di Stefania Vitulli
Come il livore e il candore. Come il
piccione e la colomba. Come la
differenza che c’è tra le memorie di
un prete mancato e quelle di una suora
realizzata. Come a rileggere “Il Casto,
sua moglie e l’Innominabile”, racconto
appena uscito in una delle sue
busiane variazioni sul tema (ma poche,
le variazioni, visto che aveva deciso
di non scrivere più, ma poi si è
accorto che “Non basta smettere di
scrivere per smettere di essere Scrittore”
e “Nessuno mi sarà mai sincronico
come un foglio di carta bianco
davanti”) che diventano la prima A di
“Aaa!” di Aldo Busi (Bompiani, pp.
162, euro 11). E ad accostarvi in anteprima
(sarà nelle librerie il 3 febbraio)
“Le confessioni di una religiosa”
(Jaca Book, pp. 318, euro 24), autobiografia
di Suor Emmanuelle, la religiosa
più famosa di Francia, morta
nel 2008 a 99 anni. Memorie che la
suora volle espressamente pubblicate
dopo la sua scomparsa e che in un
anno hanno venduto 400 mila copie
soltanto Oltralpe.
“Prima di andare a cantare con
gioia durante la messa di mezzanotte
‘Gloria a Dio e pace agli uomini!’, comincio
a scrivere le prime righe di
queste Confessioni. Ho forse la pretesa
di unirmi al canto degli angeli con
qualche sublime armonia? No, sicuramente!
Voglio, al contrario, cercare di
ripercorrere gli anni trascorsi, con le
loro gioie e i loro dolori, i loro asti e i
loro amori, le loro grandezze e le loro
miserie. Dovrò scendere fino a quella
melma inconsistente nascosta nel cuore
di ogni uomo… con il rischio di offuscare
l’immagine ideale che costruiscono
di me i mass media, e forse
anche di scioccare qualche lettore.
Me ne scuso in anticipo: la verità non
è forse sempre un po’ cruda? Queste
pagine, dunque, non vogliono essere
edificanti, ma vere, autentiche”. L’incipit
e la promessa ai lettori di Suor
Emmanuelle accadono nella notte di
Natale del 1989, al Cairo, tra gli straccivendoli.
Fu, Madeleine Cinquin poi
Emmanuelle, bimba destinata ad assistere
all’annegamento del padre (fino
alla morte le rimasero in testa le
parole di una signora che diceva a lei,
seienne: “Chiamate il vostro papà,
bambini, va troppo lontano, il mare è
cattivo e il bagnino è stato richiamato
sotto le armi”. Ma non servì ad evitarle
di dover dare lei a sua madre la notizia
della morte del babbo e guardarla
pronunciare a mezze labbra l’Ave
Maria, mentre correva fuori dalla villa
delle vacanze di Mariakerke, nel
1914). E dunque, sempre all’inizio del
libro, suor Emmanuelle ci avverte, visto
che nelle pagine successive si metterà
a nudo – perché l’uomo, conferma
lei, nasce nudo. E’ il peccato a mettergli
le foglie davanti – quell’immagine
di “missionaria scandalosa” che la rese
la suora più nota del Novecento dopo
Madre Teresa: “A meno di sei anni
si è piccoli e fragili per un incontro
con la morte: quando nell’infanzia si
infrange qualcosa, rischia nello stesso
tempo di sparire un certo ottimismo
nella concezione del mondo”. Non è
una scusa. E’ un inizio, oltre che narrativo,
di un’anima alla vita. E si sa,
pur non essendo Scrittori, quanto conti
l’inizio.
Anche il Casto di Busi infatti comincia
dall’inizio. E attaccato ai ricordi
di Seminario come la cozza allo
scoglio, ne mette in prima pagina il
pio eco almodovariano. Tanto per situarci
come Lettori di uno Scrittore il
cui Esordio del 1984 non va mai dimenticato.
Parte con un nome, qui,
che mai aveva inserito prima: Giacomelli,
il fotografo dei “pretini” (“Quel
fotografo che nel millenovecentosessantadue…
o nel sessantatré?… mise
un toscanello in bocca ai più sprovveduti,
e perciò non a me… lui, con tutti
i suoi scatti soavemente blasfemi”),
seminaristi in bianco e nero e in perenne
girotondo, immortalati, negli
scatti più famosi, nell’atto acronico di
dar calci a un pallone, a fermare quel
momento di gioventù che li vedrebbe
sempre, appunto, come preti mancati.
Alla ricerca di uno scatto di Giacomelli
in cui forse compare anch’egli,
il Casto snocciola il primo di molti
quadretti mangiapreti di livore sublime,
vero, ma pur sempre livore: “Una
volta questo Giacomelli mi colse alla
sprovvista, o forse non proprio, un po’
me l’aspettavo, stavo seduto a un tavolo
del refettorio, un qualche compagno
mi stava facendo sorridere non
ricordo perché… no, il perché me lo
ricordo, mi stava dicendo che ogni
notte il suo angelo custode passava a
fargli una carezza su e giù sul ventre
con la punta di entrambe le ali…”.
Memorie, come due modi diversi
per passare una vita nell’immondizia.
Ad annaspare nel lavoro sporco oppure
a lottare per un amore più grande.
Comunque, agli occhi del mondo,
in missione per conto di Dio. Immersa
fino al collo nella zabbala, il pattume,
con le sue scarpe da tennis eternamente
consunte, Suor Emmanuelle
divenne, pare, anosmica. Così, in una
ficcante miniatura che ne fece per il
Foglio dei ritratti, Gino Nebiolo scrisse
che veniva additata la missionaria.
L’anosmia è quella malattia che priva
del senso dell’olfatto e dicevano che
la suora del Cairo, ma anche del Sudan,
del Libano e delle Filippine, la
contrasse appunto perché passò tutta
la vita tra le tonnellate di rifiuti delle
bidonville. In convento, un convento
snob, frequentato solo da figlie di famiglie
benestanti, ce la mandò appunto
la famiglia snob, perché la ragazza
fumava di nascosto, fece perdere
la testa all’anziano professore di
greco che se la voleva portare in fuitina
in Spagna e non obbediva praticamente
mai: “Che cosa si nascondeva
dietro queste ribellioni, se non il
segreto di una ferita che non cicatrizzava?
Io non parlavo mai di mio padre,
ma sentivo il vuoto lasciato dalla
sua assenza come un buco nel cuore.
Mi sembrava che, se ci fosse stato, tutti
i miei desideri sarebbero stati esauditi.
Passavo così dalla ribellione alle
lacrime: niente e nessuno riusciva a
calmarmi. Ma un giorno la mia nonna
materna ebbe una di quelle ispirazioni
che solo le nonne possono avere”.
Ecco, ora non pensate che la nonna le
abbia detto “Prega, nipotina mia e vedrai
che il buon Dio ti aiuterà”.
Nelle memorie del Casto, la soluzione
ecclesiale ai tormenti deve essere
edificante à la busienne e dunque
castrante, in un modo o nell’altro,
perciò, da quando arriva la licenza papale
che permette al seminarista di
prendere i voti nonostante abbia solo
ventitré anni “si è pensato che la mia
strada doveva apparire tutt’altra per
essere appieno imboccata a servizio
di Dio. E mi hanno sposato a una donna…
Perché se Dio facesse anche in
pratica gli sconti che fa in teoria, il
Golgota sarebbe ormai un meschino
monte di pietà gestito da ebrei e la
chiesa ancora una bancarella di cianfrusaglie
settarie a una sagra itinerante
di ramoscelli d’ulivo spruzzati
d’argento”. Dall’immondizia veniamo
e nell’immondizia ritorneremo.
Ma nelle memorie di suor Emmanuelle,
l’immondizia è trapasso, contingenza,
e come tale insignificante,
inodore di suo, altro che anosmia. Perciò
con il suo ordine snob, in cui ha
deciso lei di restare per sempre, ci litigò
di continuo, sempre grazie alla
nonnina, che da subito le insegnò a
desiderare per non farsi mettere i piedi
in testa: “Stavamo passando davanti
a una vetrina di giocattoli. Io mi fermo,
incantata, di fronte a una meravigliosa
bambola inglese. Nonna mi disse:
‘Se per un mese non piangi, è tua!’.
E’ incredibile quale energia possa sviluppare
un bambino quando è motivato:
la bambola mi tendeva le braccia.
Mia amata nonna, tu hai saputo
suscitare i primi sforzi della mia vita
e mi hai fatto capire che per vincere
bisogna lottare”. In una ideale disputa
in cui teologia si stringe per far posto
a economia domestica reazionaria,
il Casto è più che d’accordo: “La
proiezione del Cielo è democratica, il
Cielo no. E siccome nessuno prenderebbe
il Cielo smenandoci la Terra, in
religione un minimo di coercizione in
pianta stabile verso i renitenti e i bastiancontrari
ci vuole sempre”.
Perciò il Casto, personaggio da romanzo
breve o racconto lungo, s’intende,
è smisurato nella sua rassegnazione
e teorizza, a seguito di adolescenza
e gioventù a tosature, odore
di minestra di verza e patate e di carne
in scatola dappertutto e sesso non
lavato né toccato tanto meno per soprannome,
una devozione stinta da
eterni infingimenti: “L’inghippo primo
del cristianesimo mi era chiaro:
pervertire l’intollerabile salute e vitalità
dei pagani, rompergli il giocattolino
del vitello d’oro e di tutta la
movida politeista senza accise intorno,
costringerli col terrore e le carneficine
a versare prima quella gabella
doganale che erano abituati, comoda,
a dare a Caronte dopo”. Seguono tabù
di massa a tariffario, peccati specifici
nei campi più disparati – ma soprattutto
della sessualità – ché il peccato
originale risulta, se ben abbiamo inteso,
troppo complesso da comprendere
per gente semplice e incapace
d’astrazione come i cattolici, impossibile
a quantificare per esigerne ammenda
ed esiziale solo una tantum, in
quell’occasione divenuta poi, non a
caso, biblica.
S’affaccia alla finestra, quando c’è,
e vede poveri, Emmanuelle. Pettina
poveri e aggiusta le bambole dei poveri.
Non ne sente la puzza, e questo
lo sappiamo, ché anche l’anosmia può
essere che sia stato un dono di Dio.
Ma la vede, la puzza, e ci lotta, come
contro i peggiori fantasmi. S’indebita
al Cairo per un ambulatorio, ma non
le basta: vuole l’inceneritore, la scuola,
l’asilo, il laboratorio artigiano, il
campo sportivo, il cinema all’aperto.
Mancano i soldi e alle porte della sua
periferia puzzolente spingono i barbari.
La odiano, nell’ordine: gli integralisti
musulmani, i poliziotti politici
che la temono al servizio del Mossad,
la gerarchia copta, i residenti stranieri
e cani rabbiosi (ma quelli solo la
mattina, quando prende il trenino
strapieno per andare a sentir messa a
un’ora di strada). Non ce n’è: se li
mangia tutti e dove non basta l’energia
salvifica che le impresse la nonnina,
arriva il Padre Nostro: “Presto mi
sarei ribellata contro un Dio dai fulmini
facili, che puniva severamente
qualunque disobbedienza, mentre mi
sarei sentita rassicurata da quell’immagine
di tenerezza che poi è rimasta
sempre a fondamento del mio rapporto
con lui. Poco a poco, l’immagine di
mio padre che mi aveva lasciato quel
grande vuoto nell’anima veniva sostituita
da quella di un Padre colmo d’amore
che mai abbandona i suoi figli.
‘Padre nostro che sei nei cieli’: questa
visione forte e al tempo stesso dolce
sarebbe sempre più diventata il mio
aiuto nei primi turbamenti dell’infanzia
e dell’adolescenza. Più tardi, poi,
avrebbe finito per sbocciare in un dialogo
d’amore”.
Cara suor Emmanuelle, che persuasa
che “quelli che vengono definiti
‘i peccati della carne’ siano i meno
gravi agli occhi di Dio” e dunque rapida
a scioglierci da quei surroghi finanziari
di pentimento imposti dalla
filosofia dal Casto, ci confessi: “Nella
lotta contro i miei difetti, le sconfitte
erano a volta cocenti. Così accadde
che la vigilia del rinnovamento della
mia prima comunione, ricado nella
masturbazione. Il giorno dopo, indossando
per la seconda volta l’abito
bianco, la mia anima è turbata: posso
veramente ricevere Gesù nel mio cuore?
Che fare? Tutti mi aspettano. Che
scandalo se non cammino insieme a
tutti gli altri verso l’altare! Va bene:
mi comunico. Quel momento rimane
per me una umiliante lezione. Per fortuna,
sono sicura che Gesù ha avuto
pietà di me, perché mi ama”. Cara
suor Emmanuelle, che credi all’amore
prima che alla teologia, piccola
francese che un giorno annunci trionfalmente
a tavola: “Io mi farò suora, e
diventerò missionaria e martire!”. Risata
generale” (“Da grande farò la
portiera”, annuncia la piccola francese
figlia di ministro dell’“Eleganza del
riccio”, la nuova bibbia minimalista
di Francia. Nessuno ride). Cara suor
Emmanuelle, che avresti risposto al
Casto oggi, che, cogliendoti alla sprovvista
con i piedi nella spazzatura e la
testa tra le stelle, potrebbe chiamarti
in causa così: “Come quei preti operai
o quei missionari che danno la vita
per gli altri e che vivono in ristrettezze
al limite dell’evangelismo e quindi
dell’eresia… costoro sono i preti peggiori,
perché con la loro buona opera
e la loro caparbia buonafede e la loro
esistenza di soli mirabili esempi di
dono totale di sé vanno a cementare le
sabbie mobili delle ciniche, egolatriche,
palancaie, vampiresche gerarchie
vaticane?”.
Forse per qualche ora elencheresti
avventure, faresti il novero dei salvati,
mimeresti per lui i gesti compiuti
per “rianimare, insieme ad altri lottatori,
le scintille di vita per trasformarle
in covoni di fuoco”. Pronunceresti
con passione qualche frase definitiva,
come “Non è facile essere uomini,
né fratelli di altri uomini! La virulenza
delle parole dei profeti e di
Cristo non ha altro scopo che quello
di tirarci fuori dalla nostra indifferenza,
di spingerci sul cammino di
eternità, che non è altro che un cammino
di giustizia”. Confermeresti il
Taine che ti piaceva tanto: “Gratta la
vernice di un uomo civilizzato e troverai
un gorilla feroce e lubrico”,
commentandolo con la ribellione dell’imperfezione,
di cui andavi mai fiera,
racconti, ma sempre certa: “Subodoro
in me una segreta affinità di corruzione
con i miei infelici fratelli
umani trascinati verso il male. Sento
a volte nella mia carne e nel mio sangue
degli strani fermenti. A volte, la
notte, in preda a sogni conturbanti,
mi sveglio di soprassalto: dove sono?
Chi sono? Avrei potuto diventare quel
capobanda di cui i miei amici buontemponi
vedono in me l’embrione?”.
O forse gli racconteresti di quella volta
che ti venne lo stesso dubbio il
giorno in cui il cardinale Decourtray
ti invitò alla sua mensa: “Con impudenza,
mi permisi di chiedergli: ‘Padre
vescovo, la chiesa è veramente
serva e povera?’. Ci fu un silenzio…
‘Abito questo palazzo episcopale che
è proprietà dello stato e rappresenta
la residenza del vescovo di Lione.
Quando ero giovane prete, avevo preso
la decisione di abitare in una stanzetta
e di non viaggiare che in bicicletta.
Oggi potrei confinarmi in una
stanzetta e utilizzare solo una bicicletta?
Lei rigira il coltello nella piaga,
suor Emmanuelle. Preghi affinché
io viva il più poveramente possibile
là dove devo attualmente risiedere e
affinché io sia veramente il servo di
tutti!’. Sono le sue testuali parole. Lo
guardai. Il suo volto aveva la tristezza
dell’uomo obbligato a vivere lontano
dal suo ideale. E tuttavia, lui che aveva
risposto alla mia aggressività con
la dolcezza e una richiesta di preghiere,
non praticava forse quella povertà
di spirito che Gesù ha stabilito
come prima beatitudine?”.
E allora persino lui, “l’agente del riflesso
che ti muove la mano dentro e
fuori dalla tasca” forse si convincerebbe
che l’amore che sbandieri non
è stato inculcato, ma lo hai agito nonostante
e regalerebbe proprio a te
quel frammento caritatevole intravisto
prima dell’amen: “Ricevetti una
sonora tirata di orecchie dal maestro
perché avevo scritto Dio con la minuscola.
A distanza di mezzo secolo e
passa, qui lo dico e qui lo nego: andava
scritto con la minuscola. Dio è molto
più terra terra di quanto lo si voglia
senza che lo voglia lui. Se lo senti in te
come lo sentivo io, lo senti così perché
ti fai minuscolo e fai tutt’uno e lo scrivi
dio per la stessa ragione per cui non
scriveresti mai Io. Basta che non si
sappia in giro…”.
Il Foglio 15 gennaio 2010