei social networks internazionali. I commenti, dopo l’aggressione di piazza Duomo, sono divisi quanto in Italia, se non peggio. Conduco Italians da 11 anni, conosco gli umori che girano nella Rete. So che esiste un cuore oscuro di Internet, ma ho imparato ad apprezzarne l’anima chiara e pulita. La Rete è il luogo dove qualcuno strilla «Ecce (d)uomo!», credendo d’essere spiritoso; ma dove Sabina Guzzanti, che spiritosa è davvero, ha messo frasi di buon senso nel suo blog. Facebook è il posto dove il gruppo «fan di Massimo Tartaglia» contava 68 mila iscritti, il giorno dopo l’aggressione; ma ora è sparito e altri gruppi che inneggiano allo squilibrato armato di souvenir sono rimasti senza amministratore. Lo stesso è accaduto ai gruppi farlocchi che, dopo aver cambiato nome, inneggiavano a Berlusconi. Chiusi. Twitter, che qualche giorno fa ha esordito anche in italiano, è il luogo dove si trovano centinaia di rimandi interessanti e commenti fulminanti in molte lingue. Quelli volgari e violenti basta non seguirli più (unfollow). Morale? Anche gli imbecilli hanno facoltà a esprimere la propria opinione, e in questi giorni — bisogna dire — se ne sono avvalsi. Basta non insultare, diffamare o minacciare. Per chi commette questi reati, ci sono la polizia postale e i magistrati. Vogliamo combattere gli eccessi di Internet? Benissimo: rendiamo più efficaci e rapidi i tribunali. Ma forse è meglio non dirle queste cose, in Italia. Appena si parla di giustizia, infatti, molti insultano e minacciano. Non in Rete: in Parlamento.

Beppe Severgnini

Corriere della sera

Gillmor: "Impensabili i filtri in rete. Ma chi incita all'odio ci metta la faccia"

Il giornalista e blogger americano è scettico sulla possibilità di limitare
la libertà di espressione sul web: "C'è sempre una differenza tra le parole e la violenza"

di MASSIMO RUSSO


Gillmor: "Impensabili i filtri in rete Ma chi incita all'odio ci metta la faccia"

Dan Gillmor

"Sono sempre molto scettico quanto sento di un Governo che cerca di limitare in qualsiasi modo la libertà di espressione. Vivo in un paese in cui persone sono morte per permettere ad altri di esprimere pareri opposti al loro".

Misura le parole con attenzione Dan Gillmor nel commentare quanto sta accadendo in Italia. Gillmor, giornalista americano, blogger e scrittore, è autore di "We the media", il libro che cinque anni fa ha anticipato la rivoluzione del giornalismo partecipativo, raccontando le potenzialità offerte dal web ai cittadini per esprimersi in rete attraverso parole, fotografie, video. Oggi è direttore del Center for citizen media, progetto congiunto delle università di Berkeley e di Harvard. A lui Repubblica ha chiesto un parere sulle misure che il governo sta preparando per consentire l'oscuramento dei siti che diffondono messaggi di odio e istigazione a delinquere, in seguito all'aggressione al presidente del consiglio Silvio Berlusconi a Milano, domenica scorsa.

Chiusure e limitazioni preventive sono concetti più simili ai filtri in vigore in paesi illiberali che al quadro normativo delle democrazie occidentali.
"Non voglio fare paragoni tra Italia e paesi come Cuba. Non sono un avvocato e conosco troppo poco la realtà italiana. Ovviamente incidenti come quello avvenuto a Berlusconi sono da condannare in tutti i modi. Ma la libertà d'espressione va tutelata".

C'è chi sostiene che si tratta di istigazione a delinquere.
"Credo ci sia una linea precisa che distingue le parole, anche di profondo odio, dalla reale incitazione alla violenza. E, caso per caso, è possibile dire quando questa linea viene oltrepassata. Credo che ognuno, usando il buon senso, in fondo sia in grado di capirlo".

L'ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini ha affermato in parlamento che negli Usa, malgrado gli attacchi durissimi al presidente Barack Obama, nessuno ha mai pensato di censurare la rete.
"Da quel che ho letto su quanto sta accadendo mi pare che la situazione sia ancora poco chiara. Ma per la nostra tradizione la censura alla libertà di espressione, filtri, oscuramento di siti, sono impensabili".

In rete c'è più aggressività?
"E' chiaro che l'anonimato consente alle persone di esprimersi in modo più aggressivo. Sono più facili abusi".

Ma allora bisognerebbe sempre identificare in modo preventivo chi si esprime in rete?
Penso che quando possibile vada chiesto alle persone di identificarsi. Credo inoltre che gli argomenti di chi non si dichiara con nome e cognome e incita all'odio non dovrebbero avere alcun valore, nessuna autorevolezza. Chiunque dovrebbe rispondere con la propria faccia di quel che afferma. Ma ritengo che la possibilità di esprimersi in modo anonimo vada tutelata.

Perché?
"Ci sono situazioni in cui la paura e il pericolo sono limitazioni reali, che impediscono alle persone di dire la verità. Usare il proprio nome in questi casi non può essere un obbligo".

© Repubblica (16 dicembre 2009)

Internet no alla censura: basta un clic

di Michele Ainis

Lo squilibrato che ha ferito Berlusconi raccoglie 50 mila fan tra i navigatori della Rete. Significa che la Rete è a sua volta squilibrata? Significa che ha urgente bisogno di una camicia di forza, o almeno d’una museruola? Calma e gesso, per favore. E per favore smettiamola d’invocare giri di vite e di manette sull’onda dell’ultimo episodio che la cronaca ci rovescia addosso.
Oggi succede per l’apologia di reato ai danni del presidente del Consiglio. Ieri per la pedofilia, o per le stragi del sabato sera. Ma non è così che ci procureremo buone leggi. Specie se la legge intenda regolare il più grande spazio pubblico mai sperimentato dall’umanità. Specie se aggredisca la prima libertà costituzionale, quella di parola.
Non che le parole siano altrettanti spifferi di vento. Proteggerle con un salvacondotto permanente equivarrebbe in conclusione a non prenderle sul serio, perché tanto contano i fatti, i gesti, le azioni materiali. Equivarrebbe perciò a deprimere la stessa libertà che si vuole tutelare. E d’altronde - come ha scritto il giudice Holmes nella sua più celebre sentenza, vecchia ormai di un secolo - la tutela più rigorosa della libertà d’espressione non proteggerebbe un uomo che gridasse senza motivo «al fuoco» in un teatro affollato, scatenando il panico. Insomma, dipende. Più precisamente, dipende dall’intreccio di tre fattori differenti, che a loro volta si riflettono poi sulle parole che fanno capolino in Rete.
In primo luogo, gioca la posizione del parlante. Altro è se racconto le mie ubbie agli amici raccolti attorno al tavolo di un bar, altro è se le declamo a lezione, soffiandole all’orecchio di fanciulli in soggezione davanti alla mia cattedra. In quest’ultimo caso ho una responsabilità più alta, e dunque incontro un limite maggiore. Non per nulla nei manuali di diritto si distingue tra «manifestazione» ed «esternazione» del pensiero. La prima è una libertà, riconosciuta a ogni cittadino; la seconda è un potere, vale per i cittadini investiti di pubbliche funzioni, e ovviamente copre uno spazio ben più circoscritto. Ma non c’è potere in Internet. C’è solo libertà.
In secondo luogo, dipende dal mezzo che uso per parlare. Il medesimo aggettivo si carica d'assonanze ora più forti ora più fioche se lo leggo su un giornale che ho scelto d’acquistare, oppure se mi rimbalza dentro casa quando accendo la tv. Ma è un’edicola la Rete? No, e non ha nemmeno l’autorità dei telegiornali. È piuttosto una piazza, sia pure virtuale. Un luogo in cui si chiacchiera, senza sapere bene con chi stiamo chiacchierando. Le chiacchiere, poi, hanno sempre un che d’aereo, di leggero. Anche quando le vedi scritte sul video del computer, sono sempre parole in libertà. Meglio: sono lo specchio dei nostri umori, dei nostri malumori. Sbaglieremmo a infrangere lo specchio, non foss’altro perché così non riusciremmo a modificare di un millimetro il nostro profilo collettivo.
E in terzo luogo, certo: dipende da che cosa dico. Se metto in palio mille dollari per chi procurerà lo scalpo di Michele Ainis, probabilmente offendo la legge sulla tutela degli scalpi, e in ogni caso lui avrebbe qualcosa da obiettare. Ecco infatti la soglia tra il lecito e l’illecito: quando la parola si fa azione, quando l’idea diventa evento. In quest’ipotesi è giusto pretendere un castigo, però a due condizioni, messe nero su bianco da decenni nella giurisprudenza americana: che vi sia una specifica intenzione delittuosa; che sussista un pericolo immediato.
È il caso di chi plaude alle gesta di Tartaglia? A occhio e croce no, benché ciascuno farà le sue valutazioni. Ma non facciamo ricadere su tutto il popolo dei navigatori le intemperanze di qualche marinaio. Anche perché sono molti di più quanti esecrano Tartaglia, rispetto ai suoi tifosi. Dopotutto l’antidoto agli abusi in Rete già viaggia sulla Rete, basta un clic.

«La Stampa» del 15 dicembre 2009