In questi tempi in cui si parla, dopo la
sentenza della corte di Strasburgo, del
crocefisso, mi viene da pensare che la
decisione di ritenere Gesù pietra
d’inciampo, segno di contraddizione, è
quanto di più ovvio vi sia. Specie dopo
quel secolo “delle idee assassine”, come
lo ha ribattezzato Robert Conquest, il
Novecento, che può essere definito
anche come il “secolo senza croce”. Il
Novecento si apre infatti, in Italia, con i
socialisti massimalisti che, abbandonata
ogni ipotesi di dialogare coi cattolici, cui
li accomuna la critica alla borghesia
liberale, si dedicano a bruciare chiese e
ad assalire capitelli e statue della
Madonna o dei santi. Tra costoro si
segnala, per attivismo e violenza, Benito
Mussolini. Poi c’è lo scoppio della Prima
guerra mondiale, che, come ha notato lo
storico F. Fejtö, in “Requiem per un
impero”, ha tra le cause l’ideologia di
coloro che videro l’Austria Ungheria
come l’ultimo stato cattolico, da
distruggere a ogni costo. E’ dalla prima
guerra che sgorgano il comunismo e il
nazismo, due ideologie spesso
ingiustamente contrapposte, che invece
possiedono moltissimi tratti comuni. Tra
questi, l’avversione al crocefisso, e a
tutto ciò che significa: soprattutto la
necessità per l’uomo peccatore di una
redenzione divina, sostituita da una
palingenesi politica, terrena, generata
dal partito, dal suo Capo e dall’Ideologia.
La rivoluzione russa, infatti, è subito
segnata dall’aggressione alla chiesa, che
porta alla persecuzione sistematica dei
credenti, ai roghi delle icone, allo
smantellamento di molte chiese. Per
Lenin, il creatore del gulag, “qualsiasi
idea religiosa, qualsiasi idea di Dio,
anche solo l’indugiare un istante
sull’idea di Dio, è segno di indicibile
viltà… una peste tra le più abominevoli”.
Nel suo interessantissimo “Il laboratorio
del gulag”, appena uscito per Lindau,
F.D. Liechtenhan racconta la caccia dei
comunisti agli oggetti sacri, distrutti o
raccolti nei musei dell’ateismo, dove
verranno mostrati al pubblico come
segni della superstizione e
dell’ignoranza passate. La Liechtenhan
racconta anche cosa accade nel primo
gulag sovietico, costruito
significativamente in un ex santuario
ortodosso, il monastero delle Solovki,
divenuto un immenso “cimitero per
vivi”. Lì l’uomo, pura materia, privato di
ogni origine divina, viene svilito persino
al momento della morte: “Il trattamento
dei cadaveri tradisce l’onnipotente
disprezzo per l’essere umano. I corpi
devono restare anonimi, ammassati nei
sotterranei degli ospedali: solo
un’iscrizione nei registri permette di
identificarli. Al collo di ciascun corpo è
appesa una targhetta di identificazione,
ma ben presto questo procedimento è
abbandonato a favore di un semplice
numero scritto sulla pelle… Non sono
previste cerimonie funebri e i cadaveri
sono sepolti in gruppi di dieci o quindici.
Salvo eccezioni, l’ubicazione di queste
fosse comuni non è segnalata”. Neppure
le feste più importanti, come Natale e
Pasqua sono veramente tollerate. La
Liechtenhan riporta a tal proposito un
testo comparso sul giornale del lager:
“per il militante comunista è chiaro che
festeggiare questo giorno (la Pasqua,
ndr) è ciò che resta dei tempi antichi,
come simbolo della resurrezione
primaverile della natura… nei tempi
antichi, quando si celebrava il culto
delle piante e degli animali ignorando
l’ipocrisia e la tartuferia della chiesa,
l’umanità festeggiava quel giorno e
celebrava ingenuamente le forze della
natura”. Anche il nazismo, qualche
anno più tardi, dà vita alla stessa
battaglia per sostituire la croce di Cristo
con quella uncinata, dovunque (si veda
in proposito, Luciano Garibaldi, O la
croce o la svastica, Lindau, 2009) e per
sostituire le feste cristiane con quelle
pagane. Nel documento per la
fondazione della “Chiesa nazionale del
Reich” si legge: “La chiesa nazionale
rimuoverà dai suoi altari tutti i
crocifissi, le Bibbie e le immagini dei
santi… la croce cristiana sarà tolta da
tutte le chiese, cattedrali e cappelle… e
sarà sostituita con l’unico simbolo
invincibile, la svastica” (in W. L. Shirer,
“Storia del terzo Reich”, I, 1990). Persino
sulle tombe la croce cristiana viene
sempre più spesso sostituita con la
svastica o con l’antica croce runica.
Quanto alle festività cristiane, esse
vengono parzialmente tollerate, ma si
cercano di creare delle alternative e di
modificarne il senso: “i nazisti
valorizzarono anche la cosiddetta ‘festa
mattutina’ come mezzo per stabilire una
netta separazione tra religione
nazionalista e cristianesimo: essa si
svolgeva infatti la domenica mattina,
proprio con l’intenzione di distogliere la
gente dall’andare a messa”. Si tratta di
una festa per celebrare la patria, lo
stato, intessuta di “appelli al passato
germanico” pagano e precristiano. I suoi
simboli sono la “fiamma sacra”, la
“colona di fuoco”, la “quercia
germanica” già gradualmente
affermatisi col nazionalismo prenazista.
Persino il Natale, sotto Hitler, conclude
lo storico G. Mosse, “fu trasformato nella
festa del solstizio d’inverno e la gioventù
hitleriana non cantò più gli inni
natalizi”, ma fu spinta a evocare le
antiche feste della natura dei popoli
pagani. (G. Mosse, “La nazionalizzazione
delle masse”, Il Mulino). Esattamente
come nella Russia bolscevica.
Francesco Agnoli
Il Foglio 17 dic. 2009