DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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Sos acqua, ogni giorno muoiono 5.000 bambini

DI V IVIANA D ALOISO
O
tto milioni di morti all’anno. Cinquemila bambini al giorno, uno ogni venti secondi. Nemmeno le guerre e le violenze che tor­mentano ogni angolo del Pianeta, messe tutte in­sieme, possono tanto. La mancanza d’acqua, sì. La tragedia silenziosa, che si lega a quella di risorse i­driche non potabili – se non addirittura inquinate – si consuma lontano da telecamere e notiziari, ma è ormai letale quanto il più spietato dei virus.
I numeri del fenomeno, snocciolati dall’Onu in oc­casione della Giornata mondiale dell’acqua di ieri, fanno tremare. E non solo per i morti. Basti pensare che un abitante su due sulla Terra vive in case sen­za
sistema fognario (circa tre miliardi di persone), u­no su cinque non ha acqua potabile a sufficienza (oltre un miliardo), o che – tanto per fare un riferi­mento geografico – nell’Africa subsahariana fino a 250 milioni di persone rischiano di morire di sete.
Una situazione tanto insostenibile quanto l’abisso che separa il Sud del mondo dai Paesi più sviluppa­ti. Dove, come ha ricordato il segretario generale del­l’Onu Ban Ki-Moon presentando il rapporto dall’U­nep, il programma sull’ambiente delle Nazioni Uni-
te, «giorno dopo giorno si versano 2 miliardi di ton­nellate di acque reflue non trattate e di rifiuti indu­striali agricoli nel sistema idrico mondiale, quando i poveri continuano a patire soprattutto a causa del­l’inquinamento, della carenza idrica e della man­canza di igiene». Così, mentre la mancanza di acqua pulita nel Sud del mondo uccide ogni an­no 1,8 milioni di bambini sotto i cinque anni d’età di tifo, colera, dissenteria e ga­stroenterite e la metà dei letti d’ospeda­le è occupata da pazienti che soffrono di malattie legate al consumo d’acqua con­taminata, nei Paesi 'ricchi' l’acqua ab­bonda e viene sprecata. Un cittadino a­mericano ne ha a disposizione media­mente 425 litri al giorno (nemmeno uno in molti Paesi africani e asiatici), uno i­taliano 237. Certo, l’emergenza 'siccità', con la con­seguente carenza d’acqua, negli ultimi anni si è affacciata anche in Occidente. È il caso dell’Europa dove, secondo dati diffusi da Bruxelles, tra il 1976 e il 2006 – anche a causa del surriscaldamento del Pianeta – almeno l’11% degli abitanti ha sofferto di carenza d’acqua, con un dan­no per l’economia di almeno 100 miliardi di euro. Tanto che l’altro allarme lanciato dall’Onu riguarda il futuro: nel 2030, stimano le Nazioni Unite, oltre 3 miliardi di persone rischiano di rimanere senz’acqua, con una pesantissima ricaduta anche sulla produ­zione agricola e alimentare, che nell’acqua trova il suo ingrediente essenziale.
L’Italia, pur essendo uno dei Paesi al mondo con maggiore disponibilità d’acqua, non se la cava me­glio: al Sud e nelle isole il 15% della popolazione – ossia circa 8 milioni di persone – per quattro mesi all’anno (da giugno a settembre) è sotto la soglia del fabbisogno idrico minimo, fissato in 50 litri di acqua al giorno a persona. Senza contare il problema de­gli sprechi, della dispersione d’acqua (anche oltre il 30%, secondo il rapporto Onu, a causa delle reti i­driche fatiscenti) e dei reati ambientali, sulla cui gra­vità non a caso ieri ha insistito anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. All’Accademia dei Lincei, in un convegno sulle frane e il dissesto i­drogeologico, il capo dello Stato ha detto: «Occorre contrastare comportamenti di irresponsabile su­perficialità e ripetute violazioni delle norme poste a tutela del territorio, troppo spesso causa di danni ir­reparabili che depauperano l’ambiente e compro­mettono il delicato equilibrio dell’ecosistema, con ef­fetti catastrofici, per le persone, per i loro beni, per l’intera nazione». E il pensiero va a un altro incubo
legato all’acqua, stavolta tutto italiano.
Un abitante della terra su 5 non dispone di acqua potabile a sufficienza, uno su due vive in abitazioni senza sistema fognario E poi ci sono le disparità: ogni cittadino americano consuma 425 litri ogni 24 ore. In molti Paesi africani o asiatici neppure uno


© Copyright Avvenire 23 marzo 2010

Lotta alla fame, due punti deboli

di Anna Bono
Tratto dal sito Svipop il 18 novembre 2009

Un miliardo e 200 milioni è la cifra record raggiunta da coloro che soffrono la fame secondo un documento pubblicato nei giorni scorsi dalla FAO in vista del nuovo vertice mondiale sulla sicurezza alimentare che si è svolto a Roma, sede dell’organismo ONU, dal 16 al 18 novembre.

Il senegalese Jacque Diouf, presidente della FAO, ha deciso di evidenziare la gravità della situazione con due iniziative. Nel fine settimana precedente all’apertura del summit romano Diouf ha attuato uno sciopero della fame di 24 ore sollecitando tutti a seguire il suo esempio. Sul sito web www.1billionhungry.org ha inoltre lanciato una petizione per dire basta alla fame: ogni cinque secondi – spiega in un video – muore un bambino; è più o meno il tempo necessario a ‘cliccare’ la propria adesione alla campagna di solidarietà. La FAO si augura di raggiungere un numero di ‘clic’ almeno pari a quello delle persone affamate: ogni ‘clic’ – dice Diouf – “servirà come spinta ad agire per i nostri capi di stato e di governo”.

“Guardare negli occhi i governanti del mondo, chiedere loro interventi concreti e risolutivi, risvegliarne le coscienze”: è questo infatti il ruolo principale della FAO, secondo Diouf che ha indicato nello sviluppo del settore agricolo la chiave per sconfiggere la fame. Occorrono investimenti in sementi, fertilizzanti, infrastrutture rurali, a incominciare dai sistemi di irrigazione, dalle strade, dai silos e dai magazzini per un rapido trasporto e un adeguato stoccaggio dei raccolti che attualmente vanno perduti per cattiva conservazione in una misura che arriva al 40-60%.

Non vi è dubbio che questa è la strada giusta purché miri al superamento delle economie di sussistenza affinché le piccole e medie attività agricole moltiplichino la loro produttività e garantiscano raccolti costanti per qualità e quantità, sufficienti al fabbisogno interno di ciascun paese e, per quel che riguarda le colture tropicali destinate al mercato, finalmente competitivi sui mercati internazionali rispetto ai prodotti asiatici e centro-sud americani.

Secondo i calcoli della FAO per ottenere dei risultati duraturi occorrono circa 44 miliardi di dollari all’anno e va da sé che lo sforzo finanziario maggiore è richiesto ai paesi industrializzati, in particolare quelli del gruppo G8.

Il punto debole del programma è lampante, almeno per quanto concerne l’Africa, il continente con la percentuale più elevata di persone bisognose di assistenza: da decenni la cooperazione internazionale allo sviluppo non fa che fornire sementi e fertilizzanti, costruire strade, ferrovie e ponti, dotare le comunità contadine di sistemi d’irrigazione, di silos, di magazzini e, naturalmente, di pozzi, ambulatori e scuole. Inoltre ha istituito organi finanziari per fornire capitali ai governi e, con il microcredito, ai privati cittadini privi di mezzi.

Nel frattempo, però, in Africa, con le casse di stabilizzazione dei prezzi istituite in epoca coloniale ma trasformate con le indipendenze in enti di rapina istituzionalizzata, e con altri strumenti i governi autoctoni, lungi dal proteggere e sostenere il settore rurale, hanno compiuto un sistematico, radicale prelievo dei redditi agricoli a beneficio delle casse statali e delle popolazioni urbane: “A stupire – scriveva Giri già nel 1986 (Africa in crisi, ed. italiana 1991, SEI) – non è che l’Africa sprofondi sempre più nella dipendenza alimentare, ma che non ci sprofondi maggiormente”. In effetti sono africani 20 dei 31 stati che al momento necessitano di aiuti alimentari urgenti.

Sicuramente questo aveva in mente Diouf quando ha invitato anche i governi dei paesi in via di sviluppo ad assumersi le loro responsabilità avviando strategie politiche nazionali mirate e concrete: senza di che, ormai dovrebbe essere chiaro a tutti, il traguardo proposto di destinare il 17% degli aiuti internazionali al settore agricolo perde significato.

Ma un secondo punto debole del programma consiste nel fatto che capi di stato come ad esempio il leader coreano Kim Jong ll o il presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe, responsabili di due tra le maggiori crisi umanitarie in corso, ben difficilmente risponderanno agli appelli della FAO: sotto simili regimi la fame si combatte distribuendo incessantemente cibo a sufficienza, ma lo sviluppo umano resta un obiettivo irraggiungibile.

Davvero i bambini sono il nemico numero uno?

Limiter les naissances, un remède au péril climatique ?

Le Nazioni Unite vogliono "aiutare" le donne a fare meno figli per vincere la sfida del riscaldamento globale. Non è uno scherzo, ma un progetto reale. Già, sono i bambini a mettere in pericolo il mondo: ma voi ci credete? Non sarà che invece si produce una quantità di prodotti superflui (automobili e aerei privati che consumano tonnellate di benzina, fabbriche che producono generi inutile che la gente contra solo perché la pubblicità lava il cervello e crea bisogni finti e forzati, cibo sprecato, foreste bruciate e distrutte per creare colture e miniere...). Ma davvero sono i bimbi a mettere a rischio il mondo? Forse sì, ma solo perché la loro presenza ci ricorda quello che chi govena il mondo vuole dimenticare: che siamo tutti fragili, e che nessuno ci può "costruire" su misura!


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