Ho più volte sostenuto che la questione
del comportamento del Papa
Pio XII di fronte alla Shoah non si
presta a sentenze trancianti sullo stile
inaugurato dal “Vicario” di Rolf Hochhuth.
Al contrario, gli approfondimenti
storiografici acquisiti in questi
ultimi anni hanno reso incredibile la
tesi radicale di un Papa quasi complice
dello sterminio degli ebrei, o comunque
del tutto indifferente ad esso.
La prudenza imporrebbe di consegnare
questa vicenda interamente alla ricerca
storica rigorosa, condotta sui documenti
disponibili e sugli archivi che
verranno messi a disposizione, e non
a polemiche contingenti, affrettate o
contrassegnate dall’emotività. Inoltre,
la questione della beatificazione di
Pio XII, così come di ogni altro Papa o
personalità cristiana, appartiene alla
sfera delle decisioni della chiesa su
cui nessuno può interferire o dettare
comportamenti. Da questo punto di vista
la dichiarazione congiunta del
Rabbino capo di Roma, del presidente
dell’Unione delle Comunità Ebraiche
Italiane e del presidente della Comunità
Ebraica Romana, appare equilibrata.
Si dichiara difatti di non “poter
interferire su decisioni interne
della chiesa che riguardano le sue libere
espressioni religiose” e si esprime
la riconoscenza per i “singoli e le
istituzioni della chiesa che si adoperarono
per salvare gli ebrei perseguitati”.
Tale riconoscenza andrebbe estesa
anche a Pio XII, poiché non è credibile
che un numero così elevato di
ebrei potesse essere accolto a S. Giovanni
in Laterano senza una volontà
precisa del Papa. E’ tuttavia comprensibile
che, dopo vari decenni in cui la
figura di Pio XII è stata identificata
con quella addirittura di un complice
dello sterminio o, quantomeno, di un
indifferente, una parte del mondo
ebraico – e anche del mondo cristiano
– non riesca ad accettare un’immagine
diversa senza un percorso all’interno
della ricerca storiografica che aiuti ad
abbandonare un approccio emotivo.
Va detto che interviene in questa vicenda
qualcosa che assomiglia a quella
che, in altri contesti, viene chiamata
la “giustizia a orologeria”. In altri
termini, in tutti i passaggi cruciali per
i rapporti ebraico-cristiani, accade
qualcosa o interviene qualche iniziativa
che provoca emozioni, sconcerto,
riapre ferite chiuse a fatica. E’ indubbio
che la questione di Pio XII si riapre
con un singolare sincronismo nei
momenti in cui sono in agenda passaggi
importanti per i rapporti ebraicocristiani.
Oppure salta fuori un vescovo
Williamson mentre si affronta la
preparazione di un viaggio del Papa
in Israele. Se a ciò si aggiunge che
parte della stampa è pronta a cercare
esclusivamente il parere dell’incendiario
di turno, il quadro è completo.
Non è mia intenzione fare dietrologia.
Stiamo ai fatti. Qualsiasi cosa si
tenti di dire contro l’evidenza, Ratzinger,
come cardinale e “teorico” del
pontificato di Giovanni Paolo II e poi
come Papa, è un protagonista del progresso
dei rapporti ebraico-cristiani –
e sottolineo la parola “rapporto” anziché
“dialogo”. Chiunque voglia procedere
in questa direzione non deve dare
spazio a chi lavora per un drammatico
arretramento. Si mettano in opera
tutti i confronti utili a creare un
contesto in cui la questione di Pio XII
non diventi il tema della visita del Papa
in Sinagoga. Ma tutto deve essere
fatto per non far saltare questa visita:
sarebbe il regalo più gradito a chi preferisce
coltivare il seme della discordia.
Ebrei e cristiani hanno troppe cose
in comune e iniziative da condurre:
a partire da quella per la libertà religiosa
in ogni parte del mondo.
Giorgio Israel
Il Foglio 22 dic. 2009