La forza della “Lettera ai cattolici di Irlanda”
di Benedetto XVI, dello scorso
19 marzo, sta soprattutto nel suo spirito
di autentico rinnovamento e riforma
della chiesa. Il richiamo alla penitenza
che costituisce il suo filo conduttore non
è mai disgiunto dall’appello “agli ideali
di santità, di carità e di sapienza trascendente”,
che nel passato resero grande l’Irlanda
e l’Europa e che ancora oggi possono
rifondarla (n. 3). Unico fondamento di
questa ricostruzione è però Gesù Cristo
“che è lo stesso ieri, oggi e sempre”
(Ebrei 13, 8) (n. 9). Rivolgendosi a tutti i fedeli
di Irlanda, il Papa li invita “ad aspirare
ad alti ideali di santità, di carità e di
verità e a trarre ispirazione dalle ricchezze
di una grande tradizione religiosa e
culturale” (n. 12). Questa tradizione non è
tramontata, anche se a essa si è opposto
“un rapidissimo cambiamento sociale,
che spesso ha colpito con effetti avversi la
tradizionale adesione del popolo all’insegnamento
e ai valori cattolici” (n. 4). In
questo paragrafo, che costituisce un passaggio
chiave del documento pontificio, il
Papa afferma che negli anni Sessanta fu
“determinante” “la tendenza, anche da
parte di sacerdoti e religiosi, di adottare
modi di pensiero e di giudizio delle
realtà secolari senza sufficiente riferimento
al Vangelo. Il programma di rinnovamento
del Concilio vaticano fu a volte
frainteso” e vi fu “una tendenza, dettata
da retta intenzione ma errata, ad evitare
approcci penali nei confronti di situazioni
canoniche irregolari”. “E’ in questo
contesto generale” di “indebolimento
della fede” e di “perdita del rispetto per
la chiesa e per i suoi insegnamenti”, “che
dobbiamo cercare di comprendere lo
sconcertante problema dell’abuso sessuale
dei ragazzi”.
L’obbligo di “sociologia pastorale”
In che senso il Concilio poté essere
“frainteso”? Il breve, ma significativo accenno
di Benedetto XVI merita di essere
sviluppato. Occorre ricordare che durante
i lavori dell’assise conciliare prese forma
l’idea di una chiesa non più militante,
ma peregrinante, in ascolto dei segni dei
tempi, pronta a rinunziare alla verginità
della sua dottrina, per lasciarsi fecondare
dai valori del mondo. Offrirsi ai valori
del mondo significava rinunziare ai propri
valori, a cominciare a quello che è più
intrinseco al cristianesimo: l’idea del Sacrificio,
che dal mistero della Croce discende
in ogni aspetto della vita ecclesiale,
fino alla dottrina morale, che un tempo
ispirava la vita di ogni battezzato, chierico
o laico che fosse.
Il Concilio impose ai vescovi, come un
dovere, la “sociologia pastorale”, raccomandando
di aprirsi alle scienze del
mondo, dalla sociologia alla psicanalisi.
In quegli anni era stato riscoperto lo psicanalista
austriaco Wilhelm Reich, morto
quasi del tutto dimenticato in un manicomio
americano nel 1957. Nel suo libromanifesto
“La Rivoluzione sessuale,”
Reich aveva sostituito alle categorie della
borghesia e del proletariato quelle di
repressione e di liberazione, intendendo
con questo ultimo termine la pienezza
della libertà sessuale. Ciò implicava la riduzione
dell’uomo a un insieme di bisogni
fisici e, in ultima analisi, ad energia
sessuale. La famiglia, fondata sul matrimonio
monogamico indissolubile tra un
uomo e una donna, era vista come l’istituto
sociale repressivo per eccellenza: nessuna
considerazione sociologica poteva
autorizzarne la sopravvivenza. Una nuova
morale, basata sull’esaltazione del piacere,
avrebbe presto spazzato via la morale
tradizionale cristiana, che attribuiva
un valore positivo all’idea di sacrificio e
di sofferenza.
La nuova teologia, spinta dal suo abbraccio
ecumenico ai valori del mondo,
cercò l’impossibile dialogo tra la morale
cristiana e i suoi nemici. I corifei della
“nuova morale”, che in Italia furono teologi
come don Enrico Chiavacci don Leandro
Rossi e don Ambrogio Valsecchi, salutarono
come maestri del nuovo corso morale
Wilhelm Reich e Herbert Marcuse.
Nel 1973, a cura di Valsecchi e di Rossi,
uscì, per le edizioni Paoline, un pomposo
“Dizionario enciclopedico di teologia
morale”, che ambiva a sostituire il
classico, e ancor oggi prezioso “Dizionario
di teologia morale” dei cardinali
Francesco Roberti e Pietro Palazzini (la
quarta edizione fu pubblicata da Studium
nel 1968). Nel nuovo “Dizionario morale”,
Enrico Chiavacci sosteneva che “la vera
natura umana è di non aver natura” e che
l’uomo è tale per la “tensione” che la sua
coscienza esprime, indipendentemente
dai “divieti” della morale tradizionale.
Valsecchi affermava la necessità di svincolarsi
da una concezione della morale
che facesse appello a una fondazione metafisica
della natura umana. Unico peccato,
radice di tutti gli altri, quello “contro
l’amore”, e unica virtù, quella di assecondare
l’amore, naturalmente e non soprannaturalmente
inteso.
I nuovi moralisti, definiti da qualcuno
“pornoteologi”, sostituivano alla oggettività
della legge naturale, la “persona”, intesa
come volontà progettante, sciolta da
ogni vincolo normativo e immersa nel
contesto storico-culturale, ovvero nell’
“etica della situazione”. E poiché il sesso
costituisce parte integrante della persona,
rivendicavano il ruolo della sessualità,
definita “funzione primaria di crescita
personale” (così Valsecchi), anche perché,
a dir loro, il Concilio insegnava che
solo nel rapporto dialogico con l’altro, la
persona umana si realizza. Citavano a
questo proposito il concetto secondo cui
“ho bisogno dell’altro per essere me stesso”,
fondato sul n. 24 della Gaudium et
Spes, magna charta del progressismo postconciliare.
Chiavacci, Rossi e Valsecchi,
contestarono pubblicamente, nel 1974, la
posizione antidivorzista della Conferenza
episcopale, ma continuarono ad essere
per molti anni i “moralisti” più in vista
della Chiesa italiana. Ancora oggi basta
entrare in una libreria cattolica per trovare
in primo piano sugli scaffali i loro libri,
stampati da case editrici come le Paoline
e la Queriniana.
Eppure, ciò che fa riflettere sono proprio
vicende esistenziali, come quelle di
Ambrogio Valsecchi professore di morale
alla Facoltà teologica di Milano, consulente
del cardinale di Milano, Carlo Colombo,
al Concilio Vaticano II, alfiere della
nuova morale, poi dispensato dai voti e
sposato (con rito religioso) nel 1975, quindi
divenuto nell’ultimo decennio della
sua vita psicologo, analista e terapista di
coppia. Altrettanto fallimentare è stato
l’itinerario di colui che oggi è, con Hans
Küng, il principale accusatore di Benedetto
XVI: Rembert Weakland. Difensore
ad oltranza della “rivoluzione sessuale”,
dei diritti dei “gay” e delle donne nella
Chiesa, Weakland non è più arcivescovo
di Milwaukee dal 2002 quando fu “dimissionato”
dopo che un ex studente di teologia
l’aveva accusato di violenza carnale,
rompendo il segreto che lo stesso
Weakland gli aveva imposto in cambio di
450 mila dollari detratti dalle casse dell’arcidiocesi.
La stampa “liberal”, lungi
dal lapidarlo, lo trattò però con molto riguardo,
come conveniva a un celebrato
campione della Chiesa progressista quale
egli era.
Omosessualità e trasgressione pedofila
I nemici della tradizione hanno sempre
preteso di opporre il primato dell’esistenza
a quello della dottrina, il cristianesimo
concretamente vissuto a quello astrattamente
predicato. Il “tribunale della vita
vissuta”, a cui essi si sono appellati, ha ribaltato
però i loro giudizi e le loro previsioni.
Chi ha voltato le spalle alla ferrea
intransigenza dei princìpi per ancorarsi
al molliccio fondamento della propria
esperienza, è spesso fuoriuscito da quella
Chiesa che diceva di voler meglio servire.
Chi ha negato l’esistenza di una natura da
rispettare, ha iniziato col soddisfare gli
istinti della natura che negava, per assecondare
poi le deviazioni che la volontà
offriva alla sua intelligenza, disancorata
dal vero. Il passaggio dalla etero alla omosessualità
e di qui alla pedofilia è stato,
per alcuni, se non cronologicamente, almeno
logicamente coerente.
Oggi si può sostenere, in prima pagina
di Repubblica, che il celibato ecclesiastico
produce pedofilia. Ma su nessun giornale
si potrebbe affermare l’esistenza di un
nesso altrettanto diretto tra pedofilia e
omosessualità. Lo impediscono le leggi di
alcuni Stati europei, che hanno introdotto
il reato di omofobia, ma più ancora lo vieta
la censura culturale e sociale che riduce
sempre di più i margini di difesa della
moralità. All’interno di un certo mondo
cattolico, ancora più grave è considerata
l’affermazione di un rapporto, anche solo
indiretto, tra la nuova teologia degli anni
Sessanta e il pansessualismo che penetrò
nella Chiesa dopo il Concilio. Benedetto
XVI lo ha fatto e gliene va reso onore.
Roberto de Mattei
© Copyright Il Foglio 30 marzo 2010