DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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LA "VOCAZIONE DI SAN MATTEO" DI CARAVAGGIO. DA UN MICHELANGELO ALL'ALTRO




di Giorgio Alessandrini


Nella poetica di Michelangelo Merisi, il Caravaggio, la ricerca degli effetti di luce e di ombre, ben più che virtuosismo pittorico, è mezzo per far passare messaggi simbolici.

Nella "Vocazione di san Matteo" della cappella Contarelli della chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma il pittore traduce in immagini un tema dell'evangelista Giovanni: Cristo, il Verbo incarnato, luce del mondo, si espone all'accettazione o al rifiuto degli uomini, l'accettazione di chi nella fede gli si consegna, il rifiuto di chi preferisce le tenebre alla luce. Dice il prologo del quarto Vangelo: "Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Venne tra i suoi, ma i suoi non l'hanno accolto. A quanti però l'hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio" (1, 9-12).

Nel quadro, la contrapposizione risulta dall'atteggiamento dei personaggi ritratti sotto il raggio che taglia di netto l'oscurità dell'ambiente.

L'oscura bottega del pubblicano Matteo è il luogo consacrato al culto del "Mammona di iniquità". Questo nome, evocativo del dio della ricchezza nel pantheon degli antichi fenici, designa nel Vangelo l'idolatria del denaro. Gesù ne fa uso quando ammonisce: "Non potete servire due padroni, Dio e Mammona" (Matteo 6, 24). Il bancone funge da altare di un culto che raccoglie una piccola assemblea di "devoti" impegnati nel conteggio delle monete. Al centro è Matteo che sembra officiare la peculiare liturgia di cui si è fatto ministro.

L'irruzione di Gesù accompagnato da Pietro provoca reazioni diverse. Le due figure a sinistra sono talmente assorbite nelle operazioni di conteggio da non fare il minimo caso all'intervento e, meno che mai all'invito di Cristo a Matteo. Al contrario, la luce improvvisa non fa che acuire l'attenzione alle monete scrutate perfino con l'ausilio di un paio di occhiali.

Sul medesimo tavolo, davanti all'"officiante" Matteo è in bella evidenza il libro delle scritture dove la penna del pubblicano annota con diligenza i movimenti d'andare e venire di quel "signore" fino a quel momento padrone della sua vita e dei suoi pensieri e progetti. Ben altre saranno in un tempo a venire – ma che già si annuncia col visitatore che si affaccia alla porta – le scritture che Levi Matteo consegnerà col suo Vangelo alla memoria del popolo di Dio e a quella di ogni uomo di fede.

Accanto al libro la borsa delle monete richiama per contrasto la prescrizione di Cristo: "Non procuratevi oro né argento né rame nelle vostre cinture..." (Matteo 10, 9). Non è estranea alla "liturgia" in corso la presenza di armigeri; anche la spada di quello seduto di spalle parrebbe un attrezzo che ha parte nel rituale. Non per nulla Francesco d'Assisi farà a suo tempo notare al vescovo Guido: "Se possedessimo beni dovremmo provvederci di armi per poterli difendere!".

Diversamente dai primi due personaggi, Matteo e i giovani armigeri si lasciano scuotere dall'irruzione dei due nuovi venuti; lo dice il movimento degli occhi, dei volti e la torsione dei corpi. Le mani del pubblicano segnalano un evidente contrasto. La destra è irrigidita sul banco e sulle monete, mentre la sinistra si porta vivacemente sul petto. La faccia interroga il volto di Cristo come per chiedere: "Per me sei venuto? Proprio qui dove non si fa che negoziare e trattare denaro?" La mano tesa di Cristo e quella di Pietro non lasciano adito a dubbi: "I tuoi affari e il tuo denaro sono per te una prigione, viene a te il Regno di Dio, si fa presente con me alla porta della tua vita e ti richiede".

Il resto, che riguarda lo stile di vita legato alla nuova avventura, lo dice l'abbigliamento dimesso ed essenziale dei due nuovi venuti, in contrasto evidente coi ricchi abiti dei presenti, ricercati nella foggia secondo gusti contemporanei al pittore. Il tratto anacronistico rimanda alla perenne attualità di un dilemma, che non muta coi tempi o con un cambio d'abito, tra il culto di Dio e l'idolatria del denaro.

Osservando la scena con maggiore attenzione si nota un particolare che va ulteriormente indagato: la mano di Gesù, nel gesto e nella posizione delle dita ricalca con sorprendente esattezza il gesto fissato sulla volta affrescata della Sistina, dove un altro Michelangelo aveva ritratto la creazione dell'uomo.

La mano dell'Adamo della Sistina che per il tocco del dito di Dio si desta alla vita, la ritroviamo nel quadro di San Luigi dei Francesi, ed è quella di Gesù che, secondo la teologia di san Paolo, è il nuovo Adamo venuto a infondere nell'uomo la vita divina secondo lo Spirito.

Quella mano tesa verso il peccatore Matteo da parte del Figlio dell'Uomo in cui ha sede in pienezza la grazia divina, viene a colmare la distanza tra Dio e l'uomo, l'abisso scavato dal peccato del nostro comune progenitore, a danno proprio e della sua discendenza. Sarà attraverso la mano del Figlio, nuovo Adamo, che il Padre potrà generare a sé altri figli secondo lo Spirito, affrancati dal potere invincibile che li assoggetta alla schiavitù della morte. Con lui e per lui potrà avere inizio di un nuovo esodo di liberazione verso la vita. È proprio in vista di quel nuovo esodo che al pubblicano Matteo è chiesto di lasciar tutto per aver parte tra i dodici che più da vicino seguiranno il Signore.

Il particolare della mano pone tra l'altro una domanda relativa all'affresco della Sistina: perché mai Michelangelo nell'interpretare il racconto della Genesi si è discostato dall'immagine biblica (Genesi 2, 7): "Dio soffiò nelle narici [dell'uomo] e divenne l'uomo un'anima vivente"? È solo per una scelta formale che il pittore ha evitato di ritrarre il Creatore nell'atto esteticamente meno gradevole di soffiare sul volto di Adamo e ha preferito la movenza armoniosa delle due mani protese? La risposta si trova nell'inno notissimo della liturgia romana, il "Veni Creator" che designa lo Spirito Santo col titolo di "digitus paternae dexterae", dito della destra del Padre. Nei versetti seguenti troviamo poi invocazioni del tutto in carattere col tema della vita divina infusa nell'uomo: "Accende lumen sensibus, infunde amorem cordibus", accendi di luce i sensi, infondi l'amore nei cuori.

La folgorazione di luce e le risonanze interiori opera dello Spirito, sono ancora più chiaramente figurate dal raggio che irrompe nel luogo, simultaneamente all'ingresso di Gesù e di Pietro, e che dà vita al contrasto di colori, di ombre e di espressioni, nelle figure e nei volti della piccola corte adunata.

È proprio all'ingresso di Cristo che la buia stanza si illumina. Infatti, dalla finestra nessun barlume traluce a vincere l'ombra incombente. Invece, nel vano di quella finestra oscurata, sopra la mano di Gesù protesa in avanti, è profilata una croce spoglia di ogni apparenza gloriosa, ma collocata in posizione eminente rispetto alla scena, con più che probabile significato simbolico.

Un'ultima osservazione concerne un fatto fuori norma rispetto all'iconografia classica: la figura di Cristo è collocata in secondo piano mentre in primo piano, ritratta di spalle, sta la figura di Pietro. Se il primo degli apostoli – che con la mano replica a suo modo, quasi con timidezza, il gesto di Cristo – è nell'intenzione figura simbolica della Chiesa, il pittore ci sta mettendo di fronte a una indicazione precisa: l'invito a seguire Cristo passa per una Chiesa che unisce grandezze e miserie, slanci di fede e rinnegamenti.

L'obbedienza da parte di una fede matura comporta spesso l'accettazione del limite storico che sempre condiziona la Chiesa in cammino e che bisogna poter trascendere. È proprio passando e soffrendo per le molte contraddizioni avvertite che spesso alla gente di fede è chiesto di cercare l'incontro con Cristo, fino a ritrovare la nobiltà del volto di lui e l'autorevolezza del gesto con cui ci chiama a seguirlo.



© Copyright Osservatore Romano

L'invito di Caravaggio

l procuratore generale degli oratoriani ha sintetizzato per il nostro giornale il contenuto della conferenza tenuta il 22 aprile nella chiesa di Santa Maria in Vallicella a Roma nell'ambito dei "Sermoni dell'Oratorio".

di Edoardo Aldo Cerrato

Pur nella semplicità di un sermone dell'Oratorio secolare, non poteva mancare alla Vallicella, nel iv centenario della morte di Caravaggio, il ricordo del "gran peccatore, specie nell'ira, ma cattolico peccatore, ben cosciente che gli insegnamenti della Chiesa erano veri", il quale ha dipinto per la cappella Vittrici della Chiesa Nuova la Deposizione conservata nei Musei Vaticani.
Pietro Vittrici, già maggiordomo del cardinale Ugo Boncompagni e suo famigliare dopo l'elezione al Soglio pontificio (1572), era stato guarito miracolosamente per intervento di Filippo Neri e si era spiritualmente legato a lui e all'Oratorio, tanto da essere il primo ad aver assegnata, nel 1577, nella Chiesa Nuova che stava sorgendo, una cappella sul cui altare una pala di ignoto, ora perduta, raffigurava la Pietà e accanto a essa lo stesso Papa Boncompagni.
Questa cappella fu ben presto sostituita dalla attuale - decorata ad affresco e stucco sui temi della morte e sepoltura di Cristo, illustrati con raffigurazioni della sacra Sindone, della Pietà e dei profeti che mostrano tavolette con versetti appropriati dei salmi - innalzata a spese della Congregazione a partire dal settembre 1596 (padre Filippo era morto il 26 maggio dell'anno precedente) e terminata nel 1605. Per essa, in ricordo di Pietro Vittrici, morto il 26 marzo 1600, il nipote Girolamo, suo erede, aveva commissionato "di sua cortesia" al Caravaggio la nuova pala, realizzata tra il 1602 e il 1604.
La scelta di affidare all'artista il quadro maturò nell'ambito dell'entourage di Clemente viii Aldobrandini e degli Oratoriani, oltre che nel rapporto di familiarità che il Vittrici intratteneva con importanti committenti e amici di Caravaggio: i Cerasi, i Giustiniani - tre dei quali, Fabiano, Orazio e Giuliano, entrarono nella Congregazione dell'Oratorio - i Mattei, la cui villa sul Celio ospitava la sosta dei partecipanti alla Visita delle Sette Chiese.
Era stata accettata, per la Chiesa Nuova, una tela del pittore maledetto, insofferente di ogni vincolo religioso, istintivo e bizzarro che Caravaggio appariva a non pochi, o, in quell'ambiente di profonda pietà, si apprezzava la religiosità di un artista discusso ma passionalmente impegnato a interpretare il messaggio di verità e di evangelica povertà caro a Filippo, al Baronio, agli oratoriani? La Congregazione dell'Oratorio era esigente con gli artisti, come dovrà sperimentare anche Pier Paolo Rubens. La tela di Caravaggio entrò nella nuova chiesa già ornata dalla Crocifissione di Scipione Pulzoni, dall'Ascensione di Gesù di Girolamo Muziano, dall'Adorazione dei Magi di Cesare Nebbia, dalla Visitazione di Maria a Elisabetta di Federico Barocci, davanti alla quale padre Filippo "si tratteneva volentieri" - testimonia il Bacci - piacendogli assai quell'immagine".
La pala della cappella Vittrici presenta la deposizione di Gesù nel sepolcro. Il corpo del Cristo è bellissimo (evidente l'omaggio alla Pietà di Michelangelo in San Pietro), ma la realtà della morte è espressa dal volto livido e dalla bocca dischiusa, dal braccio, attirato in basso dalla forza di gravità che lo domina. Eppure quel braccio si inarca e le dita della mano sembrano indicare la pietra il cui angolo punta verso chi contempla la scena: Cristo è stato sconfitto, i suoi discepoli sono fuggiti, lo hanno rinnegato, si sono dispersi, ma il lapis angularis rimane lui, anche ora che tutto consumatum est. La sindone avvolge il Cristo morto, ma ha un lembo mosso da un soffio leggero, mentre dal buio già una pianta emerge, con il suo verde fogliame, a indicare che la morte, dentro a tale sepolcro, non è vittoriosa. Chi sta per scendere nella tomba è un morto particolare: la mattina di Pasqua ne svelerà al mondo la piena identità, rivelando al tempo stesso lo stupendo disegno di Dio.
Il corpo di Cristo è sostenuto da Giovanni e da Nicodemo (per altri Giuseppe di Arimatea): Nicodemo - le gambe vigorose e i piedi ben piantati sulla pietra sono quelli che lo portarono, di notte, a incontrare Gesù - più che sorreggere quel corpo sembra a esso abbracciato; Giovanni, il capo che si piega sul petto del Maestro, sembra rivivere l'esperienza della notte precedente, quando nel suo cuore risuonarono i palpiti del Cuore di Dio.
In secondo piano, Maria e due donne accompagnano Cristo al sepolcro: le braccia spalancate e il volto reclinato, conformata a Cristo nel dono supremo, la Madre abbraccia tutto il corpo del Figlio; le donne con lacrime di dolore cantano la fedeltà dell'amore.
Ma con lo sguardo rivolto a cercare gli occhi di chi sta davanti alla scena, è Nicodemo che colpisce in modo particolare. Il suo volto è caratterizzato come un ritratto, tanto che qualcuno vi ha voluto vedere il volto di Pietro Vittrice; Romeo De Maio il volto di Cesare Baronio; altri quello di Michelangelo, il quale, peraltro, nella Pietà conservata al Museo del Duomo di Firenze, aveva scolpito le proprie sembianze in quelle del discepolo. Quel volto è quello dell'artista-testimone che non si limita a rievocare un fatto del passato, ma lo riconosce presente nell'oggi? Quel che è certo è che su quel volto solcato di rughe c'è un invito: "E tu? Vuoi entrare anche tu in questo avvenimento?". "Nelle figure che spesso affollano le pitture di Caravaggio - scrive Rodolfo Papa - rintracciamo qualcosa di noi, qualcosa della nostra vita quotidiana, o, meglio, della fatica della nostra vita quotidiana posta al cospetto del mistero che irrompe salvifico tra noi. L'arte di Caravaggio ci parla della nostra fede e per questo l'amiamo istintivamente".
L'arte di Caravaggio, arrivato addirittura a uccidere, è il "paradosso" di cui parla Bona Castellotti: il paradosso di una mano mai frenata dalla coscienza del proprio male, ma spesa nella consapevolezza di un grande bene; il paradosso di uno sguardo che vede le cose che non vanno bene, ma è tutto proteso a valorizzare l'unica cosa buona presente in ogni realtà.
Sotto il lino che avvolge la carne del Mistero, sotto la dura pietra che spinge il suo angolo aguzzo verso il fedele, quella pianticella giovane che già alza il capo è il segno che la vita nuova è nata, e che il desiderio del cuore non è vano. Quella pianticella è il canto umile ed esultante della Risurrezione: quella di Cristo e la nostra.
Caravaggio ha offerto la visione del mistero pasquale da artista che, dentro alle ansie e ai drammi della vita, seppe lasciarsi affascinare dalla bellezza della carne di Cristo. Lo fece con la consapevolezza con cui, nei giorni di Pasqua, il Victimae paschali canta, con la maestà pacata di ciò che non ammette evasioni, l'evento storico che ha cambiato la vita: mortuus, vivus, redemit, reconciliavit. La fede nel Mistero è garantita da accertamenti sicuri, che la tutelano dai sogni e dalle illusioni. C'è la testimonianza di chi reca la prova della sua constatazione personale: Quid vidisti, Maria? Sepulcrum Christi viventis, et gloriam vidi resurgentis, Angelicos testes, sudarium et vestes.


(©L'Osservatore Romano - 23 aprile 2010)






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Da un Michelangelo all'altro. Una lettura di Caravaggio

di Giorgio Alessandrini

Nella poetica di Michelangelo Merisi (il Caravaggio), la ricerca degli effetti di luce e di ombre, ben più che virtuosismo pittorico è mezzo per far passare messaggi simbolici. Nella Vocazione di san Matteo della cappella Contarelli di San Luigi dei francesi a Roma il pittore traduce in immagini un tema dell'evangelista Giovanni: Cristo, il Verbo incarnato, luce del mondo, si espone all'accettazione o al rifiuto degli uomini, l'accettazione di chi nella fede gli si consegna, il rifiuto di chi preferisce le tenebre alla luce. "Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo (...) venne tra i suoi, ma i suoi non l'hanno accolto, a quanti però l'hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio". Così nel prologo del quarto vangelo (Giovanni, 1, 9-12). Nel quadro la contrapposizione risulta dall'atteggiamento dei personaggi ritratti sotto il raggio che taglia di netto l'oscurità dell'ambiente.
L'oscura bottega del pubblicano Matteo è il luogo consacrato al culto del "Mammona di iniquità". Questo nome evocativo del dio della ricchezza nel Pantheon degli antichi fenici, designa nel Vangelo l'idolatria del denaro. Gesù ne fa uso quando ammonisce: "Non potete servire due padroni, Dio e Mammona" (Matteo, 6, 24). Il bancone funge da altare di un culto che raccoglie una piccola assemblea di "devoti" impegnati nel conteggio delle monete.
Al centro è Matteo che sembra officiare la peculiare liturgia di cui si è fatto ministro. L'irruzione di Gesù accompagnato da Pietro provoca reazioni diverse: le due figure a sinistra sono talmente assorbite nelle operazioni di conteggio da non fare il minimo caso all'intervento e, meno che mai all'invito di Cristo a Matteo. Al contrario la Luce improvvisa non fa che acuire l'attenzione alle monete scrutate perfino con l'ausilio di un paio di occhiali.
Sul medesimo tavolo, davanti all'"officiante" Matteo è in bella evidenza il libro delle scritture dove la penna del pubblicano annota con diligenza i movimenti d'andare e venire di quel "signore" fino a quel momento padrone della sua vita e dei suoi pensieri e progetti. Ben altre saranno in un tempo a venire - ma che già si annuncia col visitatore che si affaccia alla porta - le scritture che Levi Matteo consegnerà col suo vangelo alla memoria del Popolo di Dio e a quella di ogni uomo di fede.
Accanto al libro la borsa delle monete richiama per contrasto la prescrizione di Cristo: "Non procuratevi oro né argento né rame nelle vostre cinture..." (Matteo, 10, 9). Non è estranea alla "liturgia" in corso la presenza di armigeri; anche la spada di quello seduto di spalle parrebbe un attrezzo che ha parte nel rituale. Non per nulla Francesco d'Assisi farà a suo tempo notare al vescovo Guido: "Se possedessimo beni dovremmo provvederci di armi per poterli difendere!".
Diversamente dai primi due personaggi, Matteo e i giovani armigeri si lasciano scuotere dall'irruzione dei due nuovi venuti; lo dice il movimento degli occhi, dei volti e la torsione dei corpi. Le mani del pubblicano segnalano un evidente contrasto. La destra è irrigidita sul banco e sulle monete, mentre la sinistra si porta vivacemente sul petto. La faccia interroga il volto di Cristo come per chiedere: "Per me sei venuto? Proprio qui dove non si fa che negoziare e trattare denaro?" La mano tesa di Cristo e quella di Pietro non lasciano adito a dubbi, "i tuoi affari e il tuo denaro, sono per te una prigione, viene a te il Regno di Dio, si fa presente con me alla porta della tua vita e ti richiede".
Il resto, che riguarda lo stile di vita legato alla nuova avventura, lo dice l'abbigliamento dimesso ed essenziale dei due nuovi venuti, in contrasto evidente coi ricchi abiti dei presenti, ricercati nella foggia secondo gusti contemporanei al pittore; il tratto anacronistico rimanda alla perenne attualità di un dilemma che non muta coi tempi o con un cambio d'abito, tra il culto di Dio e l'idolatria del denaro.
Osservando la scena con maggiore attenzione si nota un particolare che va ulteriormente indagato: la mano di Gesù, nel gesto e nella posizione delle dita ricalca con sorprendente esattezza il gesto fissato sulla volta affrescata della Sistina, dove un altro Michelangelo aveva ritratto la creazione dell'uomo.
La mano dell'Adamo della Sistina che per il tocco del dito di Dio si desta alla vita, la ritroviamo nel quadro di San Luigi dei francesi, ed è quella di Gesù che, secondo la teologia di san Paolo, è il nuovo Adamo venuto a infondere nell'uomo la vita divina secondo lo Spirito. Quella mano tesa verso il peccatore Matteo da parte del Figlio dell'uomo in cui ha sede in pienezza la grazia divina, viene a colmare la distanza tra Dio e l'uomo, l'abisso scavato dal peccato del nostro comune progenitore, a danno proprio e della sua discendenza. Sarà attraverso la mano del Figlio, nuovo Adamo, che il Padre potrà generare a sé altri figli secondo lo Spirito, affrancati dal potere invincibile che li assoggetta alla schiavitù della morte. Con lui e per lui potrà avere inizio di un nuovo esodo di liberazione verso la vita. È proprio in vista di quel nuovo esodo che al pubblicano Matteo è chiesto di lasciar tutto per aver parte tra i dodici che più d'appresso seguiranno il Signore.
Il particolare della mano pone tra l'altro una domanda relativa all'affresco della Sistina: perché mai Michelangelo nell'interpretare il racconto della Genesi si è discostato dall'immagine biblica: "Dio soffiò nelle narici (dell'uomo) e divenne l'uomo un'anima vivente"? (Genesi, 2, 7) È solo per una scelta formale che il pittore ha evitato di ritrarre il Creatore nell'atto esteticamente meno gradevole di soffiare sul volto di Adamo e ha preferito la movenza armoniosa delle due mani protese? La risposta si trova nell'inno notissimo della liturgia romana, il Veni Creator che designa lo Spirito Santo col titolo di digitus paternae dexterae, dito della destra del Padre. Nei versetti seguenti troviamo poi invocazioni del tutto in carattere col tema della vita divina infusa nell'uomo: Accende lumen sensibus, infunde amorem cordibus, accendi di luce i sensi, infondi l'amore nei cuori.
La folgorazione di luce e le risonanze interiori opera dello Spirito, sono ancora più chiaramente figurate dal raggio che irrompe nel luogo simultaneamente all'ingresso di Gesù e di Pietro e che dà vita al contrasto di colori, di ombre e di espressioni, nelle figure e nei volti della piccola corte adunata. È proprio all'ingresso di Cristo che la buia stanza si illumina, infatti dalla finestra nessun barlume traluce a vincere l'ombra incombente. Invece nel vano di quella finestra oscurata, sopra la mano di Gesù protesa in avanti, è profilata una croce spoglia di ogni apparenza gloriosa, ma collocata in posizione eminente rispetto alla scena, con più che probabile significato simbolico.
Un'ultima osservazione concerne un fatto fuori canone rispetto all'iconografia classica: la figura di Cristo è collocata in secondo piano mentre in primo piano ritratta di spalle sta la figura di Pietro. Se il primo degli apostoli - che con la mano replica a suo modo, quasi con timidezza, il gesto di Cristo - è nell'intenzione di Michelangelo Merisi figura simbolica della Chiesa, il pittore ci sta mettendo di fronte a una indicazione precisa: l'invito a seguire Cristo passa per una Chiesa che unisce grandezze e miserie, slanci di fede e rinnegamenti. L'obbedienza da parte di una fede matura comporta spesso l'accettazione del limite storico che sempre condiziona la Chiesa in cammino e che bisogna poter trascendere. È proprio passando e soffrendo per le molte contraddizioni avvertite che spesso alla gente di fede è chiesto di cercare l'incontro con Cristo, fino a ritrovare la nobiltà del volto di Lui e l'autorevolezza del gesto con cui ci chiama a seguirlo.


(©L'Osservatore Romano - 28 marzo 2010 )

Caravaggio e il neorealismo fatto con la luce. Il tema della vocazione nell'arte: la chiamata degli apostoli. di Timothy Verdon

Dopo il suo battesimo e al ritorno dal deserto delle tentazioni, Gesù rivendicò come sue le parole d'Isaia: "Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio" (Luca, 4, 16-19; cfr. Isaia, 61, 1-2). Tale pubblica rivendicazione dell'intervento dello Spirito è fondamentale per ogni discorso sulla Chiesa e sul ruolo dei suoi sacerdoti. Cristo aveva sentito lo Spirito sopra di lui al Battesimo; dallo Spirito egli era stato poi sospinto nel deserto, e - sempre secondo Luca - dopo la tentazione era tornato "in Galilea con la potenza dello Spirito Santo" (4, 14). Dopo il ritorno dichiara poi di intraprendere la sua missione sotto lo Spirito, ed ecco la spiegazione di quanto segue, il successo della sua attività di predicatore e guaritore: in lui tutti sentivano la presenza dello Spirito di Dio. L'influsso dello Spirito è chiaro soprattutto nel primo passo compiuto da Cristo quando cominciò ad annunciare l'imminenza del regno: la chiamata degli apostoli. "Mentre camminava lungo il mare di Galilea vide due fratelli, Simone chiamato Pietro e Andrea suo fratello, che gettavano la rete in mare, poiché erano pescatori. E disse loro: "Seguitemi, vi farò pescatori di uomini". Ed essi, subito, lasciate le reti, lo seguirono. Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo di Zebedeo e Giovanni suo fratello, che nella barca insieme con Zebedeo, loro padre, riassettavano le reti; e li chiamò. Ed essi subito, lasciata la barca e il padre, lo seguirono" (Matteo, 4, 18-22; cfr. Marco, 1, 16-20).
Questo momento è raffigurato in una splendida pala d'altare del veneziano Marco Basaiti, dove l'assoluta autorevolezza di Cristo che chiama, e l'immediata risposta di Giacomo e Giovanni che "subito" gli obbediscono, suggeriscono in modo evidente la presenza dello Spirito Santo. Alla destra e sinistra di Cristo stanno, rispettivamente, Pietro e Andrea che hanno anch'essi accolto l'invito del Salvatore a seguirlo e ora, assieme a lui, ricevono i nuovi arrivati; si tratta quindi di una presenza dello Spirito diffusiva, che crea intorno a Gesù una comunità, il primo nucleo della Chiesa. È questo il vero inizio del ministero pubblico: fu solo dopo la chiamata dei primi discepoli, infatti, che "Gesù andava per tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e predicando la buona novella del regno e curando ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo" (Matteo, 4, 23). L'insegnamento, la predicazione, le guarigioni, benché personali - attribuibili cioè solo a Cristo - tuttavia coinvolgevano altri, fratelli che avevano lasciato tutto per seguire quest'uomo su cui lo Spirito del Signore si era posato.
Non solo i rozzi pescatori del litorale galileano, ma anche personalità più complesse, segnate dal peccato, come san Matteo, accoglieranno la chiamata di Cristo. Giustamente celebre è la Vocazione di san Matteo dipinta dal Caravaggio per la chiesa romana di San Luigi dei Francesi, dall'effetto fortemente teatrale grazie alla larga fascia di luce che scende da destra. La tela occupa un'intera parete laterale della cappella in cui si trova, e l'ambientazione in ciò che sembra un'osteria nonché i costumi contemporanei del gruppo a sinistra dovevano scioccare i tradizionalisti in questa cappella in una chiesa di centro città, dove - vicino all'immagine di un tavolo comune a cui siede il pubblicano Levi con amici di dubbia onestà - viene celebrata la liturgia eucaristica! Cioè, rifiutando il linguaggio aulico del suo tempo, Caravaggio allestisce un'osteria in chiesa, obbligando chi va a Messa a stare gomito a gomito col ragazzo chino sul denaro, dagli abiti scomposti, che sembra ubriaco o drogato; coll'amichetto effeminato di Matteo, che si appoggia familiarmente al futuro apostolo; e al giovane "bravo" visto da tergo, con la spada al fianco e l'abito appariscente. Se per assurdo immaginiamo, accanto all'altare di una chiesa moderna, una grande foto di spacciatori in una discoteca di periferia, possiamo immaginare lo choc per i contemporanei del realismo caravaggesco applicato alla decorazione del luogo di culto!
Si tratta però di una precisa strategia vocazionale, riproponibile oggi, credo. Nella Roma che allora viveva il fermento della Riforma Cattolica - che vedeva nuovi ordini religiosi impegnati nel recupero di casi disperati, offrendo alloggio e istruzione ai ragazzi della strada, aprendo i conventi alle prostitute riformate - il dipinto parlava con singolare forza del potere santificante di Cristo in ogni situazione di vita, perfino nel peccato. Notiamo poi che Cristo e san Pietro, che entrano da destra, dove sta l'altare nella cappella - vestano abiti appartenenti al mondo antico: al loro periodo storico cioè. Il "decoro" religioso viene così tutelato e la drammaticità del momento addirittura intensificata, perché, più di un evento del passato in veste moderna, l'immagine suggerisce come il senso di un evento storico possa irrompere in una situazione attuale - come se Caravaggio dicesse: "Lo stesso Cristo che ha chiamato Matteo mille e seicento anni or sono, oggi chiama altri "pubblicani"; Lui, che non cambia, in ogni tempo chiama i peccatori a cambiare vita".
L'altra importante commissione pubblica del Caravaggio negli ultimi anni del XVI secolo era per due tele alle pareti laterali della Cappella del cardinale Tiberio Cerasi in Santa Maria del Popolo, una delle quali è identificata nel contratto del 1600 come "il mistero della conversione di san Paolo", pure questa una scena di vocazione, che Caravaggio rappresenta come un evento interiore e misterioso, avvolto di luce e silenzio "visionario" precisamente nella cecità di cui l'apostolo viene temporaneamente colpito (cfr. Atti, 9, 1-9). A differenza di altri, che avevano rappresentato l'evento con soldati e servi spaventati, con cavalli imbizzarriti, con apparizioni divine, Caravaggio riduce gli elementi narrativi a due uomini, un cavallo, e la luce che fa da protagonista.
La lettura che Caravaggio dà all'evento è fedele al racconto neotestamentario che descrive una presa di coscienza lacerante, una fulminazione morale e spirituale che mette in crisi tutto il senso di una vita. Saulo (successivamente Paolo), l'accanito nemico della primitiva Chiesa, era in viaggio verso Damasco con l'autorizzazione dell'alto sacerdote di fermare e imprigionare i discepoli di Cristo, quando, "all'improvviso lo avvolse una luce dal cielo e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: "Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?". Rispose: "Chi sei, o Signore?". E la voce: "Io sono Gesù, che tu perseguiti! Orsù, alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare"" (Atti, 9, 3-9).
"Ti sarà detto ciò che devi fare". Caravaggio fa vedere qui la luce accecante, che diventa in quell'istante l'intero universo di Saulo; fa quasi sentire il silenzio, nell'immobilità delle figure, e fa sentire anche il disorientamento di quest'uomo che capisce d'aver sbagliato tutto. Saulo si trova letteralmente "a terra", le sue certezze azzerate, brancolante nel buio di una luce troppo grande, travolgente. Ma accetta che gli sarà detto ciò che deve fare. Colui che Saulo contestava, respingeva, considerava morto, aveva ragione e, vivo, ora chiama Saulo per nome, comandando la sua obbedienza!
L'ordinarietà del grande cavallo e la calma imperturbabile del servo sottolineano la totalità del mistero: nel mondo esteriore nulla è cambiato, ma nel cuore del santo tutto cambia. Cambierà anche il nome, e Paolo, riaprendo gli occhi, non vedrà più le cose come prima. Ormai potrà dire: "Sono stato crocifisso con Cristo, e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me" (Galati, 2, 20). È questo forse il senso delle braccia innalzate. Nel buio luminoso, Paolo già incomincia a vivere di Cristo crocifisso.


(©L'Osservatore Romano - 5 marzo 2010)

Caravaggio, realista con sguardo su Dio. di Vittorio Sgarbi

In giro per le sale ancora senza pubblico (fino al 20) della grande mostra romana sull'artista. A tu per tu con un genio che ha ritratto la vita, anche quella interiore, dal suo punto di vista
di Vittorio Sgarbi
Ho visto, ancora una volta, in perfetta solitudine le opere di Caravaggio arrivate alle Scuderie del Quirinale. La mostra è in allestimento. Le pareti, per volontà dell’allestitore, l’architetto Michele De Lucchi, sono prevalentemente rosse, alcune grigio-scure. È un corpo a corpo in una situazione di privilegio. Da sabato prossimo al 13 giugno migliaia di persone passeranno davanti a questi dipinti e sarà molto difficile rivederli nelle stesse condizioni. Se ne sente il respiro, se ne sentono gli odori. Nessun pittore, evitando la maniera, senza compiacimento, in una verità assoluta, è riuscito a restituirci come Caravaggio la vita. Hic et nunc. Ogni sua opera non potrebbe essere diversamente concepita, anche se lo è stata, come le due versioni della Conversione di Saulo o del San Matteo e l’angelo. Avvertendone le intrinseche diversità non riconosciamo due modi di affrontare il medesimo soggetto, ma due situazioni diverse, persino due persone diverse, anche se hanno lo stesso nome. Nessun pittore è stato più individualista di Caravaggio. Per lui sono individui anche le mele, l’uva, le foglie.
Come era giusto, a Roma, tutte le opere di Caravaggio sono rimaste nelle chiese. Le possiamo vedere nella stessa situazione in cui egli le concepì e le vide. Ma in mostra possiamo annusarlo, seguire con il pensiero il movimento del suo pennello. Perché in Caravaggio il pensiero è più veloce della pittura. La pittura deve correre, non ha tempo di fermarsi. Certo l’immagine è definita, a fuoco. Nella mente di Caravaggio si stabilisce con la realtà un rapporto fotografico. Come per Cartier-Bresson, ciò che gli interessa è «l’attimo decisivo». C’è una realtà insignificante. Ci sono anche uomini e donne, volti più o meno espressivi; ma non sono la realtà, sono presenze. La realtà è drammatica e vuole essere rappresentata nella sua complessità.
In verità, Caravaggio appena arrivato dalla Lombardia è ancora contemplativo, apollineo, ideale, come si vede in quel capolavoro, dipinto a 22-23 anni, che è il Riposo durante la fuga in Egitto (proveniente dalla galleria Doria Pamphilj). Qui la realtà è intermittente rispetto a un sogno: la si trova nell’occhio dell’asino, nelle masserizie di San Giuseppe, nei sassi e nelle foglie. Tutto il resto è sogno, con una musica celeste che arriva alle nostre orecchie. D’altra parte gli strumenti musicali ritorneranno in numerose altre opere di Caravaggio. Dal Suonatore dell’Ermitage all’Amore vincitore di Berlino. Il rapporto con il reale di Caravaggio è tale che non avvertiamo la differenza tra soggetti profani e soggetti religiosi. Possiamo dire che egli raggiunge se stesso abbastanza presto, ne I bari ora al Kimbal Art Museum di Forth Worth da cui subito si passa al pingue Bacco degli Uffizi, immagine sgradevole quanto ammirata: quando mai un ciccione sgraziato è stato rappresentato così solennemente?
Caravaggio ama le contraddizioni. Nella mostra c’è un rebus come la Conversione di Saulo, della collezione Odescalchi, così confusa e senza un centro, diversamente da quella che fu la capacità di sintesi di tutte le sue composizioni. Ma subito ritroviamo la concentrazione nell’Incoronazione di spine di Vienna dove i bruti si accaniscono contro una vittima di cui quasi non vediamo il volto. Caravaggio è alternativamente apollineo e dionisiaco. Riesce a essere apollineo, classico, nella Flagellazione di San Domenico a Napoli; e dionisiaco nella Adorazione dei pastori di Messina, immaginata in una notte senza fine sotto una capanna rotta con la Madonna distesa nel fango su un po’ di paglia. È uno dei quadri più drammatici di Caravaggio; eppure esalta l’evento fausto, non rappresenta un momento di violenza o una tragedia.
Caravaggio sente la tragedia della Storia, e la ripropone anche nelle due così diverse versioni della Cena in Emmaus, con quella così straordinariamente umana percezione della divinità di Cristo nelle persone semplici, la donna soprattutto nel dipinto di Brera; e nel pellegrino che salta sulla sedia nel dipinto di Londra. Viene da lontano e mostra meraviglie in San Giovanni Battista di Kansas City con la formidabile idea dell’ombra del braccio sul petto, a fianco del più lirico San Giovannino della galleria Corsini. Ritorna a Roma la Cattura di Dublino, tra gli ultimi capolavori scoperti del pittore.
Ma la mostra tocca il sublime con la Deposizione della Pinacoteca vaticana, di una evidenza plastica che non conobbe neppure Michelangelo nel Tondo Doni, e con l’Annunciazione di Nancy, tarda larva uscita dalla testa dolente e umiliata che vediamo nelle mani di Davide, un Golia-Caravaggio; e che è concepita come dall’altra parte della vita. Le cattive condizioni ne favoriscono l’espressività. Mai Annunciazione fu più tragica e contrastata di questa, con un angelo avvitato su se stesso e una Madonna, in basso, umiliata davanti a una alcova sconvolta. Da un’esperienza come questa appare meno misterioso il mistero dell’Immacolata concezione: è un tumulto, un sogno, una apparizione come sarebbe piaciuta a Füssli. Nei suoi anni estremi Caravaggio è capace di essere anche visionario, riproducendo una realtà non vista, la realtà interiore. Altrove i suoi angeli erano stati scugnizzi volanti, fratelli dei suoi Bacchi.
Nell’Annunciazione di Nancy l’angelo è un’apparizione da un’altra dimensione, e visto dalla parte della morte. Altrove, a Malta nella Decollazione del Battista e in Sicilia nel Seppellimento di Santa Lucia, ritroveremo il Caravaggio pittore tragico della realtà.
Qui rivediamo l’anima tormentata, il lampo improvviso della fede in chi non ha mai creduto ad altro se non a quello che si vede. Perché soltanto ciò che è reale è razionale. Ma anche per Caravaggio Dio resta inspiegabile e occorre fare i conti con ciò che non si capisce. In questo estremo margine di dubbio c’è la grandezza di Caravaggio, la forza di ciò che non si può spiegare. Neanche per chi ha avuto gli occhi aperti come lui.


© Copyright Il Giornale» del 18 febbraio 2010

Caravaggio: "Moderno" dopo quattro secoli

Impossibile sottovalutare Caravaggio, si legge tra le righe nel comunicato stampa diffuso dal Comitato nazionale per il quarto centenario della morte dell'artista lombardo, impossibile prescindere dalla sua opera visto che "il ruolo che ha ricoperto e ricopre nel panorama dell'arte occidentale è difficilmente sopravvalutabile". Artista apprezzato in vita e ancora più amato a quattro secoli dalla scomparsa, percepito come vicino al gusto della nostra epoca, che vede nelle sue tele segnate dalla dialettica ombra-luce un riflesso dello smarrimento contemporaneo e uno specchio il cui Noi, i moderni, per citare il libro in cui Alain Finkielkraut analizza tic, frasi fatte e meccanicismi della mentalità in cui siamo immersi, vediamo riflesse le nostre inquietudini e l'angoscia che riaffiora dalla tranquillità apparente del "nichilismo gaio".
Se Caravaggio è una delle griffes più vezzeggiate dai media del mondo artistico, forse il modo migliore per ricordarlo è sgombrare il campo dal superfluo, lavorando a una necessaria scrematura di studi non sufficientemente argomentati, operazioni culturali effimere e attribuzioni disinvolte. È questo l'obiettivo che si prefigge il Comitato; le celebrazioni vogliono essere l'occasione propizia per mettere in campo iniziative di alto profilo scientifico e di ampio respiro culturale fondate su solide basi metodologiche, convogliando in sé le migliori energie degli specialisti italiani e stranieri che si occupano del pittore e della produzione artistica del suo tempo.
Senza sottovalutare, ovviamente, le esigenze di una corretta divulgazione rivolta al grande pubblico: l'attività, in pieno svolgimento dal 2008, si sta concentrando in particolar modo sull'anno 2010, ricorrenza vera e propria del quarto centenario; Michelangelo Merisi muore, infatti, il 18 luglio del 1610. Tra le tante iniziative (per il programma aggiornato si veda il sito www.comitatinazionali.it) segnaliamo la giornata di studi "Caravaggio e la musica" - che si terrà il 29 settembre alla Biblioteca Braidense di Milano e sarà conclusa da un concerto di musica rinascimentale presso il conservatorio della città - e il convegno "Caravaggio e i caravaggeschi tra sacro e profano. Dalla pittura etica alla scena di genere" che si terrà in autunno a Roma presso l'Accademia dei Lincei e darà occasione agli studiosi di confrontarsi sulla figura e l'opera dell'artista; particolare attenzione sarà data all'esame dei soggetti raffigurati dal Merisi e alle tematiche ricorrenti nelle sue opere a confronto con le molteplici derivazioni prodotte dai suoi imitatori. (silvia guidi)

(©L'Osservatore Romano - 19 febbraio 2010)

Come lavorava Michelangelo Merisi (Caravaggio). Quello che i raggi X non vedevano

l 18 febbraio, per l'anniversario dei Patti Lateranensi e dell'Accordo di modifica del Concordato, a Palazzo Borromeo, sede dell'Ambasciata d'Italia presso la Santa Sede, è stato esposto il capolavoro di Caravaggio la Cena in Emmaus di Brera. Nell'occasione sono stati presentati i risultati delle indagini radiografiche e riflettografiche effettuate sul dipinto dall'Opificio delle Pietre Dure. Le scoperte derivate da tali studi - in particolare i vari pentimenti dell'artista nel corso dell'esecuzione dell'opera - sono illustrate in una pubblicazione curata da Sabina Zanardi Landi (Torino, Allemandi). Pubblichiamo stralci di uno dei testi presentati.

di Roberto Bellucci, Cecilia Frosinini e Luca Pezzati

Si dice spesso che gli avanzamenti tecnologici possano recare vantaggi anche al mondo delle ricerche umanistiche e che, in particolare, la tecnologia applicata ai beni culturali abbia molto da offrire al microcosmo un po' elitario e appartato degli storici dell'arte.
Ma mai come nel caso che presentiamo questo è stato vero. Soprattutto mai, come in questo caso, una scoperta storico-artistica è stata fortemente voluta e perseguita, in un intreccio di intuizione storica, concretezza dell'analisi delle pratiche di lavoro e avanzamento scientifico. La ricerca di un underdrawing nelle opere di Caravaggio, cioè di un segno grafico tracciato direttamente dall'artista sullo strato preparatorio dei suoi dipinti, è stata una sfida teorica, prima ancora che scientifica.
L'importanza della ricerca e della scoperta va al di là del dato specifico legato alla singola opera, ma costringe a rivedere molte delle convinzioni finora acclarate sul Merisi e sulla sua tecnica artistica. Tutta la critica sembrava infatti finora concorde sul ritenere l'assenza di disegno un assioma, se non addirittura un articolo di fede, nonostante alcuni isolati dati analitici potessero indirizzare in altro senso. L'assioma si è appoggiato spesso su una interpretazione univoca della letteratura antica, in cui biografi e commentatori, esaltandone il dipingere dalla natura, sembravano implicare o dichiarare una mancanza di disegno.
Il progressivo avvicinamento delle indagini diagnostiche all'analisi della tecnica artistica di Caravaggio, svoltosi dalla metà degli anni Settanta del Novecento in poi, aveva avuto, paradossalmente, un effetto negativo sul problema, estremizzando ancora di più i termini della questione e portando a un negazionismo pressoché assoluto della possibilità intellettuale stessa che il Merisi utilizzasse segni grafici sulla preparazione delle sue opere.
Storicamente forse la prima fra le tecniche diagnostiche applicate ai Beni Culturali, è stata la radiografia x che, a partire dagli anni Venti e Trenta del Novecento, cominciò a essere utilizzata nei maggiori laboratori di restauro del mondo. Le radiografie applicate a Caravaggio fornirono risultati immediatamente apprezzabili, ma anche forzarono l'attenzione sulle incisioni e gli abbozzi di sottocolore, enfatizzate come espediente a sostituzione del disegno grafico da parte di Caravaggio.
La tecnica di indagine radiografica è sostanzialmente ancora oggi la stessa dell'epoca della scoperta dei raggi x da parte di Wilhelm Roentgen nel 1895 e, salvo alcune importanti innovazioni applicative, la sua riuscita è demandata alla capacità dell'operatore di calibrare energia e tempo di esposizione a seconda dei materiali costitutivi dell'opera. E comunque le sue applicazioni non possono assolutamente dare risposte in termini di identificazione del segno grafico.
La riflettografia Ir, invece, nata come tecnica di laboratorio negli anni Sessanta, è l'indagine specificamente volta a ricercare il disegno preparatorio dell'opera, sottostante gli strati pittorici. Oltre a essersi affermata più tardi rispetto alla radiografia, ha per anni visto una continua evoluzione dovuta al fatto che in questo caso importante è la strumentazione e cioè il rilevatore che registra l'immagine alla profondità della lunghezza d'onda Ir. Questo fatto ha spesso disorientato gli utilizzatori che non sempre hanno compreso la possibilità di ottenere con nuove strumentazioni risultati di maggiore significato.
Il caso di Caravaggio è emblematico di questo atteggiamento: all'inizio delle ricerche tecniche sull'artista, la riflettografia non offrì risultati immediati o eclatanti come quelli della radiografia e la si abbandonò, scambiando per una risposta negativa ("non c'è un disegno preparatorio") quello che invece era un limite strumentale. I risultati oggi possibili grazie allo scanner Multi-Nir dell'Opificio delle Pietre Dure e dell'Istituto nazionale di ottica del Cnr sono quindi perseguibili su tutto il corpus dell'artista.
Ma la ricerca non si è fermata alle indagini tecniche, sembrando necessario rivedere anche, in un processo quasi inevitabile, il risultato analitico alla luce della lettura delle fonti antiche. Si è potuto così appurare come probabilmente è stato l'assioma critico ("Caravaggio non disegnava") a spingere verso una interpretazione restrittiva di testimonianze storiche che invece avrebbero l'agio di essere rilette in un'ottica diversa. Per cui, sintetizzando al massimo, nessuno dei contemporanei o degli immediati commentatori e biografi nega in realtà lo strumento grafico, quanto, nell'esaltare la novità della pittura da modello, stabilisce come prerogativa di Caravaggio la scelta di fare a meno dello studio preliminare su carta come fase preliminare a quella pittorica. Ma l'una non esclude l'altra: che egli non avesse bisogno di una lunga elaborazione della composizione e delle figure preliminarmente, ma dipingesse "alla prima", non esclude che fermasse modello e composizione sulla tela tramite segni grafici. Anzi, caso mai sembra quasi che proprio per questa assenza del supporto della elaborazione, potesse avere maggiormente bisogno di appoggiarsi a riferimenti diretti sulla tela.
A dimostrazione, infine, della necessità assoluta di sottoporre di nuovo a indagini moderne le opere di Caravaggio, sta il risultato eccezionale ottenuto sulla Cena in Emmaus di Brera. Qui la riflettografia Ir e la radiografia fanno vedere immediatamente, sulla metà sinistra del dipinto, una preliminare versione in cui una finestra, o una parte di un loggiato su quella che è oggi una parete bruna, si apriva su un paesaggio.
Ma oltre questo dato, assolutamente inedito e di straordinaria importanza per quanto riguarda le implicazioni stilistiche e la necessaria rivisitazione dei contenuti di Caravaggio ancora nel 1606, importantissimi sono anche, nel contesto della nostra specifica ricerca, i ritrovamenti di molti esempi di underdrawing in diverse aree del dipinto: dal volto del Cristo, ai volti e alle mani degli apostoli. Una conferma quindi, per quel che ci riguarda, dell'esistenza, non solo, ma anche della persistenza dell'utilizzo del segno grafico da parte di Caravaggio, ben oltre le opere giovanili.


(©L'Osservatore Romano - 19 febbraio 2010)


Nuova lettura di un celebre quadro commissionato dalla famiglia Aldobrandini

Caravaggio e la falsa Maddalena


di Tomislav Mrkonjic
Scriptor dell'Archivio Segreto Vaticano

In coincidenza col iv centenario della morte di Caravaggio (1571-1610), il libro appena pubblicato da Pietro Caiazza (Caravaggio e la falsa Maddalena, Salerno, Arci Postiglione, 2009, pagine 216, euro 20) propone una interpretazione nuova del quadro finora intitolato Marta e Maddalena, dipinto da Caravaggio a Roma negli ultimi anni del Cinquecento, e dal 1974 esposto al Detroit Institute of Arts.
Sebbene il volume sia dedicato agli interrogativi specificamente connessi con questa opera e con le circostanze storiche coeve, l'autore non manca di accennare al problema più generale relativo al significato complessivo dell'opera del pittore lombardo e alle interpretazioni che di essa sono state proposte. In tal senso, il pericolo maggiore e tuttora attuale per la lettura dell'intera produzione di Caravaggio consiste per l'autore nei tentativi di "confessionalizzare" a tutti i costi la sua pittura e di presentare l'artista come adepto della linea borromaica della Riforma cattolica (Maurizio Calvesi).
Caiazza contesta questi tentativi di arruolare Caravaggio sotto una bandiera di tipo integralista o laicista, e sostiene che l'artista fu un testimone del suo tempo e che il suo spirito libertario non consente di farlo inquadrare in uno schieramento ideologico che ne mortificherebbe il genio.
In questo contesto la discussione sulla tela, detta anche Marta che converte Maddalena, giunge alla conclusione che il quadro non rappresenta affatto le due sorelle della tradizione evangelica.
Il libro si divide in tre parti: una pars destruens nella quale l'autore annota e dibatte tutti gli elementi interni al quadro - che per lui non possono essere interpretati secondo una simbologia mistica -; una pars construens in cui emerge la figura di Donna Olimpia Aldobrandini, nipote di Clemente viii (1592-1605) e sorella del "cardinal nepote" Pietro Aldobrandini (costei fu con ogni probabilità la committente della tela e poi certamente la sua prima proprietaria); infine una pars proponens nella quale, in base a un confronto mai prima compiuto con tale acribia, Caiazza giunge a sostenere che Caravaggio deve aver realizzato quella tela dopo aver visto un originale dipinto da Tiziano a Ferrara verso il 1529-1520 per il duca Alfonso i d'Este: e ciò perché Caravaggio ha riversato nella sua tela molti elementi presenti in diverse copie di un non identificato originale proprio di quel dipinto del Tiziano.
In questo schema, la prima parte esamina i singoli elementi rappresentati da Caravaggio nell'opera, non concedendo come scontato o accettabile nulla che non abbia un supporto o un riscontro documentario o coerente con il resto della sua produzione pittorica. Così, Caiazza inizia col negare che le due donne della tela siano le due sorelle Marta e Maddalena nominate nei Vangeli e all'origine di diffuse leggende agiografiche, in particolare perché Marta sarebbe più giovane della Maddalena, mentre la tradizione iconografica dell'Occidente medievale ha sempre raffigurato Marta come la sorella maggiore. Inoltre mancano completamente i gioielli che invece sono gli elementi iconografici più costantemente rimarchevoli: ciò tanto più perché lo stesso Caravaggio, in una tela del 1608-1609 (Resurrezione di Lazzaro, Messina) rappresenta precisamente Marta come più anziana, e in una precedente tela (la Maddalena Pamphilj) aveva addirittura "finto" (come dice il Bellori) il personaggio proprio mediante l'aggiunta dei gioielli spezzati.
Caiazza segnala poi un elemento che pare difficilmente contestabile, e cioè che la dama che raffigurerebbe la Maddalena risulta in realtà vistosamente incinta, e quindi già solo per questo non potrebbe corrispondere alla Maddalena dell'iconografia tradizionale.
A questo fatto - che già di per sé risulta nuovo in quanto mai segnalato da alcun altro studioso - l'autore aggiunge una discussione su altri elementi rappresentati in modo molto puntuale da Caravaggio: da una fascia sciolta sul ventre della donna gravida (e cioè "in-cinta", senza cinta), al rametto tenuto in mano dalla dama, di fiori d'arancio che in tutta l'Europa rappresentano, dalle Crociate in poi, il simbolo della fedeltà e della prolificità nel matrimonio, alla fede d'oro matrimoniale presente precisamente all'anulare sinistro della donna: tutti elementi per i quali Caiazza rivendica una lettura aderente al significato proprio e specifico che essi mantenevano nella società romana e cristiana del XVI secolo, e che non possono essere interpretati, per l'autore, con una chiave simbolica non legittimata né da Caravaggio né da alcuna fonte documentaria. Sul vistoso specchio convesso presente nella tela, l'autore sviluppa una discussione ampia e attenta anche al fine di ricostruire, secondo le leggi dell'ottica, la provenienza della luce riflessa sullo specchio e più in generale l'uso della luce e dei riflessi fatto da Caravaggio anche in altri suoi dipinti.
Questa parte iniziale si conclude con una discussione sulla interpretazione in chiave mistica della tela avanzata nel 1975 da Frederick Cummings, e che Caiazza contesta punto per punto sia nei presupposti sia nelle conclusioni. In particolare, egli contesta l'uso che Cummings ha fatto dell'inno Pater superni luminis scritto da san Roberto Bellarmino negli ultimi anni del Cinquecento proprio per i vespri della Maddalena (22 luglio), e sostiene, ricorrendo anche ad altri testi dello stesso Bellarmino, che il Cummings avrebbe sostanzialmente falsato il senso, e anche la valenza teologica, dell'inno bellarminiano per piegarlo alla sua lettura iconologica in chiave mistica: su tale punto Caiazza sostiene che rimuovere dal momento della conversione della presunta Maddalena la figura e l'opera di Gesù sarebbe oltretutto un grave errore sotto il profilo teologico, che la cultura della riforma cattolica non avrebbe certo consentito.
Nella seconda parte del lavoro l'autore approfondisce la figura di Donna Olimpia Aldobrandini e fa notare l'importanza della nobildonna come sposa e come madre. Costei infatti sposò Gianfrancesco Aldobrandini - di altro ramo della famiglia - che fu poi comandante generale delle truppe pontificie, e al quale diede in quattordici anni di matrimonio ben dodici figli: pertanto, deduce Caiazza, era quasi costantemente incinta e non è per nulla azzardato ipotizzare che, se è stata la committente del quadro di Caravaggio, in realtà il pittore ha rappresentato nel quadro proprio le fattezze della nobildonna.
Questo lo porta ad avanzare una nuova spiegazione dello specchio convesso presente vistosamente nella tela, e che per Caiazza non ha connessione con la vanitas femminile, e quindi con Maddalena, bensì con la virtù della prudenza, come si riscontra in numerose opere precedenti e coeve all'età del Caravaggio, da Giotto a Bellini.
L'autore procede infine a un confronto tra le modelle dei vari quadri del Caravaggio, e sostiene che quella della tela di Detroit non corrisponde per nulla alle altre modelle (per esempio la famosa cortigiana Fillide Melandroni), e che con ogni probabilità in essa è rappresentata proprio Donna Olimpia incinta che fa il conto con una sua fantesca su qualcosa forse attinente al prossimo parto. In conclusione di questa parte, Caiazza propone di collegare la scena dipinta proprio alla virtù morale della prudenza e di intitolare la tela non già come Marta e Maddalena bensì come la rappresentazione della Fedeltà coniugale.
Questo ipotizzato collegamento con la figura di una sposa fedele introduce la terza parte del lavoro, che riguarda il tentativo di identificare l'opera che potrebbe essere all'origine della tela del Caravaggio. Accettato quello che generalmente la critica ritiene verosimile, e cioè che la committente del quadro fu proprio Donna Olimpia, Caiazza sostiene che la nobildonna dovette necessariamente vedere a Roma un quadro di Tiziano portato proprio nella città dei Papi o dal fratello Pietro o dallo stesso cardinale Del Monte, mecenate, protettore e ospite di Caravaggio in Palazzo Madama, in occasione della "devoluzione" del Ducato di Ferrara alla Chiesa: in tale occasione (1598) soprattutto i due cardinali, Aldobrandini e Del Monte, acquistarono o trasportarono a Roma molte opere di pittori veneti e in particolare di Tiziano. Costui, verso il 1519-1520 aveva dipinto a Ferrara per Alfonso i d'Este due quadri che rappresentavano il rapporto tra il duca e Laura Dianti.
Tiziano fece per il duca due quadri - come si usava allora nelle corti principesche - uno, che ora si trova a Washington, destinato a fruizione privata, con una donna nuda mentre fa toletta con accanto il duca Alfonso; l'altro, ufficiale, con una donna vestita ma con a fianco sempre un uomo di alto rango richiamante la figura di Alfonso.
Da questo secondo quadro di Tiziano furono ricavate fin dal 1534, anno della morte di Alfonso i, diverse copie. E tuttavia Caiazza sostiene che nessuna di loro può corrispondere al quadro originale di Tiziano che deve essere stato portato da Ferrara a Roma e qui deve essere stato visto sia da Donna Olimpia sia da Caravaggio: la nobildonna deve aver chiesto a Caravaggio di rappresentare la sua condizione di sposa fedele e prolifica così come Tiziano aveva rappresentato l'amore di Alfonso i.
Non esiste, a parere dell'autore, alcuna possibilità che tanti elementi - due personaggi, lo specchio convesso, il riflesso nello specchio, il vasello, il pettine, l'anello, il tavolo, la stessa posa della donna - siano presenti in entrambe le tele in modo indipendente gli uni dagli altri. E poiché Caravaggio era in quegli anni a Roma, deve aver visto evidentemente a Roma - sostiene Caiazza - l'originale portato dal "cardinal nepote" o dal cardinale Del Monte dopo l'impresa di Ferrara, e cioè non prima della primavera del 1598. E poiché i fiori d'arancio fioriscono solo tra maggio e giugno, deve essere nella tarda primavera del 1598 o del 1599 che Caravaggio ha visto la tela di Tiziano a Roma e ha realizzato la sua tela per Donna Olimpia, dimostrando proprio per tal via quanto egli volesse e sapesse allontanarsi e differenziarsi da Tiziano e dal "venezianismo".
Certamente il lavoro di Caiazza è destinato a suscitare interrogativi e dibattiti, dato che esso, pur focalizzato principalmente su una sola opera, in realtà rimescola complessivamente le carte relative all'interpretazione dell'opera di Caravaggio nel suo complesso, rompendo una continuità interpretativa durata quattro secoli.
Ma forse proprio in occasione del quarto centenario della morte di Caravaggio il lavoro porta non secondari elementi di discussione ed esigenze di rivisitazione che non potranno - si auspica - essere passate sotto silenzio.



(©L'Osservatore Romano - 19 febbraio 2010)

Caravaggio, Il pittore "maledetto" che capì il senso della spiritualità moderna

Gli studiosi che hanno partecipato alla preparazione della mostra "Caravaggio" - il catalogo è edito da Skira (Milano, 2010, pagine 248, euro 49) - hanno dedicato una scheda-saggio a una delle opere esposte. Pubblichiamo il contributo del direttore dei Musei Vaticani, che ricopre anche la carica di presidente della Commissione scientifica delle mostre nelle Scuderie del Quirinale.

di Antonio Paolucci

"Nella Chiesa Nuova alla man dritta c'è del suo nella seconda cappella il Christo morto, che lo vogliono seppellire con alcune figure, a olio lavorato; e questa dicono che sia la miglior opera di lui...". Così il Baglione (Giovanni Baglione, Le vite de' pittori scultori et architetti dal pontificato di Gregorio xiii dal 1572 in fino ai tempi di Papa Urbano viii nel 1642, Roma 1642, p. 137).
Che il dipinto ora nella Pinacoteca Vaticana (cm. 300 x 203) fosse il capolavoro assoluto di Caravaggio romano, lo pensavano anche i francesi che lo requisirono nel 1797 per esporlo nel Museé Napoleon di Parigi; unico fra i quadri del Merisi sottratti alle chiese della capitale. Al suo posto venne collocata una copia realizzata dal Camuccini, a sua volta sostituita nel 1818 da quella di Michael Köck ancor oggi nella chiesa.
Restituita a Roma da Parigi nel 1817, la Deposizione entrò a far parte della Pinacoteca Vaticana nelle sue varie dislocazioni fino all'ultimo allestimento curato da Biagio Biagetti e inaugurato da Papa Pio xi Ratti nel 1932.
Per il Baglione, come per i commissari francesi e come per la sensibilità e il gusto del xix secolo, la Deposizione della Chiesa Nuova era il capolavoro di Caravaggio perché fra tutti appariva come il più classico, il più nobilmente impostato sui modelli della tradizione. Anche a noi sembra tale e questo ci permette di capire meglio la formazione culturale e l'immaginario estetico del pittore.
Caravaggio è un formidabile innovatore. È il primo a far saltare la gerarchia dei generi con la sua celebre "galileiana" sentenza: "Tanta manifattura è fare un quadro buono di fiori come di figure".
È il primo a usare la luce come disvelamento, come colpo di mano sul Vero visibile. È il primo a intuire e a rappresentare la terribile moralità immanente alle cose quando il lume e l'ombra ce le fanno apparire così come sono.
Eppure la proposta rivoluzionaria di Caravaggio poggia su una catena di riferimenti stilistici ben individuabili. Il suo nome di battesimo era Michelangelo e con un altro Michelangelo, il Buonarroti da Firenze, voleva confrontarsi. Non c'è chi non veda come il corpo del "Deposto" nel quadro vaticano sia una citazione dal bellissimo nudo che sta sulle ginocchia della Vergine nella Pietà di San Pietro, scolpita dal Buonarroti più di un secolo prima. Allo stesso modo una citazione dall'affresco michelangiolesco con la Crocifissione di san Pietro nella Cappella Paolina, è l'Apostolo che ci guarda irato nel quadro di uguale soggetto che Caravaggio dipinse per la Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo.
La Discesa nel Sepolcro già in Santa Maria in Vallicella, meglio nota come Chiesa Nuova, e ora nella Pinacoteca Vaticana, è dunque consapevole riferimento a una tradizione illustre, si colloca su una linea stilistica che la rivoluzione rinnova e vivifica ma non cancella.
E ora esaminiamo con qualche attenzione la Deposizione già nella Chiesa Nuova. Cominciamo col dire, prima di tutto, che il termine iconografico con il quale il quadro è conosciuto è solo genericamente corretto. L'episodio che qui Caravaggio mette in figura è l'atto che, nel rito giudaico comune del resto a tutte le culture del Mediterraneo, immediatamente precede l'inumazione vera e propria. Il corpo di Cristo, appena disceso dalla croce, verrà spogliato, disteso sulla grande pietra ben visibile (dopo diremo del significato di quella pietra) per essere lavato, unto, profumato.
Non della pietra destinata a coprire e a sigillare il sepolcro dunque si tratta, ma del letto marmoreo, destinato ai riti funerari, che in latino veniva chiamato lapis untionis.
La tela oggi in Vaticano si trovava in una cappella minore di patronato Vittrice, sul lato destro della Chiesa Nuova. Pietro Vittrice, titolare del patronato, era morto nel 1600. Il nipote Girolamo volle onorarne la memoria commissionando il dipinto a Caravaggio il quale frequentava il circolo degli Oratoriani, custodi allora come oggi della chiesa (Luigi Spezzaferro, Il recupero del Rinascimento, in Storia dell'Arte italiana, Torino 1981, vol. vi, pp. 185-274).
All'inizio del 1600 gli Oratoriani di San Filippo Neri erano un ordine nuovo nato nello spirito della Controriforma. La loro missione si rivolgeva ai ceti urbani popolari e borghesi. Predicavano una religiosità riflessiva e personalistica che attirava i giovani, gli intellettuali, gli artisti. È nel circolo degli Oratoriani da lui frequentato che Caravaggio ebbe l'incarico di dipingere la Deposizione. È in quel clima di profonda e moderna spiritualità cattolica che prende forma e significato l'iconografia del dipinto.
Notiamo subito, in primo piano, la figura di Nicodemo che sostiene, reggendolo per le gambe, il corpo di Cristo. Volge lo sguardo verso di noi e il suo volto ha tutte le caratteristiche di un ritratto. In effetti - io credo - è il ritratto di Pietro Vittrice alla cui memoria è dedicata la tela. Posto nei panni di Nicodemo, il giudeo misericordioso che schiodò Gesù dalla croce e lo depose nel sepolcro, il defunto viene qui presentato come custode del Corpus Christi. Per questo verrà salvato.
Dietro di lui ci sono i testimoni storici della Passione e della Morte di nostro Signore. C'è il grido disperato di Maria di Cleofa che alza le braccia al cielo urlando la sua disperazione, c'è Maria Maddalena che piange tutte le sue lacrime, c'è la Madre, il volto impietrito dal dolore, c'è Giovanni l'Evangelista che cerca di sfiorare per una ultima carezza il corpo del Maestro amato.
E poi c'è la pietra, la vera silenziosa protagonista del quadro. La lastra marmorea presenta verso di noi il suo angolo e subito viene alla mente il Salmo 118: "La pietra scartata dal costruttore è diventata testata d'angolo".
In questo momento Cristo è la pietra scartata dalla storia. I suoi discepoli lo hanno abbandonato, rinnegato, si sono dispersi. La sua meravigliosa utopia è finita sulla croce e ora si dissolverà per sempre nel sepolcro. Questi pensieri, in questo momento, attraversano gli astanti e Caravaggio li rappresenta con implacabile verità.
Eppure noi sappiamo, Caravaggio sa, che su quella pietra riposa la speranza di salvezza per Pietro Vittrice e per ognuno di noi. Quando il celebrante, nel momento della consacrazione, elevava l'ostia (Hoc est enim corpus meum) essa si trovava allineata con il corpo di Cristo e con l'angolo della pietra profetica. Il messaggio non poteva essere più efficace e più immediatamente comprensibile.
"Il dirompersi delle tenebre rivelava l'accaduto e nient'altro che l'accaduto...". Così scriveva il giovane Roberto Longhi nei Quesiti caravaggeschi del 1928-1929 a proposito della rivoluzione della luce inaugurata da Caravaggio. Occorre aggiungere tuttavia che il mondo svelato dalla luce con inesorabile obiettività per il Merisi è, può essere, un mistero ontologico abitato dai segni del Sacro.
In questo senso il dipinto vaticano ha offerto alla moderna critica specialistica argomenti di riflessione e di decodificazione importanti.
Per il primo Novecento delle avanguardie e delle rivoluzioni e dunque per Roberto Longhi, Caravaggio era il peintre maudit descrittoci nel 1603 dal contemporaneo Karel van Mander ("quando ha lavorato un paio di settimane, se ne va a spasso per un mese o due con lo spadone al fianco e un servo dietro, e gira da un gioco di palla all'altro, molto incline a duellare e a far baruffe") ed era soprattutto l'alfiere di un rinnovamento artistico radicale, ideologicamente connotato in senso laico e progressista.
È stato il secondo Novecento a capire e a dimostrare che il Merisi da Caravaggio, questo personaggio irascibile e violento, frequentatore di cattive compagnie, più a suo agio fra donne di malaffare e ragazzi di vita che fra i gentiluomini e i prelati che pure lo ammiravano e lo collezionavano (i Cardinali Del Monte e Borromeo, il Marchese Giustiniani, fra gli altri) era uno spirito autenticamente religioso portatore delle idee e delle sensibilità più avanzate nella moderna estetica cristiana.
La spiritualità cattolica che i manuali chiamano della Controriforma invitava gli artisti ad aderire alla lettera e al senso della Scrittura e, allo stesso tempo, ad attualizzarne il messaggio, così da renderlo a tutti comprensibile e per tutti efficace. Nella Vocazione di Matteo di San Luigi dei Francesi, nella Madonna di Loreto di Sant'Agostino, nella Conversione di Saulo e nella Crocifissione di san Pietro di Santa Maria del Popolo, nella Morte della Vergine del Louvre, nei capolavori di Napoli, di Malta, di Siracusa, di Messina, in tutti i quadri di soggetto religioso di Caravaggio, la moralità del Vero visibile svelato dalla luce, diventa moderna epifania del Sacro, essenziale catechesi spoglia di ogni retorica.
Tutto questo lo vediamo significato in maniera mirabile nella Deposizione della Pinacoteca Vaticana.


(©L'Osservatore Romano - 18 febbraio 2010)

QUEL MASCALZONE DI CARAVAGGIO. Dal 19 febbraio a Roma la mostra che celebra i 400 anni dalla morte. Avvenuta a soli 39 anni

«Un pittore valenthuomo è uno che
sappi dipingere bene et imitar bene le cose
naturali» (Caravaggio al processo per
aver diffamato il pittore Giovanni Baglione).
[1]
Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio,
milanese di nascita e figlio di un avventuriero.
La fama lo raggiunse a Roma
dove arrivò, appena ventunenne, nel
1592. Qui il potente cardinale Dal Monte
s’innamorò della sua pittura ancora
acerba. Ospitato a Palazzo Dal Monte,
realizzò su commissione alcune celebri
opere (Giocatori di carte e Suonatore di
liuto) e trovò protettori tra le famiglie
della nobiltà pontificia (Giustiniani,
Barberini, Mattei, Borghese ecc.). Il suo
carattere rissoso e impulsivo gli causò
ben presto molti guai. Aveva già alle
spalle qualche precedente penale
quando, nel 1606, uccise in una rissa un
certo Ranuccio Tommasoni. Dopo l’omicidio
si rifugiò a Napoli, dove dipinse la
Madonna del Rosario, e poi a Malta. Nell’isola
realizzò il San Gerolamo e La decollazione
di San Giovanni Battista, poi,
avendo litigato con i Cavalieri, fuggì
nuovamente. Trascorse l’ultima parte
della vita a scappare: da Siracusa a Messina,
da Palermo a Napoli. Qui venne
raggiunto, aggredito e ferito dai sicari
dei Cavalieri di Malta. Imbarcatosi per
Porto Ercole convinto che il Papa avesse
dimenticato l’assassinio commesso a
Roma, fu arrestato. Tornato libero, malato
e disperato per aver perso la barca
con tutti i suoi averi, morì a Porto Ercole
il 18 luglio del 1610. [2]
«A li 18 luglio 1609 nel ospitale di Santa
Maria Ausiliatrice morse Caravaggio,
dipintore, per malattia» (così su un foglietto
ritrovato nei registri della parrocchia
di Sant’Erasmo a Porto Ercole.
La data della morte di Caravaggio è
spostata di un anno rispetto a quella
reale perché a Porto Ercole s’usava il
calendario mariano che faceva iniziare
l’anno dal primo settembre). [3]
Merisi nacque a Milano, non a Caravaggio.
Vittorio Pìrami, pistoiese che dopo
la pensione si è messo a studiare
storia dell’arte, pochi tempo fa ha trovato
l’atto di battesimo del pittore sfogliando
il registro della chiesa di Santo
Stefano in Brolo di Milano. Al settembre
1571 si legge: «Adi 30 fu bat(tezzato)
Michel angelo f(ilio) de D(omino)
Fermo Merixio et d(omina) Lutia de
Oratoribus / compare Fran(cesco) Sessa
». Caravaggio nasce il 29 settembre
1571, giorno di San Michele. Il giorno
dopo è battezzato. [4]
Giunto a Roma, fu introdotto dallo zio
prete Ludovico presso monsignor Pandolfo
Pucci, soprannominato dal giovane
“Monsignor Insalata” perché gli serviva
verdure come «antipasto, pasto, postpasto
e companatico». Si trasferì poi
in vicolo del Divino Amore 22, in una
casa per la quale versava alla proprietaria,
Prudenzia Bruni, quaranta scudi
(il canone medio era di venti l’anno).
Quando la Bruni lo sfrattò per mancato
pagamento, fu fatto l’inventario dei suoi
beni: in un baule di cuoio nero c’erano
un paio di pantaloni e un giubbotto
stracciati, una chitarra, un violino, due
specchi, un pugnale e un paio d’orecchini,
tutti oggetti presenti nei suoi quadri.
Alla locanda del Moro alla Maddalena
(di cui non si hanno più tracce) Caravaggio
ordinò dei carciofi all’olio, l’oste
glieli portò al burro e lui glieli tirò
addosso. Il 28 maggio 1606 in una palestra
coperta a Campo Marzio, durante
una partita di pallacorda, Caravaggio
uccise un uomo. Lo Stato Pontificio lo
condannò a morte in contumacia e lui
fuggì da Roma. [5]
Passione condivisa da Michelangelo,
Cartesio, George Friederic Handel,
Johann Wolfgang Goethe, Sant’Ignazio
di Loyola: tirar di spada. [6]
Molte critiche perché i suoi santi avevano
l’aspetto di gente comune. [7] Vittorio
Sgarbi: «I personaggi di Caravaggio
sono dannati, feriti, esclusi in una sorprendente
anticipazione di Pier Paolo
Pasolini, tra ragazzi di vita e una vita
violenta. Pittore maledetto, più nelle
opere che nella vita, Caravaggio conosce
le tenebre attraversate da una luce che
indica una speranza illusoria». [8]
Picasso, che durante un viaggio in
Italia, davanti alle Stanze di Raffaello:
«Questo si può fare». Davanti a Caravaggio:
«Questo è solo cinema». Davanti
alla Cappella Sistina: «Questo è
più difficile». [9]
A 23 anni Caravaggio dipinge la Maddalena
penitente. “Capelli rosci et lunghi”,
la Maddalena fu ispirata da Annuccia
Bianchini, figlia di un bovaro arrivata
da Siena a Roma con madre e sorella
nell’inverno del 1594. Francesca
Bonazzoli: «Lena fa la puttana, come la
madre e la sorella, ma non d’infimo
rango [...] È diversa: è intelligente e a 17
anni, forse meno, è l’amante di Cesare
Barattieri, gentiluomo del cardinale
Farnese, che la introduce anche nel letto
del cardinale Alessandro Peretti
Montalto e poi in quello di monsignor
Melchiorre Crescenzi […] La notte del 2
novembre 1604 gli sbirri la sorprendono
nei paraggi della sua vecchia casa al
Corso; e sempre lì, nei pressi di quell’alcova,
il 18 novembre viene fermato
Caravaggio. […] I due giovani continuano
a vedersi perché Michelangelo non
si sta solo godendo la Lena, le sta facendo
anche il ritratto, nelle vesti della
Madonna di Loreto, e per di più assieme
al piccolo Paolo (suo figlio, ndr), che
ormai ha due anni. […] Il suo volto, e il
suo splendido collo, le gambe lunghe e
flessuose e persino il suo Paolo, il figlio
di un galeotto, sono su un altare nella
chiesa degli Agostiniani, a due passi da
piazza Navona. Tutto il popolo accorre
a vederla e fa “estremo schiamazzo”.
[…] Una bella sfida a Clemente VIII,
quei loro piedi sporchi e piagati in primo
piano, quegli stracci che indossano
come i vagabondi che il papa spedisce
nelle galere». [10]
La maturazione di Caravaggio verso
uno stile ancora più personale è evidente
soprattutto nei dipinti della cappella
Contarelli in San Luigi dei Francesi a
Roma per la quale, a partire dal 1599,
Caravaggio realizza la Vocazione di San
Matteo, il Martirio di San Matteo e San
Matteo e l’angelo. Di quest’ultimo, andato
perduto, ne esistevano due versioni:
la prima fu rifiutata perché rappresentava
un San Matteo popolano in atteggiamento
ritenuto scandaloso. Prima di
compiere quest’opera Caravaggio riceve
commissioni per due dipinti per la
cappella Cerasi di Santa Maria del Popolo,
Crocifissione di San Pietro e la Conversione
di San Paolo. Anche in questo
caso il pittore interpreta gli avvenimenti
sacri come fatti semplicemente
umani, eliminando ogni richiamo a
schemi prefissati. [11]
«Avendo egli terminato il quadro di
mezzo di San Matteo e postolo su l’altare,
fu tolto via dai Preti, con dire che quella
figura non aveva decoro, né aspetto
di santo, stando à sedere con le gambe
incavalcate, e co’ piedi rozzamente
esposti al popolo» (così Giovanni Pietro
Bellori sul rifiuto della pala di San Matteo
e l’Angelo). [12]
L’editore Giulio Einaudi, che durante
il funerale di Gadda a Santa Maria del
Popolo si alzò per andare a vedere i dipinti
di Caravaggio. Tutti sentirono risuonare
le monetine infilate nell’impianto
di illuminazione a pagamento.
[13]
Quando dipinge Amor Vincit Omnia
(1602 - 1603) Caravaggio ha da poco compiuto
trent’anni. È nel pieno della maturità
artistica, vive a Roma e dipinge
per il marchese Vincenzo Giustiniani. A
palazzo Giustiniani il quadro è posto su
un cavalletto alla fine della galleria privata,
coperto da una tenda di seta verde
scuro sia per non togliere suspence al visitatore
sia per non offuscare le altre
rarità esposte. [14]
Tra il 1606 e il 1608 Caravaggio vive
prima a Napoli, poi a Malta dove dipinge
la Decollazione del Battista, il suo quadro
più grande per dimensioni. Espulso
dall’ordine dei cavalieri di Malta, fugge
a Siracusa dove dipinge il Seppellimento
di Santa Lucia, «forse l’opera più tragica
mai dipinta» [8], poi si trasferisce a
Messina. [11]
Caravaggio ha lasciato due sole firme.
Fabio Isman: «Una, mutila e lacunosa
(Frater Michel), intrisa nel sangue della
drammatica Decollazione di Malta, e l’altra
su una ricevuta di pagamento; ma
nessun autografo, nessuna manifestazione
del pensiero, se non le opere e i
capolavori». [15]
Caravaggio potrebbe aver ritratto se
stesso in molte sue opere. Rossella Vodret,
soprintendente al polo museale
romano e curatrice della mostra dedicata
al Merisi (24 opere in esposizione)
dal prossimo 19 febbraio alle Scuderie
del Quirinale: «Mi sono chiesta da quale
prospettiva aveva potuto ritrarre
Narciso e il suo riflesso nell’acqua perché
da un punto di vista esterno l’immagine
di un modello che si specchia
nella posizione di Narciso è completamente
diversa da come l’ha dipinta Caravaggio.
È chiaro che non poteva essere
stato il punto di vista del pittore
mentre dipingeva la tela». Vodret ha cominciato
a giocare con gli specchi che,
come raccontano i documenti, erano tra
le poche suppellettili dello studio del
Merisi. «Una domenica ho posizionato
due specchi come immaginavo che
avesse fatto Caravaggio e ho chiesto a
mio marito di fare da modello. Il risultato
è stato identico a quello del quadro.
È evidente che l’artista, mentre si
specchia, si sta al tempo stesso ritraendo,
la mano che sfiora l’acqua doveva in
pratica reggere il pennello». La soprintendente
ha ora avviato un progetto per
stabilire, attraverso l’indagine scientifica,
se siano autoritratti alcuni volti individuati,
compresa la figura di Plutone,
nudo in piedi su uno specchio, dipinta
sulla volta del camerino alchemico
del cardinal Del Monte. [16]
La lettura a infrarossi ha permesso di
capire che tra il 1596 e il 1597 Caravaggio
rappresentò se stesso nella brocca
sulla piccola tela (95 x 85 cm) di Bacco.
Mina Gregori, una delle maggiori studiose
del pittore: «Nella caraffa alla
destra di Bacco Caravaggio dipinse la
sagoma di un personaggio in posizione
eretta, con un braccio sporgente in
avanti verso un cavalletto da pittore
con sopra una tela. Di questa sagoma
sono distinguibili i lineamenti del volto,
in particolare naso e occhi. Per me
è il suo autoritratto mentre stava dipingendo.
Anche il Merisi, infatti, dipingeva
utilizzando gli specchi nei quali
si rifletteva». Ulteriore conferma arriva
da Giovanni Pietro Baglione che
ne Le vite de’ Pittori, Scultori, Architetti
ed Intagliatori del 1642 raccontava che
il Merisi «fece alcuni quadretti da lui
nello specchio ritratti. Et il primo fu un
Bacco con alcuni grappoli d’uve diverse
». [17] Nella testa di Golia del Davide
con la testa di Golia, dipinto per il cardinal
Scipione, tutti vedono uno dei
molti autoritratti di Caravaggio. Vodret
ne ha individuati altri: «Due nel Casino
Ludovisi; e forse anche l’Oloferne nella
Giuditta della Borghese: quadro raffinatissimo,
in cui lei, bocca aperta,
prega come è scritto nella Bibbia Clementina
del 1592». [15]
Per dipingere, Caravaggio, Van Dyck,
Vermeer, Memling, Raffaello, Giorgione,
Bronzino, Velàzques e Ingres usavano
sistemi ottici fatti di specchi e lenti con
cui proiettavano le immagini sulla tela
e poi ne seguivano le linee con pennelli
e colori. La scoperta che Caravaggio
fosse un artista del ricalco risale al 1994
quando Roberta Lapucci, docente all’Università
di Firenze e grande specialista
di restauro, pubblicò un articolo
intitolato Caravaggio e i quadretti nello
specchio ritratti, cui fecero seguito Caravaggio
e i fenomeni ottici e Caravaggio e
l’ottica, pubblicato nel 2005. [18]
«Dopo Giotto e dopo Masaccio, Caravaggio
riafferma il principio secondo cui
non concetti astratti o prevenute concezioni
filosofiche siano da collocare sulla
tela, ma la conoscenza della realtà, le
cose come esse sono, indagate ed esplorate
nelle loro relazioni di luogo, spazio,
luce» (Renato Guttuso). [19]
Il giorno dopo la sua morte, Caravaggio
è sepolto nel cimitero San Sebastiano
di Porto D’Ercole. Marco Gasperetti: «È
un luogo di periferia, sabbioso e ventoso,
davanti a una grande spiaggia. Qui
veniva sepolta la gente comune: artigiani,
pescatori, soldati, forestieri. Trascorrono
quasi 400 anni di quiete quando
nel 1956, durante lavori alla strada,
vengono alla luce alcune tombe. E tra
queste alcune c’è quella del Caravaggio.
Sulla cassa c’è una targa con il nome
del pittore e la data della morte. La
scoperta sorprendentemente passa
inosservata e le ossa, collocate in una
cassetta più piccola, sono traslate dall’allora
parroco, don Mariano Sabatini
(che custodisce anche l’atto di morte
del pittore), chi dice nella chiesa di
Sant’Erasmo e custodite nella cripta,
chi afferma nel nuovo cimitero di Porto
Ercole in una delle tre cripte della
chiesa dove si sta scavando oggi. Poco
dopo don Mariano muore e si porta con
sé il segreto della tomba del Caravaggio
» [20].
Gli scavi nella cripta dell’antico cimitero
hanno permesso di individuare i resti
di 17 individui. Di questi, nove, riconducibili
a quarantenni dalla costituzione
robusta e dall’altezza media, hanno
mostrato caratteri simili a quelli di
Caravaggio, ricostruiti con documenti di
archivio. Grazie ad alcuni esami biologici
e genetici, presto si potrebbero conoscere
le cause, forse sifilide, forse avvelenamento
da piombo, che uccisero il
dipintore a soli 39 anni. [20]
«Professavasi egli tanto ubbidiente al
modello, che non si faceva propria ne meno
una pennellata, la quale diceva non
essere sua, ma della natura; e sdegnando
ogn’ altro precetto, riputava sommo
artificio il non essere obligato all’arte.
(...) Il Caravaggio non apprezzava altri
che se stesso, chiamandosi egli fido,
unico imitatore della natura; con tutto
ciò molte, e le megliori parti gli mancavano,
perche non erano in lui, né invenzione,
né decoro, né disegno, né
scienza alcuna della pittura, mentre tolto
da gli occhi suoi il modello restavano
vacui la mano, e l’ingegno. Molti nondimeno
invaghiti della sua maniera, l’abbracciavano
volentieri, poiche senz’altro
studio, e fatica si facilitavano la via
al copiare il naturale, seguitando li corpi
vulgari, e senza bellezza». [12]

(a cura di Marzia Amico)


Note: [1] Roberto Longhi, Corriere della Sera
13/10/2005; [2] Marco Bona Castellotti e Marco Carminati,
Il Sole 24 Ore 21/1/2001; Fiorella Minervino, La Stampa
del 22/1/2001; Virginia Lupi, Il Mattino 25 /1/2001; Claudio
Strinati, la Repubblica 24/1/2001; [3] Marco Bussagli, Avvenire
21/12/2001; [4] Sergio Romano, Corriere della Sera
26/2/2007; [5] Vania Colasanti, Corriere della Sera
15/4/2001; [6] Paolo Passarini, La Stampa 25/2/2003; [7] Paolo
Vagheggi, la Repubblica 22/12/2003; [8] Vittorio Sgarbi,
Panorama 12/2; [9] Mario Perazzi, Io Donna 8/9/2001; [10]
Francesca Bonazzoli, Corriere della Sera 13/10/2005; [11]
Francesca Cappelletti, Caravaggio Un ritratto somigliante,
Electa 2009; [12] Le vite de’ pittori, scultori et architetti
moderni, Giovanni Pietro Bellori, 1672; [13] Ernesto Ferrero,
I migliori anni della nostra vita, Feltrinelli, 2005; [14]
Marina Mojana, Il Sole 24 Ore 22/8/2005; [15] Fabio Isman,
Il Messaggero 13/2; [16] Lauretta Colonnelli, Corriere della
Sera 13/2; [17] Pierluigi Panza, Corriere della Sera
30/10/2009; [18]] Viviano Domenici, Corriere della Sera
25/4/2006; [19] Renato Guttuso, introduzione de L’opera
completa del Caravaggio, Rizzoli, 1967; [20] Marco Gasperetti,
Corriere della Sera 12/2.


Il Foglio 15 febbraio 2010

Caravaggio: quando l’arte sacra salva l’anima di un peccatore

di Marialuisa Viglione
Tratto dal sito ZENIT, Agenzia di notizie il 31 dicembre 2009

A 400 anni dalla morte di Caravaggio (1610), registi, autori, scrittori, critici d’arte e semplici fan gli rendono omaggio: con un libro, con un film, con mostre ad hoc, o - chi se lo può permettere - visitando i musei del mondo che custodiscono i suoi capolavori.

Ma c’è un modo più facile per conoscere la figura di questo straordinario artista. Tutte le immagini che lo riguardano sono pubblicate nel libro di Rodolfo Papa “Lo stupore nell‘arte. Caravaggio”, fresco di stampa, edito dalla casa editrice Arsenale.

Lo storico dell’arte ci aiuta ad approfondire in 336 pagine la complessità dell’artista mettendoci a disposizione vita, relazioni e opere, in un libro facile da leggere, sia per lo stile discorsivo, sia perché ci troviamo di fronte tutti i quadri di cui si parla.

E non solo i capolavori di Caravaggio, ma anche dei maestri suoi contemporanei e di quelli antichi da cui l’artista ha attinto per ripresentare quegli stessi segni in modo unico.

Le immagini sono straordinarie e raccontate nei dettagli iconografici storici e teologici, con riferimenti alla storia dell‘arte e alla simbologia cristiana. L’approccio è scientifico e innovativo

L’autore descrive anche per filo e per segno la vita e gli incontri, gli scontri dell’artista. C’è tanto materiale per la sceneggiatura di un film.

Secondo Papa - documenti d’archivio alla mano e lettura dell’opera da parte di uno storico-teologo - Caravaggio ha molto da dire ai pittori e ai cristiani di sempre.

Il suo lavoro è coltissimo, ripropone i segni della Sistina (le mani di Dio e di Adamo), della Pietà e di tante altre opere, rilette in chiave moderna e naturalistica e rinnovate in un nuovo modo di intendere la pittura, rafforzando il messaggio della Chiesa.

Il suo operare rientra nell’ambito della catechesi della Controriforma.

Allora perché la leggenda nera sull’artista? Invidie, incomprensioni dei contemporanei manieristi, e necessità di creare un personaggio con le caratteristiche del “genio e sregolatezza”.

Un Caravaggio non vero, ma che deve sottostare alla cultura dominante dei vari secoli.

Leggere questo libro significa capire chi era davvero questo pittore: dai primi tempi a Milano, alla collaborazione con le botteghe di Roma, sino alla creazione di quello che è poi diventato, amato, pagatissimo, pieno di zelo per affermare la dottrina cattolica con le immagini.

“La cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi - spiega Papa - è il trionfo del cattolicesimo, del rapporto tra la libertà e la grazia, negato, all’epoca, dai protestanti. E rappresenta a Roma la conversione al cattolicesimo di Enrico IV, ugonotto”.

L’assassino di Matteo è lo stesso Adamo della Cappella Sistina, in piedi, tracotante, pieno di superbia: rappresenta il peccato originale, che ostacola la grazia, trattenendo la mano del santo.

Matteo quando scrive il Vangelo ha i piedi che barcollano, non è sicuro, ma la mente è liberamente volta al cielo, in attesa di ispirazione, della grazia.

C’è anche tutta l’interpretazione che 16 anni fa lo stesso Rodolfo Papa ha fatto di Isacco e l’ariete, fino a quel periodo considerato il San Giovannino.

L’autore spiega con i documenti, ma soprattutto con la lettura attenta del dipinto, perché quello è Isacco.

Proprio come scrisse Sant’Agostino, che Caravaggio conosceva bene: è la rappresentazione di Cristo nell’abbraccio tra Isacco (la vita) e l’ariete (la morte).

E poi anche i giochi, i divertimenti del Caravaggio, dal Bacchino malato, al cesto di frutta, a Bacco che invita il principe astemio a bere nel calice.

La novità è che questo volume raccoglie tutti gli interventi approfonditi di Rodolfo Papa sull’opera e la vita di Caravaggio.

Il successo di questo genio della pittura? In tutta la vita cerca di dipingere la verità. I suoi lavori, che ci appaiono così naturali e spontanei, sono frutto di studio, di riletture dei grandi che lo precedettero.

E’ un artista-teologo che cerca di spiegare con immagini chi è Gesù, cosa significa grazia e quale rapporto ha con la libertà, il mistero della resurrezione, il rapporto vita e morte nella Deposizione, un artista che vuole rappresentare la Vergine con fede, dottrina profondissima e creatività nuova.

Leggere il libro di Papa significa penetrare Caravaggio nella sua genialità e anche la dottrina cattolica.

Caravaggio 400 anni di luce

Nel 2010 saranno quattrocento anni dalla morte di Michelangelo Merisi detto, dal paese di origine della sua famiglia, il Caravaggio. Vale la pena di rievocare gli episodi che precedono la sua tragica fine.
Nell’ottobre del 1608 il pittore riesce ad evadere dal carcere di Malta.
Fra’ Alof de Wignacourt, Gran Maestro dell’Ordine, dopo averlo ricoperto di onori, nominato Cavaliere e incaricato di importanti commissioni per la cattedrale de La Valletta ( il
San Gerolamo , la Decollazione del Battista)
ora lo odia e vuole la sua morte.
Le ragioni in parte le conosciamo, in parte possiamo immaginarle. Caravaggio era venuto a furibonda lite con un « Cavaliere di giustizia » , il potente aristocratico Gerolamo Varays. Forse aveva commesso qualcosa di ancora più grave. Forse il Wignacourt era stato informato dei precedenti penali del pittore. Fatto sta che Caravaggio viene espulso dall’Ordine « tamquam membrum putridum et foetidum » e cacciato in prigione in attesa di giudizio.
Il Merisi riesce a lasciare Malta dopo una rocambolesca fuga e ad approdare in Sicilia. Gli ultimi due anni della sua vita ( 1608- 1610) saranno un peregrinare inquieto affannoso e tuttavia costellato di capolavori fra Siracusa (
Seppellimento di Santa Lucia ),
Messina (
Adorazione dei Pastori ),
Palermo (
Natività ) e Napoli dove sfugge a un attentato dei sicari di Wignacourt che lo lasciano malamente sfregiato al viso.
Ormai Caravaggio è un uomo finito.
Braccato dai suoi nemici, consumato dalle febbri malariche, si imbarca a Napoli per Roma. Sperava di ottenere il perdono del Papa e la remissione del bando di esilio. La morte lo colse solo, privo di ogni umana assistenza, nel presidio spagnolo di Porto Ercole, vicino a Grosseto, il 18 luglio 1610. Non aveva ancora quarant’anni.
Dieci giorni dopo, alla Corte Pontificia di Roma, dove qualcuno stava lavorando a preparare il documento di perdono giudiziale, arriva la ferale notizia: « Si è avuto avviso della morte di Michel Angelo Caravaggio, pittore famoso et eccellentissimo nel colorire et ritratte dal naturale » .

S
e facciamo precedere la tragica fine di Caravaggio dalle notizie di processi, duelli, ferimenti e persino un omicidio con conseguenti condanne di galera e di bando che costellano la sua biografia, ne viene fuori la sceneggiatura di un film straordinariamente coinvolgente ed
emozionante.
Il pittore ci apparirà come lo descrive, nel 1603, il contemporaneo Carel van Mander: « quando ha lavorato un paio di settimane, se ne va a spasso per un mese o due con lo spadone al fianco e un servo dietro, e gira da un gioco di palla all’altro, molto incline a duellare e a far baruffe » . Eppure questo personaggio irascibile e violento, frequentatore di cattive compagnie, più a suo agio fra donne di malaffare e ragazzi di vita che fra i gentiluomini e i prelati che pure lo ammiravano e lo collezionavano ( i cardinali Borromeo e Del Monte, il marchese Giustiniani, fra gli altri) era uno spirito autenticamente religioso.
La spiritualità cattolica che i manuali chiamano della Controriforma invitava gli artisti ad aderire alla lettera e al senso delle Scritture e, allo stesso tempo, ad attualizzarne il messaggio, così da renderlo a tutti comprensibile e per tutti efficace.
Nella
Vocazione di Matteo di San Luigi dei Francesi, nella Madonna di Loreto di Sant’Agostino, nella Maddalena penitente
della Doria Pamphili, nella
Conversione di Saulo e nella Crocifissione di San Pietro di Santa Maria del Popolo, in tutti i quadri di soggetto religioso di Caravaggio, la terribile moralità del Vero visibile svelato dalla luce, diventa moderna epifania del Sacro, essenziale catechesi spoglia di ogni retorica.

T
utto questo lo vediamo significato in maniera mirabile nella
Deposizione della Pinacoteca Vaticana. Il dipinto stava in origine nella cappella di patronato Vittrice in Santa Maria in Vallicella di Roma, meglio nota come Chiesa Nuova, allora come oggi affidata agli Oratoriani di San Filippo Neri.
Gli Oratoriani erano un ordine nuovo nato nello spirito della Controriforma. La loro missione si rivolgeva ai ceti urbani popolari e borghesi. Predicavano una religiosità riflessiva e personalistica che attirava i giovani, gli intellettuali, gli artisti. È nel circolo degli Oratoriani da lui frequentato che Caravaggio ebbe l’incarico di dipingere la
Deposizione.
La tela, collocata sull’altare di una piccola cappella, aveva un significato memoriale e funerario. Il committente Girolamo Vittrice voleva onorare, con quella, il ricordo dello zio Pietro, morto il 26 marzo del 1600. Nel 1604 il dipinto era già in opera sopra l’altare.
Ed ora entriamo nel quadro che il Merisi deve aver dipinto fra il 1602 e il 1603 nel periodo più tranquillo e produttivo della sua vita tempestosa.
Tutti lo conosciamo come
Deposizione . In realtà non di deposizione nel sepolcro si tratta, ma del rito che, nella tradizione giudaica, preparava la inumazione vera e propria. Cristo è stato appena schiodato dalla croce. Il suo corpo bellissimo ( è qui evidente l’omaggio alla Pietà di Michelangelo in San Pietro) è sostenuto da Nicodemo, uno dei due giudei ( l’altro è Giuseppe d’Arimatea) che secondo i Vangeli, si assunsero il compito misericordioso della sepoltura.

I
l volto dell’uomo anziano in primo piano, in figura di Nicodemo, è caratterizzato come un ritratto. Di un ritratto io credo si tratti perché il giudeo pietoso altri non è che il defunto Pietro Vittrice, il quale vuole qui testimoniare, davanti all’ultimo giudizio, la sua fedeltà al «
Corpus Christi » .
In secondo piano ci sono i testimoni storici della Passione: Maria di Cleofa che alza le braccia in un urlo disperato, Maddalena che piange tutte le sue lacrime, il volto di Maria impietrito dal dolore, Giovanni l’Evangelista piegato sul corpo del
Salvatore per un’ultima carezza.
Ciò che immediatamente colpisce è la pesante lastra di pietra che porta in avanti il suo angolo. Non si tratta della pietra che coprirà e sigillerà il sepolcro. Essa è, piuttosto, il «
lapis untionis » il letto cioè dove fra un attimo verrà adagiato il corpo per essere lavato, unto e profumato.
Cristo è stato sconfitto dalla storia, i suoi discepoli sono fuggiti, lo hanno rinnegato, si sono dispersi. Non restano che lo strazio per il figlio morto, per il Maestro amato, per l’amico perduto. Tutto è finito.
«
Consumatum est » . Sono questi i pensieri che attraversano gli astanti al pietoso rito e Caravaggio li rappresenta con desolata implacabile verità.
Ma ecco l’incursione profetica significata dal Salmo 118: « La pietra scartata dal costruttore è diventata testata d’angolo » .
Per questo motivo la pietra posta in prospettiva angolare emerge con tanta evidenza fino a diventare la silenziosa protagonista del quadro. Cristo, la pietra scartata, è diventato l’angolo sul quale saldamente poggia la sua Chiesa. Sulla pietra scartata riposa la speranza di salvezza per Pietro Vittrice e per ognuno.
Quando, nel momento della Comunione, l’officiante alzava il calice, i fedeli lo vedevano allineato con l’angolo della pietra. Il messaggio non poteva essere più efficace.
« Il dirompersi delle tenebre rivelava l’accaduto e nient’altro che l’accaduto » .
Così scriveva il giovane Roberto Longhi nei
Quesiti caravaggeschi del 1928- 29 a proposito della rivoluzione della luce inaugurata da Caravaggio. Occorre aggiungere tuttavia che il mondo svelato dalla luce con inesorabile obiettività per Caravaggio è ( può essere) un mistero ontologico abitato dai segni del Sacro.
Questo personaggio irascibile e violento, frequentatore di cattive compagnie, più a suo agio fra donne di malaffare e ragazzi di vita che fra i gentiluomini e i prelati che pure lo ammiravano e lo collezionavano (i cardinali Borromeo e Del Monte, il marchese Giustiniani, fra gli altri) era uno spirito autenticamente religioso




CARAVAGGIO, «DEPOSIZIONE», OLIO SU TELA, CM 300 X 203, REALIZZATO TRA IL 1602 ED IL 1604, CONSERVATO ALLA PINACOTECA VATICANA (FOTO SCALA)



CARAVAGGIO IN UN FAMOSO RITRATTO DI OTTAVIO LEONI



CARAVAGGIO «ADORAZIONE DEI PASTORI», IN RESTAURO ALLA CAMERA DEI DEPUTATI (AP PHOTO/GREGORIO BORGIA)

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