DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Visualizzazione post con etichetta Galilei. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Galilei. Mostra tutti i post

Il processo Galilei e le ragioni della Chiesa

By Rai Vaticano | Aprile 20, 2010

Nella vulgata dei secoli successivi, Galilei appare come un grande scienziato: una verità difficilmente contestabile. Ma era anche un paladino della verità e dell’onestà intellettuale? Su ciò ci permettiamo di avanzare qualche dubbio.Ancora giovanissimo, nel 1597, scrisse il libro “Cosmografia” centrato sul valore del sistema tolemaico o geocentrico, tesi che allora insegnava presso l’università di Pisa ma, nello stesso anno, in una lettera indirizzata al suo amico Keplero, dichiarò come, ormai da tantissimo tempo, egli fosse profondamente convinto della validità copernicana.

Nel 1606 affronta lo studio del Compasso Proporzionale ottenendo un certo successo, ma un professore di Padova, il milanese Baldassarre Capra, non convinto delle sue asserzioni, pubblicò un piccolo opuscolo nel quale sottolineò tutti gli errori di calcolo nei quali era incorso il Galilei.

Chi si aspettasse a questo punto una avvincente controversia scientifica degna della libertà di ricerca e di parola, sbaglierebbe. Lo scienziato pisano si rivolse al tribunale di Padova per interdire e sequestrare il testo che osava criticarlo e vinse.

Anche all’apice della fama venne ancora fuori il suo carattere. Alla richiesta di Keplero, scienziato assai generoso anche con lo stesso Galilei nel dare i suoi lavori per amore della scienza, chiese al nostro scienziato i suoi disegni per costruire anche lui un telescopio e studiare la volta celeste sempre in merito alla libertà di ricerca scientifica. La risposta di Galilei fu un secco rifiuto, forse perché, tra tanti studi, fu proprio quest’ultimo a dargli la grande fama.

Infatti, fu nel 1610 che perfezionò uno studio olandese sull’ottica e, proprio grazie ad alcuni disegni, riuscì a costruirsi un telescopio a Padova.

Con questo strumento poté osservare la Luna, le stelle, i pianeti, definendone le fasi, le rivoluzione, per primo scoprì gli anelli di Saturno, e così via, suscitando un entusiasmo ovunque, specialmente, non ci crederete, proprio nella Chiesa cattolica: ebbe, come estimatore, oltre a tanti alti prelati, lo stesso papa Urbano VIII, che gli riconobbe laute rendite e benefici.

A questo punto della storia qualche lettore potrà domandarsi: ma allora quando ha inizio la lotta della Chiesa contro il sistema copernicano e la volontà di insistere su quello tolemaico?

I processi

Possiamo rispondere per brevità che la frattura si compì quando lo scienziato pisano, non contento di studiare le materie scientifiche, volle cimentarsi anche nella teologia.

In alcune lettere affermava, ad esempio, che bisognava leggere la Bibbia in maniera da non contraddire l’idea copernicana. Essa al tempo, è bene ricordarlo, era ancora un’ipotesi e non una realtà, ma era semmai la fede cattolica che doveva riformarsi a questa dottrina, data come definitiva.

Aggiungeva, inoltre, che se la Sacra Scrittura non può sbagliare per fede, possono però sbagliare i suoi commentatori e dunque la Chiesa stessa.

Si arrivava così, per semplice deduzione, ad una forma di protestantesimo con tutto ciò che da questo poteva derivare, data la realtà storica di quei tempi, per la Chiesa e la sua dottrina. Senza questa affermazioni teologiche il caso Galilei, ci permettiamo di supporre, probabilmente non sarebbe mai sorto. Una semplice ipotesi poteva, così, avere risvolti imprevedibili e il sistema eliocentrico copernicano cominciava ad essere visto, proprio per queste eventuali conclusioni, con sospetto in molti ambienti della Chiesa.

Contestare, dunque, la validità copernicana, con questi risvolti che minavano, senza alcuna dimostrazione plausibile i fondamenti dottrinali era per la Chiesa dell’epoca come per la Chiesa di oggi, un dovere assoluto, altrimenti sarebbe venuta meno la sua missione spirituale.

Per ricapitolare il nostro ragionamento, non è quindi la tesi copernicana ad essere condannata in quanto tale, ma, come abbiamo accennato, la sua eventuale manipolazione teologica. Un primo processo Galilei lo subì da parte del Sant’Uffizio su queste sue tesi che contrastavano sulla dottrina. Secondo la vulgata si pensa al povero scienziato torturato, umiliato nella sua dignità di uomo e di scienziato.

Nulla di tutto questo.

Fu solo ammonito verbalmente, neanche con una bolla papale o quant’altro, a non occuparsi e non insegnare l’ipotesi copernicana nelle accezioni teologiche.

Ma Il Galilei, sicuro della sua verità, e ancor di più delle influenti amicizie nelle varie corti italiane e straniere, non dette molta importanza a questo invito e continuò a scrivere, insegnare e guadagnare oltre ad essere, ieri come oggi per certi intellettuali, il benvenuto nei salotti che contavano.

Arriviamo, così, al secondo processo, quello che poi passerà alla storia come una sconfitta culturale della Chiesa.

L’occasione scaturì dal libro ”Dialogo sui massimi sistemi”, in cui Galilei affronta con grande maestria dialettica i suoi studi e le sue conclusioni. Il testo ottiene addirittura l’imprimatur del papa Urbano VIII, suo grande estimatore come scienziato, meno del teologo, tant’è che pur dando il suo assenso invitò l’autore a togliere alcune parti che potevano dar adito ad equivoci.

Galilei, invece di ringraziare il papa che gli ha dato questa opportunità, accetta l’imprimatur, ma non i consigli del papa, come risulterà al processo: addirittura contesta con ironia i rilievi pontifici. Durante il processo, in cui non esiste alcuna tortura, i giudici contestano allo scienziato il suo essere copernicano con le conseguenti tesi teologiche già affrontate, ma accade qualcosa che lascia interdetti gli stessi giudici e, se permettete, anche noi contemporanei.

Da un lato egli negò sotto giuramento di essere per il sistema copernicano e dall’altra chiese ai stessi giudici di poter scrivere un testo per dimostrare l’autenticità del sistema eliocentrico. A questo punto il processo, bisogna ammetterlo, prende una via drammatica con minacce dure, mai attuate, nei suoi confronti se non abiurerà ai suoi errori.

Non dimentichiamo che c’erano nella Chiesa fautori, e non erano pochi, della validità tolemaica e dunque colsero al balzo la possibilità di denigrare tutta l’opera copernicana contro la verità e l’autorità della sacra Scrittura.

In un clima surriscaldato si arrivò finalmente alla conclusione con la sentenza di colpevolezza affermando, purtroppo, che “il Sole sia centro del mondo e immobile di moto locale, è proposizione assurda e falsa in filosofia, e formalmente eretica, per essere espressamente contraria alla Sacra Scrittura; che la Terra non sia centro del mondo né immobile, ma che si muova eziandio di moto diurno, è parimente proposizione assurda e falsa nella filosofia, e considerata in teologia ad minus erronea in Fide”.

Appendice

Nella relazione finale della Commissione di studio sul processo a Galilei, datata 31 ottobre 1992, il cardinale Poupard scrisse che la condanna del 1633 fu ingiusta, per un’indebita commistione di teologia e cosmologia pseudo-scientifica e arretrata, anche se veniva giustificata dal fatto che Galileo sosteneva una teoria radicalmente rivoluzionaria senza fornire però alcuna vera prova scientifica sufficiente a permettere l’approvazione delle sue tesi da parte della Chiesa.

Il problema che si posero dunque i teologi dell’epoca era, dunque, quello della compatibilità tra l’eliocentrismo e la Scrittura.

In appendice a questo discorso vogliamo brevemente sottolineare in quale contesto storico la Chiesa, con la sua presunta chiusura, si trovava ad agire.

Nella pacifica e libera Europa del Nord, in quel periodo abbiamo la famosa guerra dei Trent’anni tra cattolici e protestanti che costò la vita a circa la metà dell’intera popolazione. In Inghilterra, un pazzo criminale come Cromwell, scatenò la caccia al cattolico massacrando centinaia di martiri irlandesi e coloro che sopravvissero vennero fatti schiavi per lavorare nelle nuove colonie oltre mare.

Mentre si parla sempre dell’inquisizione cattolica, una verità tutta riscrivere, nel mondo protestante avveniva il massacro della caccia alle streghe, solo in Germania si parla di almeno 100 mila vittime, tra cui, nientemeno che la madre di Keplero. La Francia fu martoriata per decenni dai fanatici Ugonotti che, oltre a massacrare inermi cittadini, profanarono migliaia di chiese aprendo lo scenario per nuove sanguinose guerre. Malgrado ciò, ancora oggi di questo secolo si ricorderà solo ed unicamente la “ferocia” del processo contro Galileo Galilei.

Antonello Cannarozzo

Galileo - Se ancheTopolino non la racconta giusta sull'Eppur si muove!...

di Villi Demaldé
Tratto da Il Sussidiario.net il 9 marzo 2010

In questi mesi che chiudono le ricorrenze galileiane (la prima osservazione dei satelliti di Giove è del 7 gennaio e la pubblicazione del Sidereus Nuncius è del 12 marzo di 400 anni fa) il noto settimanale a fumetti Topolino ha proposto una simpatica iniziativa: ai numeri dal 2824 al 2828 alla rivista erano allegate, per qualche euro in più, le cinque parti di un “cannocchiale” presentato come “di Galileo”.

Poco più che un giocattolo, beninteso, con obiettivo in plastica e un oculare che consente una trentina di ingrandimenti; ma forse sufficiente ad avvicinare i bambini e i ragazzi all’affascinante osservazione del cielo (che è tale, comunque, anche semplicemente ad occhio nudo o con un comune binocolo).

Dove il notissimo periodico cade, però, non è tanto sul fatto che quello fornito non è un “vero” cannocchiale galileiano (l’immagine diritta che esso mostra non è ottenuta infatti con un oculare formato da una singola lente divergente o negativa, come negli strumenti di Galileo, ma piuttosto con un oculare composto da due lenti convergenti o positive), quanto nelle brevi note riportate sulla figura e sull’opera del grande pisano.

Nell’inserto della rubrica Focus, dal titolo di per sé eloquente “Eppur si muove!” sono contenute infatti alcune inesattezze e imprecisioni, oltre a una collezione di luoghi comuni sulla vicenda del processo a Galileo e della sua conseguente abiura. Cito dal testo: «Notò che Venere, come la Luna, presentava delle “fasi” [cioè essa appare ora come un disco, ora come una falce più o meno sottile], che dimostravano in maniera inequivocabile il moto di rivoluzione del pianeta attorno al Sole».

In realtà le fasi di Venere, che sarebbe impossibile osservare nel loro insieme in un sistema di tipo tolemaico e che quindi portano ad escluderlo, potevano tuttavia essere completamente spiegate sia ammettendo un sistema eliocentrico sia ipotizzando il sistema proposto dall’astronomo danese Tycho Brahe, maestro di Keplero, in cui la Terra è immobile al centro, la Luna e il Sole le ruotano attorno mentre i pianeti ruotano attorno al Sole. Quindi la presenza della fasi di Venere è un indizio, non certo una prova definitiva della bontà del sistema eliocentrico.

Ricorrente nei testi dell’inserto è poi l’affermazione che l’accusa di eresia rivolta a Galileo sia diretta conseguenza del suo sostegno alla teoria copernicana, passando così tranquillamente sopra a tutta la complessità di una vicenda lunga e travagliata, in cui gli aspetti di carattere scientifico, epistemologico, filosofico, culturale, pastorale e – non ultimi – personale e caratteriale dei soggetti coinvolti risultano strettamente legati tra loro con pesanti, reciproche influenze.

In un trafiletto intitolato “L’abiura di Galileo” si illustra infine come la famosa frase "Eppur si muove!" non sia stata pronunciata dallo scienziato dopo la formula dell’abiura come molti ritengono, ma «più probabilmente inventata dal giornalista Giuseppe Baretti» per l’antologia Italian Library pubblicata a Londra nel 1757, con «l’intento di difendere la dignità dello scienziato italiano, costretto a rinnegare il modello copernicano».

Curiosamente, le frasi usate dall’autore del breve testo sono identiche o quasi a quelle della voce di Wikipedia “Eppur si muove”: semplice coincidenza? Peccato però che si trascuri un particolare rilevante, che Wikipedia invece riporta: che Baretti, cioè, «aveva ricostruito la vicenda in maniera anticattolica».

Le brevi osservazioni riportate sottolineano, se mai ve ne fosse bisogno, quanto siano diffuse - e riproposte ancora oggi, persino su un periodico per ragazzi - posizioni su Galileo, sulla sua fondamentale opera scientifica, sulla sua vicenda umana e sul “caso” che l’ha coinvolto ben poco aderenti alla realtà dei fatti.

Realtà che viene invece presentata con obiettività pacata e rigorosa nella mostra Cose mai viste, proposta dall’associazione Euresis all’ultimo Meeting di Rimini e ora disponibile in versione ridotta ad uso delle scuole. Uno strumento importante in mano a docenti e studenti per un serio e approfondito lavoro culturale su Galileo e sulle sue scoperte, l’occasione per riprendere il filo di una vicenda tanto decisiva per la sviluppo della cultura tutta, non solo di quella scientifica, superando allo stesso tempo gli stereotipi e i pregiudizi che ne impediscono la piena e autentica comprensione.

Il caso Galileo Galilei: una controstoria. Di Francesco Agnoli

http://www.decodingtheheavens.com/blog/image.axd?picture=2009%2F1%2FGalileo_arp_300pix.jpg


Dopo il processo a Gesù, quello a Galilei è forse il più conosciuto e dibattuto nella storia. Conosciuto, in realtà, molto male, se è vero come è vero che per tantissime persone esso segna un contrasto insanabile tra fede e scienza, tra Chiesa e rivoluzione scientifica. Cercherò di dimostrare, analizzando la vita e il pensiero del grande Galilei, che i luoghi comuni, ribaditi con tenacia dai calunniatori, e ben digeriti dall'abbondanza dei ri-masticatori di frasi fatte e di pensieri già pensati, hanno avuto la capacità, nell'immaginario collettivo, di ribaltare sostanzialmente i termini del discorso. Che, in breve, sono questi: anzitutto Galilei fu sempre un cristiano, non per comodità, ma per convinzione personale; in secondo luogo il suo straordinario magistero è dovuto al suo appartenere ad una cultura, quella italiana, profondamente cattolica, che dopo oltre mille e cinquecento anni stava ancora affrancandosi, piano piano, dalle favole politeiste ereditate dal paganesimo; infine Galilei divenne il "divin uomo", lo scienziato famoso e ben pagato che fu, in buona parte grazie proprio alla Chiesa, che accolse e consacrò tutte le sue scoperte più importanti, nessuna esclusa, e che entrò in conflitto con lui, nelle persone di Roberto Bellarmino e Urbano VIII, soprattutto per questioni personali e di metodo, più che scientifiche, non senza qualche torto, e qualche ragione. Ma andiamo con ordine.

E' bene anzitutto partire dal quadro storico in cui Galilei va inserito. L'Italia, sede del papato, è anche la patria delle università, dei Comuni, del rinascimento, dell'arte, della rinascita della medicina; è il luogo di studio e di formazione del canonico Copernico, e di scienziati come Vesalius ed Harvey…. La religione dominante è appunto quella cattolica, che esalta Dio come Logos, come Ragione, propone la creazione come qualcosa di "buono", di bello, osteggia magia e astrologia, sempre rinascenti sull'onda del pensiero pagano, ed esclude dal creato la presenza di divinità immanenti, elementi spiritali di origine panteista.

La scienza moderna dunque non nasce già calzata e vestita, d'improvviso, come un fiore nel deserto, come Atena dalla testa di Zeus. Il pensiero di fondo dell'Europa cristiana è quello di Sant'Agostino: "Lontano da noi il pensiero che Dio abbia in odio la facoltà della ragione…Lontano da noi il credere che la fede ci impedisca di trovare o cercare la spiegazione razionale di quanto crediamo, dal momento che non potremmo neppure credere se non avessimo un'anima razionale".

Contemporaneamente, dappertutto nel mondo, vi sono credenze politeiste, irrazionali, magiche, animiste, che di per sé, da sole, escludono la possibilità stessa del concetto di legge fisica. Nel buddismo, ad esempio, il mondo è una grande illusione, e così pure la vita e l'esistenza: in questo contesto, non può certo nascere un pensiero scientifico, che indaghi la realtà, le sue leggi. Analogamente, mentre in Africa gli stregoni invocano la pioggia con le loro danze tribali, nella più evoluta Cina non si è "mai sviluppata la concezione di un legislatore celestiale e divino che impone leggi sulla Natura non umana" (J.Needham, citato in La vittoria della ragione, Lindau).

Galilei insomma, nasce nell'Italia cattolica, più precisamente nel comune di Pisa, nel 1564. Nel 1589, grazie all'appoggio del cardinal Francesco Del Monte, viene nominato lettore di matematica nella sua città; poi si sposta a Padova per 18 anni. Subito rivela doti straordinarie, insieme ad un carattere piuttosto difficile, che lo mette in contrasto molto spesso con i suoi colleghi universitari. Nel 1609, perfezionando uno strumento di invenzione altrui, costruisce il suo primo telescopio: lavora personalmente i vetri, e riesce ad aumentarne di continuo le prestazioni. Inizia così l' avventura intellettuale del grande pisano. Galilei, qui sta la novità, punta il cannocchiale al cielo, e con la pubblicazione del Sidereus nuncius rende edotto il mondo delle sue scoperte: il carattere scabro ed irregolare della superficie lunare, costellata di rilievi e avvallamenti; un immenso numero di stelle oltre a quelle conosciute; quattro satelliti intorno a Giove.

Cosa c'è di anti-cristiano in queste scoperte? Nulla. Di anti-pagano? Tutto. Infatti la cosmologia dell'epoca è ancora quella aristotelico-tolemaica: i cristiani, soprattutto i commentatori del Genesi, la hanno spesso criticata, ma senza proporre nessuna alternativa utile. Per questo, nel XVI secolo, i dotti credono ad una Luna e a pianeti cristallini, perfetti, lisci, di quinta essenza, divini. Per costoro, come per Aristotele, esistono due fisiche: quella terrestre, e quella celeste. Anche questa visione dualista era stata già combattuta da cristiani come Ambrogio, Grossatesta, e tanti altri, i quali facevano questo semplice ragionamento: un solo Creatore, un solo legislatore universale, dunque una sola fisica.

Nel suo Esamerone, più di mille anni prima, Ambrogio spiegava che "in principio Iddio Dio creò il cielo e la terra", "simultaneamente", con un "atto fulmineo della sua volontà", non come due entità qualitativamente diverse, ma come creature procedenti dallo stesso Creatore. E accennando ad Aristotele affermava: "Non concludono nulla dunque, coloro che per sostenere l'eternità del cielo hanno ritenuto di dover introdurre un quinto elemento etereo" (la quinta essenza, ndr), perché cielo e terra, avendo iniziato ad esistere nel tempo, sono entrambi "corruttibili".

La reazione al Sidereus Nuncius, e cioè all'unificazione di fisica terrestre e fisica celeste, che è la grande e imperitura conquista del pisano, non si fa attendere. Chi si oppone? Gli astrologi, i medici che legano le malattie agli influssi astrali, matematici di Parigi, Bologna, Padova…cattedratici che non vogliono abbandonare la propria visione del mondo, e il proprio prestigio. Nessuna scomunica religiosa, o d'ambito cattolico, di fronte ad una constatazione che mette in crisi l'idea di una divinità immanente, ma che risulta da subito perfettamente concorde con quella di un Dio trascendente. "A Pisa, a Firenze, a Bologna, a Venezia, a Padova, molti, o mio Keplero, hanno visto, ma tutti tacciono ed esitano". Così scrive Galilei a Keplero, mentre l'aristotelico Cesare Cremonini si rifiuta di guardare nel cannocchiale, invocando l'ipse dixit del pagano Aristotele. Al disappunto e all'incredulità di molti si aggiunge presto l'invidia, con la nomina di Galilei, da parte di Cosimo II de Medici, a Primario Matematico dello studio di Pisa, con uno stipendio straordinario di 1000 scudi all'anno.

Ma chi consacrerà le scoperte e la figura di questo scienziato, emergente ma anche, da subito, in grande difficoltà e con tanti avversari "laici"? L'ordine dei Gesuiti. E' Galilei stesso, dopo le sue scoperte, a volerle patrocinare a Roma, presso la prestigiosa "Accademia di matematica" dei Gesuiti del Collegio Romano. In quest'epoca i gesuiti sono un ordine forte, diffuso in tutto il mondo, con immensi meriti in campo scientifico. Padre Matteo Ricci, ad esempio, è colui che negli stessi anni introduce la scienza occidentale in Cina, facendo conoscere a quel paese l'orologio automatico, la matematica, la geometria e la cartogral'orl'orl'orl'orl'orl'orl'orl'orai cinesi che la terra è tonda e non quadrata. Di poco posteriori sono i gesuiti Martino Martini, autore nel 1655 del Novus Atlas Sinensis, il primo Grande Atlante della Cina, ed Eusebio Chini, un altro missionario gesuita, esploratore, cartografo, che avviò lo sviluppo civile ed economico delle terre che oggi costituiscono lo Stato messicano del Sonora e quello americano dell'Arizona, insegnando agli indigeni l'arte della coltivazione, dell'allevamento, dell'irrigazione, della distillazione, della lavorazione del ferro…

I gesuiti sono viaggiatori, missionari, instancabili costruttori di scuole, abili matematici ed astronomi. A ragione Galilei vuole passare da loro. Ed infatti è il matematico gesuita Cristoforo Clavio a tributargli "gran lode" "in quanto primo che abbi osservato questo". "La dichiarazione del Clavio, osserva il Camerota, segnò un punto decisivo nella campagna condotta da Galileo a sostegno delle straordinarie scoperte dei biennio 1609-1610. L'indiscutibile competenza scientifica della scuola gesuita ed il grande prestigio personale del suo principale esponente contribuivano, infatti, a garantire in modo estremamente autorevole la piena attendibilità dei riscontri telescopici galileiani. A seguito di quel pronunciamento, lo stesso Galilei, nel febbraio 1611, notava come, ormai, a dubitare dell'effettività delle 'novità celesti' fossero rimasti solo i rappresentanti del più stolido e pertinace aristotelismo" (M. Camerota, "Galileo Galilei", vol.I pag. 240, Mondadori).

Dopo questi fatti Galilei, nella primavera del 1611 viene "ricevuto dal papa Paolo V, che non volle che lo scienziato si genuflettesse ai suoi piedi" ed entra nelle grazie di cardinali e prelati romani. Tra i riconoscimenti dei gesuiti, non si può dimenticare il discorso in cui il gesuita belga Odo van Maelcote, incaricato dal Bellarmino, esalta Galilei come "uno dei più grandi astronomi del nostro tempo", e lascia addirittura intendere "l'accettazione di una prospettiva copernicana" (i gesuiti, lungi dal rimanere ancorati al sistema tolemaico, ne vedono chiaramente le mancanze, deridono "le fantasie degli antichi", e cercano, o di correggerlo, o di propendere per il modello "geo-eliocentrico" tychonico).

Il vero e proprio "trionfo romano" si conclude con l'ammissione di Galilei, probabilmente su richiesta di mons. Malvasia, all'Accademia dei Lincei, un prestigioso cenacolo segnato da un fervente senso religioso, posto sotto la protezione papale, e considerato da molti come la prima società scientifica d'Europa. Tornato da Roma con grandi onori, Galilei viene subito avversato da un "gruppo di aristotelici toscani", suoi colleghi d'università, per i quali Galilei "rappresenta un outsider, particolarmente inviso in quanto balzato rapidamente, sull'onda del successo delle scoperte astronomiche, a grandi onori" e a "generosi proventi" (idem, p. 270).

A questo punto lo scienziato pisano scopre le macchie solari, che in realtà aveva già mostrato a Roma a "molti prelati". La notizia, Phebus habet maculas, è scioccante per il Cremonini e i Peripatetici tutti, che vedono attaccata ancora una volta la loro credenza nell'immutabilità e incorruttibilità della materia celeste, e anche per tutti quei rinascimentali che, rispolverata la magia degli antichi, cercano di far rinascere un culto del sole. Per i cattolici, le macchie di Febo non comportano alcun problema teologico.

Anzi, ribadendo "il pieno riconoscimento dell'intrinseca unità di tutti i fenomeni dell'universo" e abbattendo definitivamente la separazione tra sfera celeste e terrestre, riconfermano l'idea della creazione, contrapposta ad un'idea panteista ed animista, in quell'epoca tornata di moda. Gli unici contrasti in ambito cattolico nascono tra Galilei e un bravissimo matematico ed astronomo gesuita, Christoph Scheiner, anzitutto sulla priorità di chi abbia scoperto le macchie solari (Galilei), poi su chi abbia per primo parlato dell'inclinazione dell'asse solare (Scheiner).

Nel 1612 però Galilei scrive al cardinal Conti, il quale, nella sua risposta, dichiara l'alterabilità della materia celeste "comune opinione dei Padri"; quanto al movimento di rotazione terrestre lo ritiene possibile, ed indica la posizione del teologo spagnolo Diego de Zuniga, che in un suo commentario al libro di Giobbe sosteneva "essere più conforme alle Scritture moversi la terra, ancor che la sua interpretazione non sia seguita" (idem, p.311). In questo periodo Galilei comprende che l'ultima possibilità che i suoi avversari hanno di screditarlo è quella di "buttare la cosa in politica", o meglio, in religione.

E' risaputo, infatti, che dietro i due sciocchi domenicani, il Caccini e il Lorini, che causeranno il primo "processo" a Galilei nel 1616, si muovono un gruppo di aristotelici, una vera e propria "lega antigalieliana", guidata da Lodovico Delle Colombe, che Galilei chiama "pippione" (in toscano "piccione", ma anche "coglione"). Costui era stato appunto il primo, dopo numerosi scontri in nome di Aristotele, a tirare in ballo la Scrittura contro la dottrina copernicana, come ultima ratio e per motivi evidentemente strumentali (idem, p. 313). Scrive a proposito Federico Di Trocchio: "Le indagini storiche hanno però accertato che fu un gruppo di scienziati pisani e fiorentini a suscitare il fatale scontro tra Galileo e la Chiesa, mossa che costituiva l'unica possibilità di arrestare il copernicanesimo, vista l'impossibilità di contrastarlo sul piano scientifico. L'ostilità della comunità scientifica nei confronti di Galilei fu, almeno all'inizio, generale. L'amico Paolo Gualdo gli scriveva da Padova nel 1612: 'Che la terra giri, sinhora, non ho trovato né filosofo né astrologo che si voglia sottoscrivere all'opinione di Vostra Signoria…'. I più accaniti oppositori furono però un gruppo di studiosi di Pisa e Firenze: Giorgio Coresio, professore di greco all'università di Pisa, Vincenzo di Grazia, che insegnava invece filosofia, nonché Arturo Pannocchieschi, rettore della stessa università. Altro importante membro del gruppo era Cosimo Boscaglia, professore a Pisa, prima di logica e poi di filosofia, che fu molto apprezzato da Ferdinando I e Cosimo II de' Medici. Il più agitato del gruppo era però un filosofo dilettante di Firenze, Lodovico delle Colombe, che viene descritto da un contemporaneo come un individuo 'lungo, magro, nerastro, e di fisionomia sgradevole'. Galilei lo chiamava Pippione, che in toscano vuol dire sia 'piccione' che 'coglione', nel duplice senso, sia letterale che metaforico. Tutto il gruppo veniva perciò indicato nelle sue lettere come la 'lega del Pippione'".

Tra i motivi di avversione a Galilei vi è senza dubbio anche l'invidia: "I risultati clamorosi ottenuti con le osservazioni rese possibili dal cannocchiale e la pubblicazione del 'Sidereus nuncius' avevano reso Galileo rapidamente famoso, sicché per tornare dall'università di Padova a Pisa aveva preteso delle condizioni di privilegio. Per essere libero di fare ricerca, non aveva infatti alcun obbligo di insegnamento: il suo stipendio veniva però pagato con i fondi dell'università e si trattava, oltretutto, di uno stipendio superiore a quello degli altri professori, i quali erano tenuti, oltre a insegnare, anche ad abitare a Pisa, obbligo dal quale Galilei era esentato. Questi e altri privilegi, accordati a chi si contrapponeva all'ortodossia scientifica del tempo, apparivano ampiamente ingiustificati al mondo accademico pisano". (Federico Di Trocchio, "Il genio incompreso", Mondadori).

Che i due domenicani, il Lorini e il Caccini, siano strumenti della suddetta lega e del Delle Colombe, lo testimonia anche una lettera di Matteo Caccini, al fratello domenicano: "Ma che leggierezza è stata la vostra, lasciarvi metter su, da piccione o da coglione, a certi colombi! Che havete a pigliarvi gl'impicci d'altri?". In un'altra missiva, Matteo rivela di aver appreso che "la sua (di Tommaso) è stata un a carriera fatta da que' colombi, et io la tengo per verissima" (Camerota, p.325-326).

I primi guai a Galilei nascono dunque da baruffe di scienziati, di colleghi universitari, aristotelici o invidiosi, tramite la sciocca ingenuità di domenicani ignoranti e facilmente manipolabili, è bene ripeterlo, dagli scienziati e dagli intellettuali dell'epoca. La tattica adottata, in extremis, dal Dalle Colombe e dai suoi alleati, perdenti sino a questo momento grazie al ruolo dei Gesuiti, si rivela immediatamente efficace. La polemica sulla presunta inconciliabilità tra copernicanesimo e Scritture esplode per una serie di motivi che non è facile comprendere del tutto. Certo non è un caso che a prestarsi al gioco, non senza violente polemiche con alcuni confratelli, siano due dominicani: siamo nell'epoca in cui altri due domenicani, Giordano Bruno e Tommaso Campanella, sostengono l'eliocentrismo "copernicano", ma in nome delle loro convinzioni magiche ed astrologiche, al di fuori di qualsiasi prospettiva scientifica.

Si dimentica troppo spesso che la nascita della scienza moderna è contemporanea ad un grande scontro epocale, quello tra Chiesa e visione magica del mondo, che avrebbe potuto cambiare il corso della nostra cultura. Neoplatonismo, neopitagorismo ed ermetismo rinascimentali, infatti, non hanno portato solo un interesse verso visioni matematiche, per il vero molto simboliche e astratte, ma anche per interpretazioni del mondo in chiave animista e panteista, e quindi magica. La "città del Sole" di Campanella è costruita in modo da captare gli influssi astrali, e il sole vi appare quindi come una vera divinità. Come ha notato Paolo Rossi in origine "i primi sostenitori della verità copernicana non sono certo facilmente inseribili tra i moderni o tra gli assertori di un nuovo metodo scientifico", per cui "parlare di 'arretratezza scientifica' di fronte alle incertezze manifestate in quegli anni è un non senso".

Infatti Giordano Bruno nel 1585 difende la teoria di Copernico "sullo sfondo della magia astrale e dei culti solari", legandola alla filosofia di Marsilio Ficino, che non disdegnava presentarsi come un sacerdote del culto solare e che considerava i pianeti come "stelle viventi" e "grandi animali". Nel 1592 Francesco Patrizi era stato condannato per aver sostenuto sì la rotazione della Terra, ma all'interno di una visione secondo la quale gli astri hanno vita spirituale e intelligenza. Robert Recorde, John Dee e Thomas Digges, tutti personaggi che si richiamano a Copernico sono accesi sostenitori dell'ermetismo e dell'astrologia. Anche nei testi di Wiliam Gilbert, "anch'egli in qualche modo copernicano, non mancano temi vitalistici né richiami a Ermete, Zoroastro, Orfeo" (P.Rossi, "La nascita della scienza moderna in Europa", Laterza, pp.88-89). La centralità del sole è per loro di tipo sacrale, non astronomica e fisica. Lo stesso Copernico, che come medico "praticò la medicina per mezzo della teoria degli influssi astrali", era stato in parte condizionato dal neoplatonismo e dal neopitagorismo rinascimentali, dando alla centralità del sole, in certi momenti, quasi un significato mistico, religioso (Antiseri, Koyrè, Yates).

Non c'è da stupirsi allora se tra gli uomini di Chiesa, gli unici che combattono il revival magico e la rinascente eliolatria pagana, in nome della ragione, e quindi della scienza, alcuni finiscano per interpretare Copernico negativamente, a causa delle strumentalizzazioni che tanti ne avevano fatto. In questo clima Galilei decide di difendersi sul piano dell'esegesi, con l'aiuto di due sacerdoti suoi allievi, padre Benedetto Castelli, grande scienziato, e un barnabita.

Il succo delle "lettere copernicane" è perfettamente ortodosso: la Sacra Scrittura e la natura scaturiscono entrambe dal "Verbo Divino", "quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio". I noltre la Scrittura non deve essere sempre interpretata alla lettera, sia perché si rivolge al volgo, per essere da lui compresa, sia perché, come aveva detto il cardinal Baronio, il suo intento non è quello di dire "come vadia il cielo" ma "come si vadia in cielo". Trovandosi però ad analizzare il miracolo narrato in Giosuè 10, 11-13, in cui Dio ferma il sole al fine di prolungare il giorno, Galilei ritiene di poter adottare una posizione concordista, ritorcendo contro i suoi avversari l'interpretazione letteralista. Spiega cioè che il passo in questione è molto più compatibile con la teoria copernicana che con quella tolemaica.

Si tratta di una posizione che era già stata sostenuta, che veniva affermata nello stesso periodo anche da un frate, Antonio Foscarini, e che trova sostenitori accreditati ancor oggi. Le prime lettere di Galilei, lungi dal placare le polemiche, le ampliano, sino alla richiesta da parte dei cardinali Barberini e del Monte, suoi amici, di non eccedere "i limiti fisici o mathematici, perché il dichiarar le Scritture pretendono i theologi che tocchi a loro", e di trattar quindi del sistema copernicano "senza entrare nelle Scritture".

Di fronte a questi inviti, che se accolti avrebbero sicuramente scongiurato qualsiasi futuro contrasto, Galilei risponde con altre due lettere, all'amico Mons. Pietro Dini, in cui ritorna sul rapporto tra astronomia copernicana ed esegesi biblica. Così facendo, però, si espone, per invasione di campo, all'invasione di campo della Chiesa. Roberto Bellarmino rivolge allora a lui e al Foscarini l'invito (12 aprile 1615) esplicito a considerare il sistema copernicano solo in termini ipotetici, ex suppositione.

Molto prudentemente però aggiunge che nel caso in cui si dimostri la validità delle tesi copernicane "allhora bisogneria andar con molta consideratione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e più tosto dire che non le intendiamo, che dire che sia falso quello che si dimostra". E concludeva: "io non crederò che ci sia tal dimostratione, finchè non mi sia mostrata".

Siamo di fronte ad una posizione perfettamente corretta: Bellarmino non si dichiara assolutamente contrario al sistema copernicano, bensì afferma di non voler che altri intervenga nella interpretazione delle Scritture prima che esso sia una certezza dimostrata e non solo una ipotesi, come è ancora allora e come ammetterà proprio Galilei in seguito alla lettera di Bellarmino.

Siamo così al 1616, l'anno della convocazione di Galilei a Roma e della condanna da parte del Santo Uffizio, diviso al suo interno, della "dottrina pitagorica" della mobilità della terra e della immobilità del sole. Tale dottrina non viene però dichiarata "eretica"; a Galilei non viene imputata nessuna colpa personale, nè richiesta alcuna abiura. In realtà il decreto del 1616, per quanto sicuramente sbagliato, col senno di poi, dimostra che se la questione non fosse stata portata sul terreno delle Scritture, la Chiesa non se ne sarebbe occupata: infatti la pubblicazione di Copernico è sospesa donec corrigantur, cioè finché non verrà corretta eliminando solo i dieci versi della prefazione a Paolo III dove si accenna alle Sacre Scritture; l'altro testo proibito è la lettera del Foscarini, perché "esplicitamente votata ad una difesa concordista [e quindi scritturale] della cosmologia Pithagorica" (l'utilizzo di questo aggettivo, al posto dell'aggettivo "copernicana", può essere compreso solo alla luce dei ragionamenti precedenti, sulle implicazioni animiste e magiche del neopitagorismo eliocentrico rinascimentale).

Dopo il decreto del 1616 Galilei entra in contrasto con il gesuita Orazio Grassi, valente scienziato e architetto della chiesa di Sant'Ignazio a Roma, intorno all'apparizione di alcune comete nel cielo. Il Grassi in un suo scritto sostiene contro Aristotele che le comete costituiscono dei veri e propri corpi celesti, situati oltre la sfera lunare. Galilei risponde interpretando "la parte di un aristotelico conservatore" inoltrandosi "in una selva di incoerenze" (Rossi, p.123), e definendo le comete, erroneamente, come effetti ottici dovuti ai riflessi della luce solare sui vapori che circondano la terra. La sua trattazione è tutta giocata in attacco, con un linguaggio ed un tono che sconcertano i Gesuiti, che si sentono ingiustamente attaccati, dopo tanto favore concesso allo scienziato pisano. In effetti Galilei adotta sovente, nelle sue polemiche, un linguaggio violento, brutale, che gli alienerà nel tempo molti amici, definendo gli avversari "serpe lacerata, castrone, scorpione, solennissima bestia, ignorantissimo bue, animalaccio…".

La verità è che non tollera che i Gesuiti, abbandonato Tolomeo e Aristotele, stiano sempre più abbracciando il sistema geo-eliocentrico di Tycho Brahe. Nel 1623 esce "Il Saggiatore" dedicato al nuovo papa, il cardinal Maffeo Barberini, col nome di Urbano VIII. La sua elezione è motivo di grande gioia per Galilei, che lo ricorda come un amico e un grande estimatore. Decide così che è venuto il tempo di tornare a Roma, dove giunge il 23 aprile del 1624: il giorno dopo è già accolto in una lunga udienza privata dal papa, che lo rivedrà, in tre mesi, ben sei volte. Nel periodo della sua permanenza nell'urbe Galilei constata di essere ancora stimato ed amato da molti cardinali e uomini di curia.

Lascia Roma carico di doni ricevuti direttamente dal papa, insieme ad un attestato in latino in cui si esaltano le doti e le scoperte del "dilectus filius Galilaeus", che può essere considerato, a quest'epoca, a tutti gli effetti, "l'astronomo ufficiale del papa". Anche i suoi allievi più intimi, padre Benedetto Castelli e padre Bonaventura Cavalieri, fanno fortuna: il primo viene nominato alla nuova cattedra di matematica dell'università pontificia La Sapienza nel 1626, mentre il secondo nel 1629 assume la stessa cattedra a Bologna. Commenta Pietro Redondi: "il più prestigioso insegnamento scientifico universitario in terra papale era assicurato ad un galileiano" (P. Redondi, "Galileo eretico", Einaudi, p. 119-123). I

n realtà, amicizia e stima a parte, Urbano VIII dissente su un punto, in particolare, rispetto a Galilei: ritiene che "poiché per ogni effetto naturale può darsi una spiegazione diversa da quella che a noi sembra la migliore (data l'onnipotenza divina, ndr), ogni teoria deve muoversi sul piano delle ipotesi e rimanere su questo piano". Ad una siffatta opinione Galilei risponde con un ragionamento assai più realista e quindi più conforme alla dottrina cattolica: nessuna conoscenza umana limita la libertà e l'onnipotenza di Dio, perché "noi non cerchiamo quello che Iddio poteva fare, ma quello che Egli ha fatto".

L'uomo infatti è dotato di ragione per conoscere le realtà naturali, benché altre realtà, quelle soprannaturali, abbisognino della Rivelazione divina, delle sacre Scritture. Nel 1632 esce il "Dialogo sopra i due massimi sistemi", l'opera che segna la rottura con Roma. Galilei viene infatti immediatamente convocato a discolparsi, e sostiene insistentemente di aver voluto confutare, non avvallare, la teoria copernicana. L'evidente menzogna rafforza l'ala intransigente del sant' Uffizio, che attribuisce a Galilei alcune colpe: l'aver trattato il sistema copernicano come verità assoluta, pur in assenza di prove concrete, e non come ipotesi; l'aver posto in bocca a Simplicio, cioè ad uno sciocco, persino nel nome, incaricato di difendere le idee aristoteliche, alcune frasi di Urbano VIII, lanciandogli così una evidente sfida; l'aver proposto come prova incontrovertibile della teoria copernicana, erroneamente, il moto delle maree, mettendo nel "mazzo con le vecchie ridicolose" la posizione degli scienziati vaticani i quali collegavano a ragione le maree alla attrazione della luna (mentre Galilei bollava questa opinione come una credenza magica).

Galilei si trova dunque a mal partito: da una parte il suo tentativo di negare la realtà, dall'altra il rancore di Urbano VIII, che si sentiva offeso personalmente, da un uomo che aveva sempre trattato con benevolenza ed onori. "All'origine dell'iniziativa inquisitoriale stava in primo luogo lo sdegno del papa Urbano VIII" (Camerota, p. 632): è bene ribadire questo concetto, l'esistenza di questo scontro personale e non dottrinale, senza il quale non si capiscono molte vicende, come ad esempio il fatto che Urbano VIII, con notevole testardaggine, non ascolti nè il suo teologo personale, Agostino Oreggi, nè il celebre teologo Pasqualigo, consultato anch'egli dal papa stesso, i quali erano entrambi sostenitori della necessità di distinguere "tra ciò che appartiene alla fisica, ciò che spetta alla matematica e ciò che appartiene alla metafisica" (Redondi, p.316 e p.318, 342. Pasqualigo scriveva: "Non vedo come la fisica e la teologia debbano essere confuse in una sola scienza").

Il 22 giugno 1633 Galilei abiura davanti ai suoi giudici, che in numero di sette su dieci condannano la teoria copernicana, senza però definirla formalmente eretica, e senza impegnare la infallibilità della Chiesa. Galilei non fa un giorno di carcere, vive alcuni giorni presso il palazzo dell'ambasciata toscana di villa Medici, per poi essere accolto "con sincera amicizia", dall'arcivescovo di Siena, Ascanio Piccolomini, nell'attesa che l'estinzione della epidemia pestilenziale gli consenta di tornare ad Arcetri, nella sua villa vicino Firenze.

Nel 1634 muore la dilettissima figlia Suor Maria Celeste, che lo aveva aiutato a sopportare con fede anche le avversità di uomini di Chiesa, e gli ulteriori attacchi dei colleghi universitari, come il professore di filosofia dello studio pisano Chiaramonti o aristotelici libertini come Antonio Rocco, che attaccavano Galilei anche per le scoperte del Nuncius. In un bilancio finale, infine, occorre ricordare che il sistema copernicano verrà dimostrato molto più avanti, con le scoperte del 1725, del 1837 e definitivamente nel 1851 con gli esperimenti di Foucault. Galilei morirà l'8 gennaio del 1642, munito della benedizione papale, assistito dai discepoli Evangelista Torricelli e Vincenzo Viviani, e, come ebbe a scrivere il Viviani stesso, "con filosofica e cristiana rassegnazione rese l'anima al suo Creatore": lui che mai aveva dubitato della capacità delle Scritture di indicare la via al cielo, che non aveva mai contrapposto scienza e fede; lui che aveva raggiunto la fama e la celebrità grazie alla consacrazione dei Gesuiti e del papato, prima di inimicarseli con le sue violente polemiche, nonostante l'avversione degli scienziati e degli universitari laici dell'epoca; lui, infine, che era incorso, non senza alcuni suoi gravi errori, nel risentimento non certo lodevole di un papa che sino ad allora era stato suo amico e protettore.

Una storia complessa, dunque, che in troppi hanno voluto elevare a simbolo di uno scontro teorico, dottrinale, quello tra scienza e fede, che non ci fu (basti pensare che tutte le opere di Galilei furono subito ristampate, anche in terra pontificia, ad eccezione del solo Dialogo). Se lanciamo ora un veloce sguardo agli sviluppi successivi della scienza e della cultura dopo Galileo, possiamo dire che Urbano VIII non comprese quello che invece avevano capito tanti ecclesiastici di rango come mons. Giovanni Ciampoli, consigliere e addetto culturale del papa stesso, oltre che eminenza grigia della Segreteria di Stato vaticana, il celebre padre Mersenne e molti altri, che videro sempre in Galilei il filosofo e lo scienziato cristiano chiamato finalmente a sostituire l'astro-biologia pagana di Aristotele, e a combattere "contro il naturalismo averroistico e l'irreligiosità libertina e magica" allora in auge. Ciampoli auspicava l'abbandono di Aristotele, non certo per quanto riguarda i principi della logica, ma affinché si ponesse un limite "a quell'ibrida mescolanza tra dogmi cattolici e filosofia aristotelica" che risultava spesso ingiustificabile, soprattutto in fisica (e che in realtà già nel medioevo aveva portato il vescovo di Parigi Tempier a condannare l'eternalismo di Aristotele).

Padre Mersenne, dal canto suo, si schiera dalla parte della nuova scienza "come un argine di fronte ai pericoli grandissimi che sono rappresentati, per il pensiero cristiano e il suo patrimonio di valori, dalla ripresa dei temi magici, dalla diffusione della tradizione ermetica, dalla presenza di posizioni che si richiamano al naturalismo rinascimentale e alle dottrine presenti nel pensiero di Pomponazzi…" (Rossi, p.205).

Ciampoli, Mersenne e tanti altri (la lista degli ecclesiastici galileiani sarebbe troppo lunga, da padre Riccardi, maestro di Sacro Palazzo e superiore dei domenicani, a mons. Sforza Pallavicino, a scienziati come don Balli, padre Maignan, padre Valeriano Magni, padre Stefano Degli Angeli, padre Francesco Maria Grimaldi…oltre ai già citati padre Benedetto Castelli e padre Bonaventura Cavalieri, sino a don Marco Ambrogetti e padre Clemente Settimi, che stettero accanto al vecchio Galileo, ormai cieco, per scrivergli gli appunti e rispondere alle lettere) videro giusto: con lo scienziato pisano la magia entrò definitivamente in crisi, e con essa tutte le filosofie animiste e panteiste, e quindi anti-cristiane, che erano risorte coll'umanesimo e il rinascimento. Il nuovo avversario della fede, da allora, non sarebbero stati più i maghi e i filosofi pagani, che interpretavano il mondo come un "grande animale", ma i filosofi razionalisti, atei e materialisti, che toglieranno l'anima non solo alle stelle, ma anche agli uomini.

Prima, però, ci fu la generazione degli scienziati credenti: dopo l'ecclesiastico Copernico, Galilei e il religiosissimo Keplero, vi furono, a prescindere da alcune incrostazioni esoteriche, scienziati devoti come Isaac Newton, Robert Boyle e tanti altri. Spetterà a questi due, in particolare, il compito di teorizzare una visione meccanicistica cristiana, già adombrata da alcuni religiosi in epoca medievale, escludendo però un indebito allargamento del meccanicismo al regno dello spirito. Boyle, per esempio, attaccò spesso i seguaci di Epicuro, di Democrito e di Cartesio, che volevano trarre conclusioni materialiste dal meccanicismo, dichiarando che "il problema della 'prima origine delle cose' va tenuto accuratamente distinto da quello del 'successivo corso della natura'".

Dal canto suo Newton prese le distanze dai "possibili esiti ateistici e materialistici del cartesianesimo", affermando che il "cieco destino" e il "Caos", non avrebbero mai potuto essere chiamati in causa per giustificare, insieme alle mere leggi della natura, il "disegno intenzionale", divino, intelligente e non casuale, sotteso alla creazione. "La ammirevole disposizione del sole, scriveva Newton, dei pianeti e delle comete può essere solo opera di un Essere onnipotente e intelligente", che ha posto in essere leggi naturali che hanno cominciato ad operare solo dopo che l'universo è stato creato. "Newton e i newtoniani, conclude lo storico della scienza Paolo Rossi, non accettarono mai l'idea che il mondo possa essere stato prodotto da leggi meccaniche" (Rossi, p.207,208).



© Copyright

Il teo-evoluzionismo è una malattia dello spirito da cui guardarsi, dice il prof.De Mattei

Come ogni polemica, anche quella
in corso sull’evoluzionismo è
rivelatrice. La virulenza verbale
degli anticreazionisti porta alla luce
l’essenza teofobica del loro pensiero.
Il silenzio dei principali organi di
stampa cattolici rivela a sua volta
l’imbarazzo di chi si illude di trovare
un compromesso tra due realtà
incompatibili: creazione ed
evoluzione. Il teo-evoluzionismo,
ovvero il tentativo di conciliare la
fede cattolica con la teoria
dell’evoluzione caratterizza quella
corrente che Pievani con irrisione,
definisce “darwinismo ecclesiastico”
(cfr. il saggio dallo stesso titolo di
Orlando Franceschelli e Telmo
Pievani, su MicroMega 4/2009, pp.
108-116). I “teo-darwinisti”,
accreditati come “esperti” di gran
parte del mondo cattolico
condividono la teoria
dell’evoluzione, e cercano anzi di
offrirle una ciambella di salvataggio
che però i darwinisti “puri” come
Pievani e Odifreddi,
sprezzantemente rifiutano. La
contraddizione è destinata ad
esplodere.
L’evoluzionismo “ortodosso”,
darwiniano e neo-darwiniano, non è
una corrente scientifica, ma una
lobby filosofica atea e materialista
che, da quando apparve “L’origine
delle specie” di Darwin (1859), non è
ancora riuscita a produrre una sola
prova a suffragio della sua teoria.
Due “salti” della presunta catena
evolutiva risultano in particolare
indimostrabili dalla scienza: il
passaggio dalla materia inerte alla
vita e quello dall’animale all’uomo
pensante. Solo un “miracolo” può
salvare la teoria dell’evoluzione. Ed
è qui che entrano in scena i teoevoluzionisti,
affermando che grazie
ad un diretto intervento divino si
sarebbero accese la prima scintilla
della vita della materia e la seconda
scintilla della coscienza
nell’“ominide”. Ciò che è impossibile
alla scienza sarebbe possibile grazie
all’intervento miracoloso di Dio.
Per avere un’idea delle posizioni
teo-evoluzioniste, basta attingere ai
libri di Francisco J. Ayala, “Il dono
di Darwin alla scienza e alla
religione” (San Paolo, Milano 2009,
pp. 308), con prefazione di Fiorenzo
Facchini e, dello stesso Facchini,
“Le sfide dell’evoluzione. In armonia
tra scienza e fede” (Jaca Book,
Milano 2008, pp. 174). Ayala è un ex
sacerdote, Facchini un monsignorepaleontologo.
Entrambi sono
discepoli del nebuloso gesuita
francese Pierre Teilhard de Chardin
(1881-1955), attraverso la mediazione
di Theodosius Dobzhansky (1900-
1975), un biologo russo-americano, di
cui Ayala fu assistente. Secondo
Facchini, la darwiniana
trasformazione delle specie è una
“verità scientifica”, anche se il
rifiuto evoluzionista della creazione
sembra a lui “un passo decisamente
troppo lungo per essere vero”
(L’Osservatore Romano, 30 settembre
2009). Si tratta dunque di trovare
l’arduo accordo tra fede ed
evoluzione. Come Teilhard, che
citano ad ogni piè sospinto, Facchini
e Ayala, ritengono che l’uomo sia
fatto della stessa “stoffa”
dell’universo e degli altri viventi:
materia in evoluzione. In questo
processo evolutivo, come spiega il
gesuita francese, l’“ominizzazione”
rappresenta il punto di arrivo (la
“freccia”) della evoluzione dei
viventi: l’uomo è l’evoluzione
diventata cosciente di sé stessa,
l’“autocoscienza” della materia. Il
culmine del processo non è tuttavia
l’uomo, ma il “Cristo cosmico”, il
“punto omega”, vertice di
convergenza evolutiva dell’universo
materiale. Teilhard compendia il suo
credo panteista in un celebre “Inno
alla Materia” che capovolge il
“Cantico delle creature” di san
Francesco. Il poverello di Assisi
contemplando le creature materiali
risaliva a Dio creatore dell’universo,
mentre Teilhard divinizza la materia,
rivolgendole queste parole:
“Benedetta sii tu potente Materia,
Evoluzione irresistibile, Realtà sempre
nascente, tu che spezzando ad ogni
momento i nostri schemi ci costringi ad
inseguire, sempre più oltre, la Verità
(…) Tu che ferisci e medichi – tu che
resisti e pieghi – tu che sconvolgi e
costruisci – Linfa delle nostre anime,
Mano di Dio, Carne del Cristo, o
Materia, io ti benedico” (“Inno
dell’Universo”, Queriniana, Brescia
1992, pp. 48-50).
Per salvare la cosmogonia
evoluzionistica, i teo-darwinisti sono
costretti a negare frontalmente
quanto san Paolo proclamò
all’Areopago di Atene: “Dio trasse da
uno solo tutta la stirpe degli uomini”
(Atti 17, 26). Gli evoluzionisti cattolici
negano infatti la rivelazione
scritturale di Adamo ed Eva come
unici progenitori dell’umanità,
accettando il poligenismo
evoluzionista, che postula la
contemporanea apparizione di
uomini in varie parti della terra. La
chiesa però ha sempre e solo
insegnato il monogenismo. Su questo
punto, il Concilio Vaticano II ha
confermato il Concilio di Trento
(sess. 5, can. 2), affermando che da un
solo uomo, Adamo, Dio ha prodotto
l’intero genere umano (“Gaudium et
Spes”, 22; “Lumen Gentium”, 2). La
ragione è evidente, ed è lo stesso
Odifreddi, ex seminarista, a
spiegarla alla luce dei suoi studi di
gioventù: con la negazione della
storicità di Adamo ed Eva, ridotti a
metafora collettiva, cade il peccato
originale, e con questo la necessità
dell’Incarnazione di Cristo,
Redentore dell’umanità. Con Cristo
crolla la chiesa da lui fondata e tutti
i suoi ministri e rappresentanti
(compresi i sacerdoti teoevoluzionisti).
Per questo Teilhard
de Chardin venne colpito il 30 giugno
1962 da un monitum del Sant’Uffizio
(oggi congregazione per la Dottrina
della fede) mai revocato.
Scienza e fede non sono mai in
contrasto, a condizione che
entrambe siano vere. Qui invece una
fede sfigurata cerca di armonizzarsi
con una teoria scientifica falsa. La
stabilità della specie, negata
dall’evoluzionismo, è infatti
un’evidenza sperimentabile ad
occhio nudo ogni giorno, come il
fatto che la terra gira. Nella scala dei
viventi esistono specie diverse, dai
microorganismi cellulari all’uomo,
ma nessuna può definirsi
“imperfetta” o in via di
trasformazione. Pier Carlo Landucci,
un sacerdote-scienziato che sapeva
coniugare scienza e fede, notava
giustamente che l’attuale quadro del
mondo vivente può essere
considerato come un’instantanea del
presunto movimento evolutivo. Se la
teoria dell’evoluzione fosse vera e la
scala delle specie fosse il risultato di
un processo perfettivo della natura,
il mondo dovrebbe abbondare di
specie abbozzate, rudimentali e
incomplete, cioè in ritardo rispetto
alle singole specie complete verso
cui sarebbero avviate (“La verità
sull’evoluzione e l’origine
dell’uomo”, Editrice La Roccia,
Roma 1984). La prova sperimentale
del contrario è sotto i nostri occhi.
Ma il teo-evoluzionismo non è solo
un errore scientifico e filosofico: è
innanzitutto una malattia dello
spirito. Da oltre quarant’anni il
mondo cattolico si illude di
sopravvivere attraverso la via del
dialogo e del compromesso. Eppure
tutta la storia della chiesa è la storia
di una guerra teologica e culturale
combattuta contro gli errori che
l’hanno aggredita, dalle prime eresie
trinitarie e cristologiche fino al
modernismo del Novecento.
Benedetto XVI, nelle udienze del
mercoledì, ha efficacemente evocato
le grandi figure dei Padri e dei
Dottori che nel corso dei secoli
hanno difeso la chiesa dagli attacchi
esterni ed interni. Possibile che oggi
non ci sia un teologo o un uomo di
chiesa disposto a misurarsi con
l’evoluzionismo contemporaneo,
facendo proprie le parole dello
stesso Papa Ratzinger: “Non siamo il
prodotto casuale e senza senso
dell’evoluzione. Ciascuno di noi è il
frutto di un pensiero di Dio. Ciascuno di
noi è voluto, ciascuno è amato,
ciascuno è necessario” (Benedetto
XVI, Omelia per l’inizio del
pontificato, 24 aprile 2005)?

Roberto de Mattei
vicepresidente del Cnr

Il Foglio 29 dic. 2009

COME SI EVOLVE BENE LA CREAZIONE. Altro che Galileo. La nuova frontiera dentro la chiesa è la vertenza su Darwin

Negli ultimi giorni del 2009, Anno
internazionale dell’astronomia
(che celebra le prime osservazioni celesti
di Galileo Galilei) e secondo centenario
della nascita di Charles
Darwin (che scrisse “L’origine delle
specie” giusto centocinquant’anni fa),
anche i teologi si ritrovano per parlare
di evoluzione. Un tema su cui i cattolici
sono divisi tra una maggioranza
che accetta la vulgata e una minoranza
che si proclama creazionista contro
l’evoluzionismo imperante.
E’ di questi giorni il ritorno di fiamma
di una polemica che ha come protagonista
il vicepresidente del Cnr,
Roberto de Mattei, reo di aver organizzato
nel febbraio scorso un convegno
molto critico sull’evoluzionismo i
cui atti sono appena stati pubblicati
dall’editore Cantagalli. Il matematico
Piergiorgio Odifreddi, custode del
darwinismo più dogmatico, lo ha attaccato
a testa bassa. Da parte sua, il
magistero ecclesiastico alterna solenni
incontri ecumenici con gli scienziati
a prese di distanza argomentate.
La querelle tra evoluzionisti e
creazionisti è molto vivace. Ma chissà
che all’Associazione teologica italiana
(Ati), nei suoi tre giorni di studio
romani (ieri il primo), non riesca un
dribbling smarcante, una scintilla di
novità. Sembra quasi prometterlo uno
degli organizzatori, Giuseppe Accordini,
docente di Epistemologia allo
Studio teologico San Zeno di Verona,
che riassume così per il Foglio il senso
dell’iniziativa: “Non vogliamo una
celebrazione di Darwin, ma un confronto
duro che instauri un reciproco
rispetto e indichi una direzione al
cammino. Un cammino senza dubbio
lungo che impone a ogni sapere di
perseguire la sua identità nel tempo
e nel conflitto delle interpretazioni, a
cui si espone anche la rivelazione”. In
altre parole, “il darwinismo più che
una ferita narcisistica, di freudiana
memoria, inferta all’uomo credente, è
una domanda inevitabile alla filosofia,
alla rivelazione e alla scienza sull’origine
e sul destino dell’uomo e
dell’universo, in se stessi e in un
eventuale rapporto con Dio, e quindi
sul loro risolversi in scontati eventi
seriali o sul loro aprirsi a eventi irripetibili
e singolari”.
Insomma, nessuna intenzione di
beatificare Darwin né tantomeno alcuni
suoi nipotini. Certo, tra i relatori
del corso figura il teologo Carlo Molari,
massimo esperto di Teilhard de
Chardin che ha avuto i suoi bei problemi
con le gerarchie. E anche gli altri,
i filosofi Paolo Costa, Orlando
Franceschelli, Simone Morandini,
Stefano Semplici, lo scienziato-teologo
domenicano Jacques Arnould, sono
tutt’altro che creazionisti. Eppure
non si respira aria di concordismo,
quella conciliazione a buon mercato
tra fede ed evoluzione che proprio
Franceschelli ha definito “darwinismo
ecclesiastico”.
Certo, per intendersi gioverebbe
una disintossicazione lessicale. Bisognerebbe
distinguere Darwin da
darwinismo, evoluzione da evoluzionismo.
Creazione e creazionismo non
sono la stessa cosa e l’Intelligent Design
americano è altra cosa dal creazionismo
classico. Dio contro Darwin,
o viceversa, più che una lotta impari
è una fiction surreale. Tutto vero, eppure
gli slittamenti semantici, che i
mass media registrano quotidianamente,
tradiscono l’effettiva posta in
gioco. “Ciò che di fatto la questione
dell’evoluzione pone in questione
intenon
è tanto l’offerta di una chiave di
lettura scientifica, fondata e oggettiva,
d’interpretazione della storia
dell’universo, quanto, insieme a
questo, la riproposizione dell’eterno
interrogativo intorno all’identità
e al destino dell’uomo,
per sé immerso nel flusso
di questa storia, certo, ma al
tempo stesso decisamente eccentrico
ed eccedente
rispetto
ad
e s s a ” ,
scrive
il presidente
dell’Ati
Piero Coda
nella
prefazione a un recente
libro di Alberto Piola,
“Non litigare con
Darwin” (Edizioni
Paoline); di conseguenza
“la controversia
tra evoluzione
e creazione
non è che la
spia di una correlazione
tra sapere della
fede e sapere delle
scienze di cui ancora
non si è trovato
il bandolo”.
Una dialettica da
non sottovalutare.
Lo sosteneva già nel
1969 il teologo Joseph Ratzinger
in una lezione dal titolo emblematico,
“Fede nella creazione e
teoria dell’evoluzione”: “Effettivamente
il passaggio alla contemplazione
evolutiva del mondo rappresenta
il passo verso quella forma positiva
della scienza che si limita consapevolmente
a ciò che è dato, concreto,
dimostrabile all’uomo ed
esclude dalla sfera della
scienza la riflessione
sulle vere ragioni
del reale come
una riflessione
sterile. In questo,
fede nella
creazione e
idea dell’evoluzione
indicano
non soltanto
due diverse
dimensioni
di ricerca,
ma due diverse
forme di
pensiero”.
Perciò il
pensiero
credente
non può
semplicemente
giocare
di rimessa.
Secondo
Accordini, “la
teologia
n o n
può limitarsi
a l l a
p u r a
apologia
della sua
identità o
ad un lodevole
sforzo di mediazione,
ma deve
attrezzarsi per
un dialogo rigoroso
e coraggioso. La teologia,
che nasce dall’ascolto
intelligente della rivelazione di
Dio, ma che necessita anche di strumenti
di mediazione culturale e inte
ragisce con la complessità dei contesti
di vita, ha l’ambizione di mettere a
fuoco una domanda fondamentale
sull’uomo e sulla stessa natura dell’universo
da cui l’uomo proviene e a cui
fa ritorno”. Una domanda che si radica
in mondi diversi. “C’è il mondo naturale
dei greci, non creato da mano
umana o divina: è una realtà viva, un
fuoco che si accende e spegne a intervalli
regolari; c’è il mondo della
creazione biblica che ha Dio come
mistero originario ed escatologico e si
sviluppa in una progressiva separazione,
promossa da parte di Dio, e in
una crescente responsabilità di ritorno
da parte dell’uomo; e poi c’è il
mondo inventato e modellato dall’homo
sapiens o faber, prodotto da una
forza calcolante e determinante che
decide direzione e senso ultimo”. In
questa prospettiva, il darwinismo o
meglio la teoria dell’evoluzione diventa
una provocazione seria. Addirittura
tragica quando si applica alle
scienze sociali. E’ il cosiddetto
“darwinismo sociale” (Herbert Spencer),
una selezione economica della
specie per cui sopravvive il più adatto
cioè il più forte: l’antitesi del messaggio
evangelico. La filosofa Hannah
Arendt, che se ne intendeva, nel suo
saggio sulle “Origini del totalitarismo”
indicò nella “legge del movimento”
di Darwin l’altra matrice, insieme
a quella marxista, dei regimi
totalitari.
E’ impossibile dunque parlare di
origine senza fare i conti con l’evoluzione
ma la teologia più avvertita vuole
ribaltare l’assioma per chiedersi
chi è l’uomo e, più concretamente,
quando l’uomo diventa uomo. Quella
che in termini tecnici si dice umanazione
e sulla quale il professor Ratzinger,
nella conferenza citata, disse parole
illuminanti: “L’argilla divenne
uomo nell’istante in cui un essere per
la prima volta, anche se ancora in mo-
I creazionisti […] non possono sostenere
che il racconto biblico sia provato
scientificamente, emulando così
gli evoluzionisti dogmatici che credono
che la loro teoria sia scientificamente
provata”. Nel cuore del proprio
ponderoso libro, “Charles Darwin oltre
le colonne d’Ercole. Protagonisti,
fatti, idee e strategie del dibattito sulle
origini e sull’evoluzione” (Gribaudi,
Milano 2009), lo afferma Mihael Georgiev.
Nato a Sofia, Georgiev ha lasciato
la Bulgaria nel 1971 e, dopo aver
studiato negli Stati Uniti, si è accasato
in Italia. Laureato in Medicina e
chirurgia alla Sapienza di Roma, dal
2006 è membro del Centro di malattie
vascolari dell’Università di Ferrara.
Autore di testi medici e scientifici, dal
2002 è vicepresidente dell’Associazione
italiana studi sulle origini
(www.origini.info). Il bello però è che,
personalmente parlando, Georgiev
creazionista lo è davvero, giacché
prende sul serio quella fede che definisce
l’Altissimo “creatore del cielo e
della terra”. Ma, al tempo. Georgiev
non è un “concordista”. Anzi. Protestante,
scrupoloso lettore (come pochi,
magari pure tra i cattolici) del magistero
cattolico in materia, sin dai dibattiti
coevi a Darwin su Civiltà Cattolica
e dintorni, stigmatizza il confondere
scienza e fede. Certo, pensa che
le due percorrano tratti di strada comuni,
ma si guarda bene dal saltare di
palo in frasca. Il suo librone si configura
così come una navigazione attraverso
quanto scientifico lo è, e lo è sul
serio, e quanto invece non lo è, altrettanto
sul serio. In primis il creazionismo
(un turpiloquio pensato per denigrare
chi la fede, fortuna sua, ce l’ha)
e l’evoluzionismo talebano; quindi
quanto Darwin disse ma pure non disse,
cosa di Darwin han fatto darwinisti
e neodarwinisti, quel che al naturalista
obbiettano i critici di ieri e di oggi;
poi il dibattito tra filosofia e scienza
dai greci al Rinascimento passando
pure, ovvio, per le dispute medioevali,
l’incontro fra ragione e Rivelazione
così come lo scontro fra un altro tipo
di ragione e fede; infine le coordinate
del cosiddetto progetto intelligente,
quelle vere, mica le caricature che
vengono messe in bocca ai suoi sostenitori.
Giunto all’ultima pagina, il lettore
ne sa più di prima (perdonate la
banalità, ma oramai, con certi libri
che si pubblicano, questo “minimo
sindacale” non è più un diritto acquisito)
e pure si convince: il darwinismo
sarà pure affascinante, ma quando ce
ne mostreranno una prova evidente
che sia una, e a norma di metodo
scientifico, induttivo, empirico, sperimentale,
positivo, galileiano e laico,
allora ci convertiremo. Una summula,
quella di Georgiev, da appaiare al superlativo
(e tecnico e noioso quanto è
sacrosantamente giusto sia un libro di
biologia generale) “Trattato critico
sull’evoluzione. Certezza dei fatti e diversità
delle interpretazioni”, curato
da due quadrati scienziati tedeschi,
Reinhard Junker e Siegfried Scherer,
alla testa di un pool di una ventina di
specialisti, uscito in italiano nel 2007
da Gribaudi in una versione curata da
Fernando De Angelis. Buon rincalzo
lo dà del resto Ferdinando Catalano,
fisico messinese e ricercatore di ottica
oftalmica, docente di Optometria
all’Università del Molise. Il suo “La vita
e il respiro e ogni cosa. Termodinamica
e abiogenesi” (Aracne, Roma
2009) spende, nel sottotitolo, un parolone
più noto come “generazione
spontanea”: la pretesa che dal nulla
venga qualcosa, Dio a parte, dall’inanimato
l’animato, dalla materia inerte
la vita. Un’idea su cui il darwinismo si
fonda, e pour cause, ma che nessuno
ha mai dimostrato, anzi semmai sbugiardato:
Francesco Redi e Lazzaro
Spallanzani fra Sei e Settecento, e
Louis Pasteur nell’Ottocento. Ricorda
peraltro Catalano che, nonostante la
graniticità con cui la “chiesa evoluzionista”
cerca di accreditarsi oggi, al
momento esistono ben 13 diverse e
contrastanti ipotesi sull’origine della
vita sulla Terra: epperò tutti a dare
addosso per esempio al povero “principio
antropico”, quello che, misurazioni
scientifiche alla mano, mostra
come questo nostro strano e fantastico
pianeta stia lì piroettante da tempo
nell’universo, con le sue piante, i suoi
animali, i suoi uomini, atei o credenti,
la scienza e le illazioni, ma questo grazie
a una serie delicatissima di costanti
e di dettagli finemente cesellati
e in sereno equilibrio, ché se uno solo
variasse di un soffio verrebbe già tutto.
Quasi un pianeta privilegiato a misura
di uomo, di cui, fino a prova contraria,
non vi è pari nell’universo.
Marco Respinti
do confuso, riuscì a sviluppare l’idea
di Dio. Il primo tu che fu pronunciato
– balbettando come sempre – nei confronti
di Dio dalle labbra dell’uomo,
indica l’istante in cui lo spirito era nato
nel mondo. Qui fu attraversato il
Rubicone dell’umanazione. Poiché
l’uomo non è costituito dall’utilizzo
delle armi o del fuoco né dalle nuove
forme della crudeltà o dell’utilitarismo,
ma dalla sua capacità di essere
immediatamente in rapporto con Dio.
Questo stabilisce la dottrina della particolare
creazione dell’uomo. Soprattutto
qui sta il centro della fede nella
creazione. Sta qui anche la ragione
per cui l’istante dell’umanazione non
può essere fissato dalla paleontologia:
l’umanazione è l’insorgenza dello spirito,
che non si può dissotterrare con
la vanga. La teoria dell’evoluzione
non annulla la fede, e nemmeno la
conferma. Ma la sfida a comprendere
meglio se stessa e ad aiutare in questo
modo l’uomo a capire sé e a diventare
sempre più quello che deve essere:
l’essere che può dire tu a Dio per l’eternità”.
Un essere meno evoluto di quanto
sostengano i sacerdoti del darwinismo,
almeno stando al grande teologo
Karl Barth (la citazione è nel dépliant
di presentazione del convegno Ati)
che osservava disincantato: “L’homo
sapiens è piuttosto mirabilmente stazionario,
purtroppo paragonabile assai
bene, nel suo agire e reagire, a uno
di quei buoi che azionano gli argani
muovendosi in circolo, senza la benché
minima intelligenza”.

Marco Burini

Il Foglio 29 dic. 2009

La lezione di Galileo. Come dare slancio alla cultura del nostro tempo e restituire in essa alla fede cristiana piena cittadinanza



«Con questa scoperta (il telescopio da parte di Galileo) crebbe nella cultura la consapevolezza di trovarsi di fronte a un punto cruciale della storia dell’umanità. La scienza diventava qualcosa di diverso da come gli antichi l’avevano sempre pensata. Aristotele aveva permesso di giungere alla conoscenza certa dei fenomeni partendo da principi evidenti e universali; ora Galileo mostrava concretamente come avvicinare e osservare i fenomeni stessi, per capirne le cause segrete. Il metodo deduttivo cedeva il passo a quello induttivo e apriva la strada alla sperimentazione. Il concetto di scienza durato per secoli veniva ora a modificarsi, imboccando la strada verso una moderna concezione del mondo e dell’uomo. Galileo si era addentrato nelle vie sconosciute dell’universo; egli spalancava la porta per osservare gli spazi sempre più immensi. Al di là probabilmente delle sue intenzioni, la scoperta dello scienziato pisano permetteva anche di risalire indietro nel tempo, provocando domande circa l’origine stessa del cosmo e facendo emergere che anche l’universo, uscito dalle mani del Creatore, ha una sua storia; esso “geme e soffre le doglie del parto” - per usare l’espressione dell’apostolo Paolo – nella speranza di essere liberato “dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8,21 – 22).
Anche oggi l’universo continua a suscitare interrogativi a cui la semplice osservazione, però, non riesce a dare una risposta soddisfacente: le sole scienze naturali e fisiche non bastano. L’analisi dei fenomeni, infatti, se rimane rinchiusa in se stessa rischia di far apparire il cosmo come un enigma insolubile: la materia possiede una intelligibilità in grado di parlare alla intelligenza dell’uomo e indicare una strada che va al di là del semplice fenomeno. E’ Galileo che conduce a questa considerazione. Non era, forse, lo scienziato di Pisa a sostenere che Dio ha scritto il libro della natura nella forma del linguaggio matematico? Eppure, la matematica è un’invenzione dello spirito umano per comprendere il creato. Ma se la natura è realmente strutturata con un linguaggio matematico e la matematica inventata dall’uomo può giungere a comprenderlo, ciò significa che qualcosa di straordinario si è verificato: la struttura oggettiva dell’universo e la struttura intellettuale del soggetto umano coincidono, la ragione soggettiva e la ragione oggettiva nella natura sono identiche. Alla fine, è “una”ragione che le collega entrambe e che invita a guardare ad un’unica Intelligenza creatrice.
Le domande sull’immensità dell’universo, sulla sua origine e sulla sua fine, come pure sulla sua comprensione, non ammettono una sola risposta di carattere scientifico. Chi guarda al cosmo, seguendo la lezione di Galileo, non potrà fermarsi solo a ciò che osserva con il telescopio, dovrà procedere oltre per interrogarsi circa il senso e il fine a cui tutto il creato orienta (senso religioso della realtà). La filosofia e la teologia, in questa fase rivestono un ruolo importante, per spianare il cammino verso ulteriori conoscenze. La filosofia davanti ai fenomeni e alla bellezza del creato cerca, con il ragionamento, di capire la natura e la finalità ultima del cosmo. La teologia, fondata sulla Parola rivelata, scruta la bellezza e la saggezza dell’amore di Dio, il quale ha lasciato le Sue tracce nella natura creata. In questo movimento gnoseologico sono coinvolte sia la ragione che la fede; entrambe offrono la loro luce. Più la conoscenza della complessità del cosmo aumenta, maggiormente richiede una pluralità di strumenti in grado di poterla soddisfare; nessun conflitto all’orizzonte tra le varie conoscenze scientifiche e quelle filosofiche e teologiche; al contrario, solo nella misura in cui esse riusciranno ad entrare in dialogo e a scambiarsi le rispettive competenze saranno in grado di presentare agli uomini di oggi risultati veramente efficaci» [Benedetto XVI, Messaggio all’arcivescovo Rino Fisichella, 26 novembre 2009].

L’apertura originaria di ogni io alla realtà in tutti i fattori cioè alla verità richiede l’integrazione tra le conoscenze del nuovo metodo scientifico galileiano e le conoscenze filosofiche e teologiche. Infatti l’universo stesso strutturato in maniera intelligente mostrando una corrispondenza profonda tra la nostra ragione soggettiva che ha creato la matematica per operare con la natura e mettere al nostro servizio le sue immense energie e la ragione oggettivata nella natura, un libro scritto in linguaggio matematico, porta a chiedersi se non debba esservi un’unica intelligenza originaria, che sia la comune fonte dell’una e dell’altra. Così proprio la riflessione sullo sviluppo delle scienze ci riporta verso il Logos creatore. Viene capovolta la tendenza a dare il primato all’irrazionale, al caso e alla necessità, a ricondurre ad esso, al suo rivelarsi storico attraverso la Parola di Dio anche la nostra intelligenza e la nostra libertà. Su queste basi diventa di nuovo possibile allargare gli spazi della nostra razionalità, riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene, coniugare tra loro in ogni Università la teologia, la filosofia e la scienze, nel pieno rispetto dei loro metodi e della loro reciproca autonomia, ma anche nella consapevolezza dell’intrinseca unità che le tiene insieme, senza assolutizzare ideologicamente gli apporti particolari. E’ questo un compito che oggi sta davanti a noi, un’avventura affascinante nella quale merita spendersi, per dare nuovo slancio alla cultura del nostro tempo e per restituire in essa alla fede cristiana piena cittadinanza pubblica.