Francis Poulenc (1899-1963), compositore francese dalla produzione eclettica, nei primi mesi del 1953 si mise a scrivere l’opera Dialoghi delle Carmelitane, di cui nel 2007 cadeva il 50° anniversario della prima rappresentazione, e che è tratta da una vicenda storica la quale può essere esemplare per comprendere a quali atrocità arrivò il furore rivoluzionario contro la Chiesa Cattolica.
di Tommaso Scandroglio
 Durante la Rivoluzione Francese il secco schiocco della  ghigliottina risuonò migliaia di volte in centinaia di piazze, facendo  ruzzolare nel paniere le teste non solo di aristocratici, ma anche di  borghesi, di popolani, di sacerdoti e di religiosi. Forse solo in questo  la rivoluzione fu davvero “democratica”, non facendo per nulla  discriminazioni di ceto. È comunque indubitabile che il terrore  giacobino prediligeva una categoria molto invisa alle menti illuminate  di allora: la categoria del clero e dei religiosi.
Voto di martirio
Il 15 dicembre 1789  l’Assemblea Nazionale vietò a tutti gli ordini religiosi di pronunciare  nuovi voti e molti conventi furono fatti sfollare. Questa sorte toccò  anche alle carmelitane di Compiègne, piccolo borgo a nord est di Parigi,  le quali nel 1792 furono obbligate ad andarsene dal convento e smettere  gli abiti da religiose.
Ma dato che il loro proponimento era  quello di “vivere e morire da carmelitane”, si risolsero di continuare  ad incontrarsi per pregare in comune, nonostante ciò fosse vietato.  Così, divise in tre gruppi e alloggiate in abitazioni tra loro vicine,  si trovavano quotidianamente per pregare di nascosto.
In una di  queste riunioni segrete, su proposta della Superiora, fecero voto di  martirio, un «atto di consacrazione per il quale la comunità si offre in  sacrificio affinché cessino i mali che affliggono la Chiesa e il nostro  Regno infelice», come si può leggere nei documenti di archivio.
Morire cantando le lodi al Redentore
Nel  giugno del 1794 le carmelitane furono scoperte e arrestate «per aver  tenuto conciliaboli antirivoluzionari, mantenuto corrispondenze  fanatiche e conservato scritti liberticidi». Dapprima furono incarcerate  nel locale convento della Visitazione e poi tradotte nella stessa  prigione parigina dove fu detenuta Maria Antonietta. In questo luogo  rimasero quattro giorni, tempo sufficiente affinché Suor Giulia  componesse un inno al martirio da cantarsi sulla linea melodica della  Marsigliese. I versi iniziali della prima strofa suonano così:  «Disponiamo i nostri cuori all’allegrezza / Il giorno della gloria è  arrivato / (…) Prepariamoci alla vittoria».
Giunte davanti al  tribunale rivoluzionario, la Madre Superiora cercò di addossarsi tutte  le colpe, ma il suo tentativo fu vano. Dal tribunale furono subito fatte  salire su un carro che le avrebbe condotte al patibolo.
Durante  il tragitto intonarono in coro il Miserere, il Salve Regina ed infine  il Te Deum. La folla che assisteva al loro passaggio – di solito  abituata ad inveire contro i condannati – rimase ammutolita per il  coraggio dimostrato da costoro.
Arrivate al patibolo, ai piedi di  esso, cantarono il Veni Creator. Poi furono chiamate una ad una per  essere giustiziate. Sedici volte la lama scese per compiere, su  quell’altare laico, un sacrificio di sangue così simile a quello  sofferto da Cristo sul Calvario.
Dalla prima all’ultima  esecuzione le sorelle non cessarono mai un istante di cantare il salmo  Laudate Dominum omnes gentes. Il canto, man mano che l’eccidio si  compiva, si affievoliva sempre più dato che le religiose non ancora  giustiziate diminuivano progressivamente di numero.
L’ultima a  trovare la morte fu la Madre Superiora che aveva chiesto al boia di  essere giustiziata per ultima, affinché potesse sostenere le sue  consorelle in quell’ora tremenda. Il canto con essa si spense  definitivamente qui sulla terra, ma continuò in cielo per sempre.  Infatti nel 1906 la Chiesa Cattolica beatificò le sedici martiri.
Una conversione
La vicenda delle  carmelitane di Compiègne per più di un secolo rimase sconosciuta, dal  momento che costituiva cattiva pubblicità ai falsi ideali della  Rivoluzione Francese e stonava non poco con il famigerato motto  “Liberté, Égalité, Fraternitè”. La prima ad interessarsi di quei fatti  madidi di sangue fu appunto Santa Romana Chiesa e poi il martirio delle  carmelitane attirò anche l’attenzione della scrittrice Gertrud Von Le  Fort che nel 1931 compose una novella dal titolo L’ultima al patibolo.
Successivamente,  nel 1948, Georges Bernanos pubblicò il romanzo Dialoghi della  Carmelitane, da cui prese spunto Poulenc per il suo dramma utilizzando  il testo di Bernanos come libretto (nel ’59 e nell’83 furono girati  anche due film sullo stesso canovaccio).
Il compositore fino all’età  di 37 anni era rimasto abbastanza indifferente alla pratica cristiana;  ma nel 1936, in seguito alla morte in un incidente stradale di un suo  caro amico, Pierre Ferroud, volle recarsi in pellegrinaggio presso il  santuario della Vergine Nera a Rocamadour.
Lì, per sua stessa  ammissione, fece ritorno alla fede dell’infanzia, e sempre lì, ai piedi  della Vergine Nera, successivamente pose sotto la protezione di Maria  diverse sue opere tra cui i Dialoghi. La morte dell’amico non fu solo il  detonatore che innescò la sua conversione, ma costituì una sorta di  presagio e fonte di ispirazione per la realizzazione dei Dialoghi, opera  che incominciò a scrivere solo 17 anni dopo. Infatti il suo amico,  nell’incidente, morì decapitato.
La forza di Bianca
Poulenc rispettò  sostanzialmente lo svolgersi dei fatti storici avvenuti nell’ultimo  decennio del 1700, ma inserì nella trama un personaggio di fantasia,  Bianca de la Force, già presente nello scritto della Von Le Fort.  Bianca, decisa ad entrare in convento perché terrorizzata dal mondo,  sperava di trovare tra quelle mura una vita protetta e sicura. La  Seconda Guerra Mondiale era terminata da pochi anni e il musicista  vedeva in Bianca la personificazione dell’uomo sopravvissuto a tale  conflitto, smarrito e desideroso di pace interiore, atterrito ed  anelante ad un vivere tranquillo e sereno. L’autore la descrive così:  «l’incarnazione dell’angoscia umana posta di fronte a un’era che stava  avanzando inesorabilmente verso la sua fine».
Quando entra nel  Carmelo, quasi presaga del suo destino futuro, sceglie di prendere come  nome da religiosa Suor Bianca dell’Agonia di Cristo. Anche lei aderirà  al voto di martirio perché, come si legge nel libretto, «la preghiera è  un dovere, il martirio una ricompensa. […] Non si muore mai ciascuno per  sé, ma gli uni per gli altri, ed anche gli uni al posto degli altri».
Dopo  che i commissari rivoluzionari hanno evacuato il convento, Bianca si  rifugia nella casa paterna, ma apprende che il genitore è stato  ghigliottinato, la casa ceduta e i nuovi inquilini decidono di tenerla  presso di loro come serva. Intanto le carmelitane vengono arrestate e  arriva il giorno dell’esecuzione della sentenza capitale. Tutte le  monache salgono al patibolo intonando il Salve Regina (e non il Laudate  Dominum come avvenne in realtà) e ricevendo dal cappellano  l’assoluzione.
Bianca però non è tra loro, si nasconde tra la  folla. È atterrita, ma ad un certo punto tutto cambia in lei e si fa  avanti continuando il canto della consorella Costanza, canto interrotto  dalla lama della ghigliottina.
Ecco le ultime battute del libretto  in cui si descrive il martirio di Bianca, alla quale la ghigliottina  troncherà sulle labbra la parola “Amen”: «(Bianca, con il viso spoglio  di ogni timore, si apre un varco nella folla tra la quale è confusa)  Costanza: “O clemens…”. (Costanza la scorge. Il suo volto si fa radioso  di gioia. Si ferma un breve istante. Riprendendo la sua marcia verso il  patibolo, ella sorride dolcemente a Bianca). Costanza: “O pia, o dulcis  Virgo Ma…”. (Incredibilmente calma, Bianca si fa strada tra la folla  stupita, e sale al supplizio). Bianca: “Deo Patri sit gloria/ Et filio  qui a mortuis/ Surrexit ac Paraclito/ In saeculorum secula…”.  (Improvvisamente, la voce tace, come hanno fatto, ad una ad una, le voci  delle Suore. La folla si disperde lentamente)».
 
