DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

DOPO LO SCHIAFFO DI VIENNA. Qual è l’agenda Schönborn? Che cattolicità vogliono? Inchiesta su un potere in crisi

di Paolo Rodari

Roma. Una drastica riforma dell’organizzazione
del potere della curia
romana in chiave collegiale. Rivedere
l’obbligo del celibato per il clero.
Più considerazione per le coppie
omosessuali stabili. Rivisitare la dottrina
sui divorziati risposati. Non si
tratta dell’agenda che il teologo ribelle
Hans Küng vorrebbe imporre alla
chiesa di Ratzinger, quanto di alcune
delle richieste di riforma avanzate in
queste settimane dal cardinale arcivescovo
di Vienna Christoph Schönborn.
Richieste molto simili a quelle
che il cardinale Carlo Maria Martini
espose nel 1999 in un suo celebre discorso
intitolato “Verso l’indizione di
un Concilio Vaticano III”. Martini fu
più dettagliato di Schönborn. La sua
agenda prevedeva anche gli ordini sacri
per le donne, la partecipazione
dei laici ai ministeri, una nuova morale
sessuale, la rivisitazione del sacramento
della penitenza e del concetto
di ecumenismo. Ma anche per
lui, alla base di tutto, prima d’ogni altra
azione di rinnovamento, c’era la
madre di tutte le riforme, quella dell’organizzazione
del potere della chiesa:
più collegialità meno monarchia,
più orizzontalità meno assolutismo.
Che chiesa vuole Schönborn? Sta
superando “a sinistra” il maestro Joseph
Ratzinger spingendosi su una visione
di fatto conciliante con le istanze
del mondo? Oppure sta interpretando
in profondità il pontificato di
Benedetto XVI aprendo il dibattito su
temi solitamente ad esclusivo appannaggio
della sola ala progressista della
chiesa? Il vaticanista Giancarlo Zizola
non ha dubbi: “Schönborn è tra i
cardinali più vicini a Ratzinger. La solidarietà
teologica tra i due è evidente.
E si è palesata in queste ore.
Schönborn ha attaccato chi nella curia
romana ha insabbiato i peccati
carnali dei preti cattolici. E Ratzinger
sull’aereo per Fatima ha elevato il tono
dell’accusa, dicendo che oggi ‘in
modo terrificante’ la persecuzione
della chiesa viene ‘dall’interno’, ‘dai
peccati che ci sono dentro la chiesa
stessa e non dai nemici fuori’”. Anche
se, poche ore dopo, nell’omelia nella
piazza del Palazzo di Lisbona, ha detto
che non è coi programmi e l’organizzazione
che si risolvono le cose:
“Si è messa una fiducia forse eccessiva
nelle strutture e nei programmi ecclesiali,
nella distribuzione di poteri
e funzioni; ma cosa accadrà se il sale
diventa insipido?”. E’ la Weltanschauung
di Ratzinger: “Governare
non è semplicemente un fare, ma è
soprattutto pensare e pregare” ha
detto il 10 marzo scorso prendendo in
prestito parole di san Bonaventura.
Parole che in parte risuonano in
quanto dice Schönborn. Ma in parte
no: quello di Ratzinger è un ritorno
alle origini, alle radici della tradizione
cattolica, più che un salto nelle
braccia della modernità.
L’agenda progressista per il papato
ha diversi estensori. Prima di Schönborn
e dopo Martini, c’è stato il padre
cappuccino Raniero Cantalamessa.
Ma il “lodo Cantalamessa”, come lo
definisce Alberto Melloni nel saggio
del 2006 “L’inizio di Papa Ratzinger”,
non ha avuto fortuna. Redatto per una
meditazione pronunciata appena prima
del Conclave del 2005, espone sette
tesi sulle quali il Papa “chiamato
da Dio” avrebbe dovuto lavorare. Il
cuore del “lodo” sono il ritorno della
chiesa a una minoranza esemplare,
una chiesa che non imponga, soprattutto
nel campo etico, i propri dettami
ma che si limiti all’esempio, alla testimonianza.
Perché questa chiesa possa
predominare occorrono alcune
riforme. La prima, la più importante,
il riordino in chiave collegiale del governo.
Scrive Cantalamessa: “Pietro
esercita il suo ruolo in modo collegiale.
La formula canonica attuale del
rapporto tra il Papa e i vescovi è ‘cum
Petro e sub Petro’. Finora, non si può
negare, è stato accentuato soprattutto
il ‘sub Petro’. I tempi forse sono maturi
per ridare tutto il significato al
‘cum Petro’. Si tratta di creare organismi
opportuni per attuare questo.
Non possiamo più ragionare in termini
di antichi patriarcati”. “Cosa chiedono
in sintesi Schönborn, Martini,
Cantalamessa?”, si chiede ancora Zizola.
“La fine della solitudine del Papa
in favore di un esercizio del potere
più equilibrato”.
Cosa significa tutto ciò? Come si
concretizza la proposta d’una maggiore
collegialità? Per molti occorre tornare
al 1978, al primo libro in cui un
programma di riforma della chiesa in
chiave progressista venne sintetizzato.
S’intitola “L’officina bolognese,
1953-2003” ed è curato da Giuseppe
Alberigo. Descrive i cinquant’anni di
vita del “Centro di Documentazione”
fondato a Bologna
da Giuseppe Dossetti,
l’uomo che ha
messo in campo
quell’“ermeneutica
della riforma”
del Vaticano II che
ancora oggi gode di
una fortuna universale.
Tra i documenti
spicca un
lungo promemoria,
datato agosto 1978,
e “inviato ai partecipanti
all’imminente
Conclave”,
quello da cui uscì
eletto Giovanni
Paolo I, seguito poco
dopo dall’altro
Conclave in cui fu
eletto Giovanni
Paolo II. Il promemoria
s’intitola
“Per un rinnovamento
del servizio
papale nella chiesa alla fine del XX
secolo”. Dossetti chiede tante cose.
Tra queste che il Papa incida sulla
macchina di governo della chiesa fin
dai primi “cento giorni” del suo pontificato,
passando da una gestione monarchica
a una più collegiale. E cosa
Dossetti intende per “gestione collegiale”
è esplicitato in sette punti. Anzitutto
il Papa deve fare il vescovo di
Roma, “diffidando dalle formule vicariali
che hanno ormai un significato
di sgravio di responsabilità
e di
disimpegno”. Deve,
in analogia con
il concistoro medievale
e con il sinodo
permanente
orientale, creare
“un organo collegiale
che, sotto la
sua presidenza
personale ed effettiva,
tratti almeno
bisettimanalmente
i problemi che si
pongono alla chiesa
nel suo insieme,
prendendo le decisioni
relative”. Deve
“riconoscere al
sinodo dei vescovi
una capacità legislativa
vera e propria,
sempre sotto
la sua presidenza
e direzione”. Deve
snellire la curia romana “dislocandola
in altre aree cristiane”. Deve valorizzare
maggiormente le chiese locali
interpretando fino in fondo il principio
di sussidiarietà. Deve lasciare
che i vescovi siano eletti in loco e non
a Roma. Deve abolire le nunziature
apostoliche: in questo modo, dice
Dossetti, “si supererebbe una delle
sopravvivenze più sconcertanti della
concezione della chiesa come potenza
tra le potenze e del papato come
monarchia”. Infine deve abbandonare
“il convincimento di dovere decidere
da solo, di non potere rinunciare
ai simboli monarchici del potere e
dell’autorità”.
Dossetti parla della necessità di un
sinodo permanente. Marco Politi, saggista,
vaticanista e commentatore per
il Fatto, ricorda che in questi anni né
è stato rafforzato il ruolo del sinodo
né è stata realmente valorizzata la
funzione consultiva del collegio cardinalizio.
Dice: “Il collegio cardinalizio,
dove sono presenti i vescovi residenziali
di tanta parte del mondo, è un
luogo dove si potrebbero prendere insieme
decisioni importanti. Cosa che
non è avvenuta. Al contrario, quando
Benedetto XVI qualche anno fa convocò
a Roma i cardinali per esaminare
i rapporti con il movimento lefebvriano,
la maggioranza dei porporati
chiese che prima gli scismatici dovevano
accettare i documenti del Concilio.
Poi, però, il Papa ha preso un’altra
decisione, revocando senza condizioni
la scomunica ai quattro vescovi.
E adesso la trattativa si trascina senza
un reale chiarimento da parte dei
seguaci di Lefebvre. Certamente dopo
la stagione di non-decisione di questo
pontificato molti vescovi si aspettano
in futuro un cantiere di vere riforme”.
Che si eserciti per mezzo del sinodo,
tramite i cardinali, o attraverso
un collegio di saggi come ha chiesto
recentemente Küng, l’agenda progressista
per la chiesa dell’oggi ha un
nemico principale. Quello che gli
stessi progressisti chiamano “l’assolutismo
monarchico romano”. Ne ha
parlato recentemente il sociologo
cattolico Franco Garelli. Per lui la soluzione
è la collegialità la quale, ricorda,
“ha un valore teologico e sociale”.
Dice: “Il cardinale Martini
l’ha richiamata spesso come punto
qualificante. E’ necessario creare le
condizioni affinché nella chiesa vi sia
circolarità di idee”.
La “riflessione assieme”, appunto
la circolarità delle idee, è indicata come
una terapia adeguata per risolvere
i mali interni alla chiesa. Più parole,
maggiore confronto, avrebbero
permesso una migliore prevenzione
dei peccati dei ministri di Dio. Massimo
Faggioli, discepolo della dossettiana
scuola bolognese e oggi docente
di Storia del cristianesimo moderno
all’Università San Tommaso nel Minnesota,
afferma: “Se cambiasse il sistema
con il quale la chiesa esercita
il potere ci sarebbero meno guai. In
fondo è quello che sta chiedendo la
‘mosca bianca’ Schönborn: che Roma
ascolti quanto hanno da dire le chiese
locali. Perché è dal basso che molti
problemi possono emergere in modo
più chiaro e essere risolti”. Certo,
dice, “la stessa divisione del potere a
Roma non aiuta. Con la riforma della
curia voluta da Paolo VI nemmeno i
cardinali capi congregazione vedono
il Papa e parlano con lui. Tutto è accentrato
nelle mani del segretario di
stato. E’ lui il terminale di un cono di
bottiglia sempre più stretto. Al contrario
servirebbe più orizzontalità,
più respiro, più dialogo. E’ questo che
certi vescovi e molte conferenze episcopali
chiedono: le chiese si svuotano,
i fedeli lasciano e i presuli non
sanno più che fare”.
Non c’è ovviamente soltanto Schönborn.
Ci sono anche altri vescovi e
cardinali a chiedere le medesime cose:
più collegialità in scia a quella sinodalità
già pienamente accettata
dalle chiese ortodosse. In Germania
ne ha parlato spesso il cardinale Karl
Lehmann. Anche in Italia c’è chi insiste
su questo punto. E finisce anche
sull’Osservatore Romano. L’ultimo in
ordine di tempo è il vescovo di Ivrea
Luigi Bettazzi, allievo del cardinal
Lercaro a Bologna. Il 25 aprile scorso
scrive sull’Osservatore che la Costituzione
sulla chiesa del Vaticano II parla
prima del “popolo di Dio” e poi
“della gerarchia della chiesa”. Perché
la gerarchia è al servizio del popolo,
non il contrario. La gerarchia
deve cogliere “sempre più l’invito
conciliare alla collegialità che, se si
esprime compiutamente nella collaborazione
dei vescovi col Papa e dei
vescovi tra di loro, si ritrova a ogni livello
della chiesa nello spirito e nella
prassi della comunione. La ‘Lumen
gentium’ ci invita peraltro a considerare
quanti ‘semi del Verbo’ ci sono
nel mondo, quanta diffusione di grazia
ci sia nel creato anche al di fuori
delle strutture ecclesiali”.

© Copyright Il Foglio 13 maggio 2010