DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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India, controllo delle nascite e problemi con la dote

In tutto il subcontinente indiano è drammatico il numero di infanticidi di neonate. Ora tale numero è pure schizzato, perché con la diagnosi prenatale si può conoscere in anticipo il sesso del nascituro, con impennata degli aborti selettivi. E il governo indiano si ritrova con 10 milioni di maschi in eccedenza. Il problema (anche nel Bangladesh) è la dote: le famiglie si indebitano e molte finiscono in miseria. Le mogli i cui genitori non riescono a saldare il debito dotale vengono maltrattate, talvolta uccise o sfigurate con l’acido. Anche nel famoso film “La città della gioia” (tratto da un fortunato bestseller) si vede un poveraccio che, con l’acqua fino al petto, tira il risciò per dotare le figlie.

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Cinquant’anni di Pillola non ci hanno portato la felicità. Giuliano Ferrara

Ho letto un bell’articolo di Time sui cinquant’anni della pillola, anzi la Pillola. Quella che Paolo VI condannò, con grande scandalo e dolore, contro il parere della gerarchia che aveva appena chiuso il Vaticano II e voleva aprire al mondo. Quella che l’Economist definì dieci anni fa “il più importante progresso scientifico del Novecento”. Il pezzo è ben fatto, ma ideologico. Dice che la Pillola fa bene contro il cancro e il mal di cuore, e lascia al dubbio di molti le eventuali controindicazioni mediche. Stabilisce un collegamento tra la Pillola e l’esplosione delle libertà: dal razzismo, dal sessismo e patriarcalismo machista, dalla presa autoritaria dei vecchi sui giovani, dall’invadenza della chiesa in fatti della coscienza pubblica e dello stato. Pillola come bandiera. Bandiera del lavoro femminile, dell’eguaglianza delle opportunità tra i sessi a partire dall’istruzione nelle Università, di un controllo delle nascite inteso come grande guerra di valori contro un natalismo oppressivo della condizione della donna eccetera.

Va bene, va bene. E’ anche vero che non si possono attribuire alla Pillola tutti gli squilibri di cui magari ci si potrebbe perfino lamentare, a voler essere bigotti e antimoderni. Non è colpa della Pillola se si registra una certa perdita di senso della famiglia biparentale tradizionale, del matrimonio e dell’educazione come progetto di vita e di successione delle generazioni, per non parlare dell’aborto e del nostro progressivo ottundimento morale nei suoi confronti. Inutile prendersela con lei, la Pillola, per la manipolazione genetica della vita come altra faccia dell’idea che i figli sono fabbricabili, sono prodotti facoltativi, compresa la deriva dell’eugenetica e della pianificazione familiare omicida come in Asia. Insomma, facciamo finta che l’unica conseguenza della Pillola sia stato un vento di liberazione, di autonomia, di presa di possesso di se stesse per le donne non più condannate al ruolo riproduttivo cosiddetto. Facciamo finta di niente, lasciamo che si compia il ciclo ideologico liberal, non roviniamo la festa di compleanno della Contraccezione.

Resta il fatto che il sesso senza conseguenze, avallato dal “primo medicinale assunto regolarmente per una ragione diversa dalla cura di una malattia” (Time), non ha prodotto quel mondo estatico, edonistico, eudaimonistico, quel mondo piacevole e felice che si era immaginato, e che sembrava suggellato dal sorriso stupefacente dei figli dei fiori o dalla carnalità metaconcertistica avvoltolata nel fango creativo di Woodstock. La mentalità femminista mette a buon diritto l’accento sull’angoscia del restare incinte sanata dalla Pillola insieme a molte altre preoccupazioni sociali e di sviluppo di una personalità libera. D’accordo. Ma le altre angosce? L’altro dolore?

Ernest Hemingway diceva che è moralmente cattivo un atto che non ti soddisfa, moralmente buono il suo contrario. Va bene, ammettiamo che sia così, che questo brocardo del relativismo esprima una relazione di causa ed effetto bronzea, necessaria, infallibile. Siamo soddisfatti? Cinquant’anni dopo la rivoluzione tecnomedica che ha separato il sesso dalle sue conseguenze, e l’eros dalla sua specifica virtù di carità e di amore, direi che sarebbe responsabile, e anche ragionevole, riflettere sul grado di soddisfazione media rintracciabile nelle società secolarizzate integralmente e spesso totalitariamente. Non mi sembra altissimo, francamente. I progressi ci sono stati, eppure non è l’incanto della libertà, ma il suo fantasma buñueliano, che ci segue come un’ombra. E se anche sarebbe impensabile tornare indietro, in un certo senso, ciascuno dentro di sé cerca lo spazio di coraggio e di curiosità per interrogarsi su come andare avanti. Thomas Mann diceva che l’umanità ha un “udito fine”, nonostante tutto, ed io ci credo. Si può fare di meglio, sembrerebbe, nell’ambizione di viver felici. Parecchio meglio.

Giuliano Ferrara

La cena dei cretini. La Francia rivoluzionariaFrancia rivoluzionaria si macchiò 200 anni fa degli stessi crimini che si è soliti associare al nazismo

di Marco Respinti



Si apprestava il Bicentenaire della rivoluzione di Francia e Jean Dumont – storico scomparso nel 2001 di cui la Francia farebbe bene a menare più vanto – pubblicò un pamphlet urticante, Pourquoi nous ne célèbrerons pas 1789 (ARGÉ, Bagneux 1987). Fu tradotto come I falsi miti della Rivoluzione francese (prefazione di Giovanni Cantoni, Effedieffe, Milano 1990), ma è il titolo originale a essere significativo: perché sarebbe meglio non celebrare l’Ottantanove come l’alba del “mondo nuovo”.
Dumont si permise l’invettiva perché era un vero topo di biblioteca, uno studioso carico di importanti scoperte documentali. E così, dettagliate le proprie affermazioni lungo un’intera carriera, sciorinò in questo opuscolo “di battaglia” le inibizioni derivate alla società occidentale dalla rivoluzione francese e fortificate dalla cultura che ne derivò nei secoli seguenti.
Ovvero: il falso mito della “modernizzazione decisiva” rispetto ai presunti cascami del passato, quello del “popolo al potere” e quello della sua finalmente conquistata “felicità”. Poi mise in luce l’incapacità della cultura postrivoluzionaria di garantire le libertà sociali e le autonomie per colpa di uno statalismo opprimente e di un nazionalismo aggressivo. Infine la falsità egualitaristica e l’invenzione del terrore poliziesco come strumento di governo quotidiano.
Talché le parole proferite nel 1989 dall’arcivescovo di Bologna Giacomo Biffi – la rivoluzione francese ci ha lasciato solo il sistema metrico decimale – sono di più di una semplice boutade.
Il “secolo lungo”
Ma se l’Ottantanove ha prodotto macerie, la philosophie che lo precedette lungo il “secolo francese”, dichiarandosi lume venuto a rischiarare l’antro tenebroso e fetido della superstizione e del servaggio (per dirla con Edgar Quinet), ha invece consegnato alla posterità retaggi profondi e purtroppo duraturi sull’intera cultura progressista, cioè, quella che per lo più oggi domina. Così che, nonostante la definizione di «secolo breve» di Eric Hobsbawm, il Novecento dei noti abissi appare, in verità come “secolo lungo”, apertosi più di 200 anni fa in Francia.
E tra le molte venature di questo lascito, tra le pieghe del suo razionalismo, nei solchi del suo democraticismo, nelle filière del suo egualitarismo, nei meandri del suo statalismo e tra le ans(i)e del suo laicismo, spunta pure, orrendo e raccapricciante, il razzismo.
Sì, il razzismo: quello che, anche ammesso di voler perdonare tutto ai Lumi e alla rivoluzione, mai si penserebbe di collegare al Settecento francese. Perché cozza con la triade libertè, egalitè, fraternitè; perché contrasta con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino; perché in urto con la sua retorica emancipazionista, liberazionista e universalista.
Ma non è così. Già da qualche anno in Francia lo storico Jean de Viguerie (cfr. il Domenicale 16 ottobre 2004) e oggi in Italia Marco Marsilio con il volume Razzismo, un’origine illuminista (prefazione di Gianni Scipione Rossi, Vallecchi, Firenze 2006) documentano il contrario. Il razzismo fece parte a pieno titolo del pensiero illuminista, non ne contraddice affatto i canoni e anzi fu un perno centrale di quel “pensiero nuovo” che mirò a travolgere duemila anni di riflessione culturale.
Fu infatti la philosophie che, tra sensismo, meccanicismo e materialismo incipienti, ridusse l’essere umano a specie tra le specie, inserendone la vicenda temporale nell’ambito della mera storia naturale e quindi sottoponendolo a classificazioni e tassonomie quasi fosse una pianta o una bestia qualsiasi. A ciò si accompagnò una critica sempre più serrata della narrazione biblica. E così l’idea di una comune origine dell’umanità lasciò presto il posto ad arzigogolate e aberranti teorie eziologiche che hanno finito per ridurre le “specie” umane a miceti spuntati qua e là per caso, belli o brutti, intelligenti o deficienti, così come i funghi sono eduli o velenosi.
Fu questa la vera rivoluzione, quella che incoronò l’uomo-materia detronizzando l’antico essere umano imago Dei. A essa contribuirono un po’ tutti i padri nobili dell’illuminismo, da Voltaire al conte di Buffon, da Jean-Baptiste-Claude Delisle de Sales a Guillaume-Thomas-François Raynal, da Denis Diderot a Baptiste-Henri Grégoire. Il resto fu conseguenza pratica.
La riduzione dell’essere umano alla semplice dimensione materiale e naturalistica venne poi rielaborata “scientificamente” nell’Ottocento, che dotò il razzismo di basi “oggettive” e biologiche. La strada per Auschwitz era aperta.
Evoluzionismo ed eugenetica
Ma non solo. Da quel pensiero discende anche l’“eugenetica democratica”, e su questo si possono leggere con profitto Piero S. Colla, Per la nazione e per la razza. Cittadini ed esclusi nel modello svedese (Carocci, Roma 2005), Luca Dotti, L’utopia eugenetica del welfare state svedese, 1934-1975 (Rubbettino, Soveria Mannelli 2004) ed Edwin Black, The War Against the Weak: Eugenics and America’s Campaign to Create a Master Race (Four Walls Eight Windows, New York 2003).
In più, sempre da quel pensiero, derivò l’idea secondo cui si può fare qualsiasi cosa dell’uomo, se ciò serve, sin dal suo stadio embrionale. Per esempio, «rigenerarlo» come l’abbé Grégoire, prete giacobino, prospettava per gli ebrei «degenerati».
L’eugenetica, del resto fu inventata, termine e idea, dallo psicologo Francis Galton, il quale introdusse l’evoluzionismo del proprio cugino Charles Darwin nel biologismo “scientifico” con cui poi auspicò la manipolazione umana (tutto da leggere è Richard Weikart, From Darwin to Hitler: Evolutionary Ethics, Eugenics, and Racism in Germany [Palgrave MacMillan, New York 2004]).
200 anni fa, il Terzo Reich
Ora, gli orrori della Shoà hanno prodotto una valanga di riflessioni, ma la cultura occidentale – come bene scrive Marsilio – per non voler essere mai più razzista ha cercato di non esserlo mai stata, rimettendo ogni responsabilità al solo nazionalsocialismo, folle e improvviso.
Eppure la malapianta aveva radici più profonde. Forte delle teorie eugeniste e malthusiane che gli provenivano dai padri illuministi, la Francia rivoluzionaria si macchiò ben 200 anni fa degli stessi crimini che si è soliti associare al nazismo. Dai massacri del settembre 1792 con cui si eliminarono anche deboli e perversi prefigurando l’Operazione T4 realizzata nel 1939 dal Reich hitleriano, al primo genocidio della storia, quello praticato in Vandea tra il 1793 e il 1794 con tanto di camere a gas ed esecuzioni anzitutto di donne e di bambini, onde estirpare una «race maudite», una razza maledetta, di oppositori.
Insomma solo in virtù della sua memoria corta, certo Occidente può ancora gloriarsi dell’illuminismo.

Il Domenicale N. 12 - DAL 25 AL 31 MARZO 2006

Egitto: le donne povere? «Possibile sterilizzarle». L'Islam che non ti aspetti

Sabato scorso, il Comitato per la sanità del parlamento egiziano ha approvato un progetto di legge il cui primo articolo autorizza l’aborto in caso di malformazioni del feto o in caso via sia un alto rischio di tale eventualità per l’età della donna o l’esito delle sue gravidanze precedenti; in più è ammessa la sterilizzazione di una donna «se la sua situazione economica non le permetta più di avere dei figli». Una situazione di indigenza, quest’ultima, che dovrebbe essere certificata dal Ministero per gli Affari sociali, il quale dovrebbe verificare che la famiglia in questione «abbia un numero sufficiente di figli». Secondo Hamdi al-Sayed, a capo della Commissione della sanità e presidente dell’associazione medici egiziani, questo progetto di legge prende in considerazione l’attuale, difficile situazione economico-finanziaria: «Molte donne non hanno più i mezzi per crescere i propri bambini» ha dichiarato durante la discussione della legge all’Assemblea del Popolo, la camera bassa del parlamento. Il secondo articolo della legge prevede inoltre la creazione di una commissione medico­scientifica che dia un parere di tipo medico alla magistratura, nei casi penali riguardanti l’aborto.

© Copyright Avvenire 25 marzo 2010

«Suicidio demografico L’Italia ad alto rischio» Senza figli oltre il 50 per cento delle famiglie

DA M ILANO A NTONELLA M ARIANI
S
e l’America non è un Paese per vecchi, l’Italia non è un Paese per figli. An­diamo verso il «suicidio demografi­co », tuona il Rapporto del Centro interna­zionale studi famiglia, presentato ieri a Mi­lano. «Viviamo in un Paese dove non viene garantita la libertà di procreare quanti figli si desiderano», fa eco Francesco Belletti, che del Cisf è direttore. Se oggi in Italia o­gni donna ha in media 1,71 figli, nella realtà ne desidererebbe 2,13. Perché quel mezzo figlio in più rimane nel libro dei desideri delle coppie? «Perché nel nostro Paese tut­ti si riempiono la bocca con la famiglia, tut­ti fanno promesse, ma poi nessuno fa nul­la », provoca don Antonio Sciortino, diret­tore di Famiglia Cristiana, cui fa capo il Ci­sf.
Il Rapporto del Cisf 'Il costo dei figli. Qua­le welfare per le famiglie' (edito da Fran­coAngeli), curato da un’équipe interdisci­plinare di esperti coordinati dal sociologo Pierpaolo Donati, offre risposte articolate, partendo da una ricerca approfondita sul­la realtà italiana. Ecco che si scopre che la responsabilità della procreazione oggi ri­cade appena su una famiglia su due, per­ché il 53,4 delle famiglie anagrafiche non ha figli: di quelle con figli, il 21,9 per cento ne ha uno solo, il 19,5 ne ha due e il 4,4 per cento di temerari si spinge fino a tre figli. Va oltre il terzo bambino appena lo 0,7 del­le coppie. Se si chiede, come ha fatto il Cisf, perché si rinuncia al secondo o al terzo figlio, all’in­circa una famiglia su 5 (il 19,5 per cento) ri­sponde che non aveva abbastanza soldi, il 9 per cento che non riusciva a conciliare fa­miglia e lavoro e un altro 11,7 per cento che ci penserà più avanti, come se rimandare a un futuro indeterminato fosse una rispo­sta adeguata al desiderio di paternità e ma­ternità. Abbastanza sorprendentemente, l’assenza di servizi per l’infanzia, come gli asili, conta appena per lo 0,3 per cento nel­la scelta di rinunciare a un figlio. Altre «mo­tivazioni personali» hanno inciso per il 57,8 per cento dei casi. «In sostanza – fa notare il team di ricercatori che ha condotto l’in­dagine – le cause che hanno ristretto la na­talità sono per quasi il 58 per cento rap­presentate da motivi soggettivi. Si tratta di motivi psicologici legati al senso di incer­tezza e al rischio sul futuro», oltre che a con­dizionamenti culturali legati alla difficoltà di impegnarsi nell’educazione dei figli.
Degne di qualche riflessione anche le rile­vazioni sulle spese per i figli in base alle di­sponibilità economiche: le famiglie a più basso reddito spendono per ogni figlio (co­sto di accrescimento) 308 euro, quelle a più alto reddito addirittura 1.861 euro al mese, creando nei fatti una vera e propria dise­guaglianza delle opportunità cui possono godere i figli. Nel rapporto si indicano tre tipologie familiari. Quelle definite 'margi­nali' che hanno in media 1,77 figli, vivono soprattutto al Sud, e riservano ai figli il 35,94 per cento della spesa totale, memtre per ci­bi e bevande la spesa si ferma a 546 euro.
Ci sono poi le 'famiglie adattive' collocate nelle isole e al Centro, che in media spen­dono per i figli il 39,83% (565 per cibi e be­vande). E infine i nuclei indicati come 'mo­dernizzati' (Nordovest e Nordest) in cui il costo per i figli sul totale della spesa gene­rale scende al 32,59% ma sale in media a 634 per rifornire il frigorifero.
La crisi economica pesa gravemente sulle famiglie con figli: secondo il Rapporto Ci­sf, il 16,4 per cento dei nuclei è considera­ta nell’area della povertà, il 18 per cento è a rischio di entrarci e un altro 37,2 per cen­to denuncia qualche difficoltà ad arrivare a fine mese. Solo il 22,4 per cento della fa­miglie dichiara di chiudere il bilancio con una certa facilità. Del resto, ha fatto notare l’economista Luigi Campiglio, l’Italia de­stina alla spesa sociale per le famiglie due punti percentuali di Pil in meno rispetto al­la Germania (1,1 per cento nel 2005 rispet­to al 3,2 della Germania e al 2,5 della Fran­cia). «Che equivalgono a 30 miliardi di eu­ro », ha puntualizzato il prorettore della Cat­tolica. «Pensate a cosa si potrebbe fare con quel denaro: ad esempio, una vera politica di accoglienza ai nuovi nati. E poi riporta­re la famiglia al centro dell’agenda politica». Di un «welfare delle opportunità» ha par­lato il presidente della Camera Gianfranco Fini, intervenuto alla presentazione del Rapporto, pensando soprattutto ai giovani che «al di là delle facili polemiche sui bam­boccioni », stanno diventando sempre più una «categoria strutturale debole nella so­cietà
».

«I soldi? Non c’entrano. A vincere è la paura»
Donati


Carenza di servizi, precarietà, ma soprattutto assenza di valori: così per il sociologo l’incertezza del futuro paralizza le coppie italiane

DI
S TEFANO A NDRINI
G
li italiani fanno sem­pre meno figli a cau­sa di una crescente debolezza psicologica e cul­turale. Secondo il rapporto Cisf, infatti, i motivi perso­nali e culturali che hanno ri­stretto la natalità nel nostro Paese sono quasi il 58%. Più della somma delle altre mo­tivazioni: mancanza di sol­di, difficoltà a conciliare il tempo di cura e di lavoro, u­na casa troppo piccola, l’as­senza o la carenza dei servi­zi, la precarietà del lavoro. «Le famiglie italiane – spie­ga il sociologo Pierpaolo Do­nati – hanno sempre più paura a generare. Perché ci sono responsabilità che au­mentano, perché c’è l’incer- tezza del futuro, perché non sanno più come educare i fi­gli, perché si è persa la tra­smissione culturale tra le ge­nerazioni ».
La spiegazione materialista, non ci sono abbastanza ri­sorse, dunque non regge…

Un dato conferma questa tesi. Le italiane hanno in media 1,33 figli, mentre le immigrate arrivano a 2,2. E sappiamo bene come gli ex­tracomunitari abbiano pro­blemi economici, di allog­gio, se non addirittura di po­vertà. Eppure questo non in­cide sul loro contributo al­l’incremento demografico.

Il dato rilevato dal rappor­to manda in soffitta le tra­dizionali politiche familia­ri?

Agire sul versante del dena­ro è necessario perché le fa­miglie
investono molto per i figli (35-40% del budget fa­miliare). Ci troviamo di fronte a famiglie che spen­dono tutto quello che pos­sono sul minimo dei figli. C’è l’idea che il bambino debba avere tutto e non so­lo l’essenziale; che è rap­presentato invece dal con­tatto umano, da una buona educazione. C’è quasi un’ossessione che pretende di dare ai figli un benessere pieno di gadget e di giochi.
Ma tutto questo non sem­bra più sufficiente…

Agire con interventi che ri­guardano solo la fiscalità, i bonus, i prestiti ha un certo valore ma deve essere ac­compagnato da un cambio di prospettiva culturale. Il che significa soprattutto at­tuare
un welfare relazionale caratterizzato da servizi, non del tutto statali, ma messi in campo da reti di fa­miglie, della scuola, della so­cietà civile, perché i bambi­ni hanno bisogno di un am­biente relazionalmente va­lido e non tanto del super­fluo.
In questa prospettiva il bambino allora non può più essere visto come un bene di consumo?

Certamente. L’insistenza a monetizzare il costo dei figli contribuisce a mercificarli. In questo modo il figlio è sempre più un bene di con­sumo alternativo ad altri be­ni di consumo: una vacanza all’estero, l’automobile, l’ap­partamento. Ovvero si ten­de a far coincidere il costo del figlio con il suo prezzo. Mentre noi sappiamo che i bambini non hanno un prezzo.

Come deve avvenire, dal punto di vista del welfare il passaggio dal bambino be­ne di consumo a bene rela­zionale?

Con una rivoluzione coper­nicana. Non più solo trasfe­rimenti di denaro ma servi­zi. E soprattutto una capa­cità di investire sulla cultu­ra dei servizi orientati alla fa­miglia che oggi, come acca­de per i consultori, languo­no. Il futuro è quello di un
welfare per figli. Non per i bambini genericamente in­tesi, come appartenenti ad una categoria astratta, ma un welfare dei bambini in quanto figli di una certa fa­miglia.
Perché questa opzione?

Il bambino è una ricchezza relazionale perché crea re­lazioni e attraverso queste relazioni le persone impara­no a fare i conti con gli altri ed è lì che si annidano le virtù sociali della famiglia. Dove i bambini imparano a superare le piccole gelosie e le piccole invidie perché hanno a che fare con molte relazioni. Questo porta un valore aggiunto alla comu­nità che oggi è invece carat­terizzata dai figli unici e da ragazzi che privi di relazio­ni si rifugiano nell’isola­mento. Per realizzare il pro­getto si possono anche im­maginare dei servizi a costo zero.

La popolazione italiana, commenta il Rapporto, so­pravvive decentemente perché rinuncia ad avere dei figli.

Questo significa che dagli anni ’80 in poi la politica ha rinunciato ad investire sulle nuove generazioni. Stiamo consumando il patrimonio accumulato senza reinve­stirlo sui figli. Cioè sul no­stro
futuro.




© Copyright Avvenire 24 marzo 2010

Il Presidente dello IOR: “L’origine vera della crisi è il crollo della natalità”

Tutela delle famiglie, più figli e austerità, la formula proposta dal prof. Gotti Tedeschi


ROMA, domenica, 7 febbraio 2010 (ZENIT.org).- “L’origine vera della crisi è il crollo della natalità nei Paesi occidentali”. A sostenerlo è il prof. Ettore Gotti Tedeschi, Presidente dell'Istituto per le Opere di Religione (IOR), in una intervista al settimanale informativo "Octava Dies" del Centro Televisivo Vaticano.

Oggi nel mondo occidentale, ha ricordato il prof. Gotti Tedeschi, il tasso di crescita della popolazione è arrivato allo zero per cento, cioè a 2 figli per coppia, fatto che ha comportato un cambiamento profondo della struttura della società.

A questo proposito, ha osservato, “invece di stimolare le famiglie e la società a ricominciare a credere nel futuro e a fare figli [...] abbiamo smesso di far figli e abbiamo creato una situazione, un contesto economico negativo di decrescita, e decrescita vuol dire maggior austerità”.

“Crollando le nascite – ha sottolineato –, ci sono meno persone giovani che entrano nel mondo del lavoro produttivamente e ci sono molte più persone anziane che escono dal sistema produttivo e diventano un costo per la collettività”.

“In pratica – ha spiegato –: se la popolazione non cresce, i costi fissi di questa struttura economica e sociale aumentano, quanto drammaticamente dipende da quanto è evidentemente squilibrata la struttura della popolazione e quant’è la sua ricchezza. I costi fissi però aumentano: aumentano i costi della sanità e aumentano i costi sociali. Non solo: non si possono più diminuire le tasse”.

“C’è poi un altro fenomeno che impatta grazie al non tasso di crescita delle popolazione nell’economia, ed è il crollo del risparmio – hacontinuato l'economista –. I giovani che non hanno lavoro spostano il ciclo di accumulazione del risparmio di anni; le famiglie non si formano; molto spesso non si formano famiglie con un certo numero di impegni nei confronti dei figli, cosicché il risparmio si estingue”.

“A questo punto quando il crollo dello sviluppo del mondo occidentale è dovuto alla non natalità diventa un fatto preoccupante – ha affermato Gotti Tedeschi –. Ci si inventa il tentativo di compensare questo crollo dello sviluppo attraverso attività finanziarie e quindi anzitutto con la delocalizzazione – si cerca di trasferire tutte quelle produzioni in Asia, per riportarle al nostro interno a costi minori; e con una maggior produttività, ma la maggior produttività ha dei limiti”.

“Negli ultimi 10 anni – ha spiegato –, il tasso di indebitamento delle famiglie americane, già abbastanza alto (che era il 68 per cento del prodotto interno lordo nel 1998 circa) dal 68 per cento passa nel 2008 al 96 per cento del prodotto interno lordo, aumenta cioè di 28 punti”.

“Se lei prende 28 punti percentuali di crescita su 10 anni e lo divide per 10 anni, ha una media del tasso di crescita del 2.8 per cento all’anno dovuto esclusivamente al consumismo a debito delle famiglie americane”.

“In pratica, questa è stata l’origine della crisi, fino poi ad arrivare agli eccessi dei cosiddetti subprime – ha dichiarato –. L’origine per cui lo strumento finanziario, la leva a debito, l’espansione del credito è stata fatta è per compensare il tasso di crescita dello sviluppo dell’economia legato al fatto che non nascevano figli”.

Secondo il presidente dello IOR, “l’origine della crisi non è nelle banche e nella finanza. Le banche e la finanza hanno concorso ad aggravare la crisi nelle sue origini, cercando di compensare dei problemi che erano stati generati precedentemente e cioè il crollo dello sviluppo economico, che si è cercato di camuffare attraverso l’uso di strumenti finanziari”.

“Se posso addirittura, quindi, essere molto polemico, dirò che più che i banchieri hanno avuto responsabilità alcuni governanti, che hanno stimolato, supportato e giustificato quell’espansione creditizia che venne utilizzata per sostenere un tasso di crescita che è stato riconosciuto essere fittizio”, ha osservato.

“Il debito totale dei governi, delle famiglie, delle istituzioni finanziarie e delle istituzioni non finanziarie e di quelle industriali, oggi deve essere sgonfiato. Sgonfiamento vuol dire che prenderà fra i 5 e i 7 anni, in Paesi maturi come l’Europa e gli Stati Uniti, per potersi ridimensionare, per poter ritornare a dei criteri accettabili”.

Il prof. Gotti Tedeschi ha poi preso ancora in prestito come esempio il caso americano per spiegare la forma negativa di sussidiarietà, e cioè quella dell’individuo verso lo Stato.

“Gli americani – ha detto – sono stati utilizzati per 15 anni per sostenere a debito la crescita del prodotto interno lordo americano che vacillava. E gli Stati Uniti, come sappiamo, hanno avuto anche dei periodi complessi - pensiamo all’11 settembre del 2001 - dovendo ricostruire un atteggiamento nei confronti del terrorismo, come grandi guardiani dell’umanità, probabilmente aumentando notevolmente le loro spese anche di difesa, e le spese si pagano”.

“Ecco l’esigenza di una crescita del pil – ha evidenziato –. Una spesa forte nella difesa, per gli armamenti, dopo l’11 settembre, che è aumentata negli anni successivi con tassi del 14, 15 per cento all’anno, deve essere sostenuta dalla crescita di un prodotto interno lordo”.

“Da qui l’esigenza di far crescere il prodotto interno lordo – ha aggiunto poi –. E come si fa a farlo crescere? Ecco l’abitudine americana: si lascia la libertà nell’individuo di farlo; lo si mette in condizione di farlo: tassi bassi e attrattiva per una forma di consumismo”.

“Dopo 10 anni le famiglie americane sono diventate povere, hanno perso una grande parte dei loro investimenti liquidi, hanno perso una gran parte del valore della loro casa, che non hanno ancora pagato, hanno perso una parte del fondo pensione, che è privato notoriamente, si sono indebitate per due o tre anni e rischiano di perdere il posto di lavoro”.

Secondo l'economista, infine, l'unico “modo per ricostituire un equilibrio economico-finanziario” è l'“austerità”.

L'inverno demografico e il futuro dell’Europa

di Giorgio Salina*


BRUXELLES, giovedì, 5 marzo 2009 (ZENIT.org).- Il 4 marzo si è svolta, presso il Parlamento europeo a Bruxelles, una Conferenza dal titolo “Inverno demografico e il futuro dell’Europa”, organizzata dal Gruppo Del Partito Popolare Europeo (PPE) e dell’ELFAC - European Large Families Confederation - (Confederazione di associazioni delle famiglie numerose europee).

Alla Conferenza ha partecipato, con propri inviati, anche l’ANFN (Associazione nazionale Famiglie numerose), un'Associazione italiana che fa parte di ELFAC.

Coordinava i lavori la sign.ra Marie Panayotopoulos-Cassiotou, eurodeputata greca del Gruppo del PPE, Presidente dell’Intergruppo per la Famiglia e per la Protezione dell’Infanzia, che in passato ha ricoperto la carica di Rappresentante della Confederazione greca delle famiglie numerose COFACE (1998-2004).

La Panayotopoulos è stata molto attiva, lungo l’arco di tutta la legislatura che sta per chiudersi, sui temi della famiglia e dell’infanzia; temi che hanno avuto un notevole impulso a partire dalla Presidenza tedesca dell’UE, nel primo semestre del 2007.

Da allora numerose sono state le iniziative: il CESE (Comitato economico e sociale europeo) ha svolto un’indagine conoscitiva sulla situazione della denatalità e della famiglia in Europa, condensata in un “libro bianco” dal sign. Stéphane Buffetaut, successivamente utilizzato per i lavori del Parlamento, che ha organizzato numerosi convegni ed audizioni in merito.

Occorre precisare che le risoluzioni del Parlamento europeo su questi temi non hanno valore vincolante perchè la materia è di competenza dei singoli Stati membri, tuttavia è evidente che hanno notevole “peso politico”.

Nel corso della Conferenza svoltasi mercoledì scorso, è stato presentato un documentario, che, per esplicita dichiarazione degli stessi organizzatori, ha l’obiettivo di sollecitare i Parlamentari europei affinche “prendano coscienza della gravità del problema (meno due milioni di nuove nascite all’anno tra i Paesi dell’Europa dei 27!) e siano più incisivi verso quei paesi, come l’Italia, che tardano a prendere misure serie per contrastare la bassissima natalità e continuano ad attuare politiche fiscali e tributarie che colpiscono duramente proprio le famiglie che hanno messo al mondo più figli”.

Il documentario sintetizza efficacemente i rischi dell’Europa a causa del crollo verticale della natalita - 50% in 50 anni -, che ha determinato “l’inverno demografico” del continente, ulteriormente aggravato dall’aumento dell’attesa di vita. Conseguenza di ciò potrebbe essere il peggioramento della già grave crisi economico-finanziaria attuale, sino al collasso economico. Ad esempio, un piccolo Paese come la Lettonia vede a rischio la propria sopravvivenza.

A partire dagli anni 70, quando si temeva la “bomba demografica”, sono cessate del tutto le già scarse politiche familiari e di promozione della natalità, sino al dramma odierno, di cui le prime vittime sono le famiglie numerose. Il documentario afferma che condizione essenziale per la ripresa e lo sviluppo è il rilancio della natalità, per tornare all’attivo del saldo demografico, e quindi condizione indispensabile è il rilancio di una sera politica a favore della famiglia.

Anche in questa, come in altre occasioni, è stato riconosciuto che alcuni Paesi, come ad esempio la Francia, hanno adottato politiche di sostegno alla famiglia. Ed i risultati cominciano a vedersi. Varie sono le misure ipotizzate, tra le altre: l’aumento dei servizi sociali a disposizione della donna lavoratrice, i congedi parentali per entrambi i genitori, agevolazioni fiscali progressive per le famlie in funzione dei figli minori.

Tutte proposte condivisibili. Ma, se posso esprimere una considerazione e formulare una proposta, anche in questa come in altre occasioni è tuttavia mancata, accanto alle richieste di agevolazioni e facilitazioni per la donna lavoratrice, e alle misure a favore della famiglia, una pressante domanda di valorizzazione sociale ed economica della donna “moglie e madre a tempo pieno”, scelta di enorme importanza per le nostre società, e ricchezza insostituibile della nostra tradizione e cultura.

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*Presidente dell’Associazione Fondazione Europa

Il ritorno del controllo demografico La vita umana pesa quanto le emissioni di carbonio

di padre John Flynn, LC

ROMA, domenica, 20 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Il Vertice di Copenhagen sui cambiamenti climatici ha innescato un'ondata di opinioni sulle questioni ambientali. Tra queste si scorge un inquietante ritorno verso posizioni malthusiane che vedono il controllo demografico come la soluzione ai problemi del pianeta.

Una legge mondiale che imponga a tutte le Nazioni la politica del figlio unico, come quella cinese, è ciò che ci vuole, secondo un articolo d'opinione di Diane Francis pubblicato l'8 dicembre sul quotidiano canadese National Post.

Secondo la Francis, questa misura ridurrebbe l'attuale popolazione mondiale di 6,5 miliardi a 3,43 miliardi entro il 2075. Sebbene siano più estremistiche della media, le posizioni della Francis a favore di un controllo demografico non sono affatto isolate.

Poco prima dell'inizio del Vertice, l'Optimum Population Trust britannico ha proposto uno schema di compensazione energetica, secondo quanto riferito dal quotidiano Guardian del 3 dicembre.

Come ha spiegato John Vidal, redattore della sezione ambientale del giornale, questo prevede che i ricchi consumatori possano compensare il loro stile di vita mondano finanziando i programmi di contraccezione nei Paesi più poveri.

Secondo Vidal, i calcoli del Trust mostrano che le 10 tonnellate metriche di anidride carbonica emesse da un volo da Londra a Sydney potrebbero essere compensate da un bambino in meno nato in Paesi come il Kenya.

Sembra che il neocolonialismo continui a sopravvivere negli atteggiamenti di alcuni ambientalisti, che non vedono alcun problema nell'esortare le Nazioni in via di sviluppo a ridurre la loro popolazione per consentire ai Paesi ricchi di continuare a emettere gas serra.

Questo schema è stato lanciato in seguito alla pubblicazione, ad agosto, di un rapporto del Trust dal titolo: "Fewer Emitters, Lower Emissions, Less Cost: Reducing Future Carbon Emissions by Investing in Family Planning".

Le conclusioni di questo studio affermano che "l'analisi costi/benefici dimostra che la pianificazione familiare è notevolmente più economica di molte tecnologie a bassa emissione".

"Sulla base di questo studio, si propone che i metodi di pianificazione familiare siano considerati uno strumento primario nella migliore strategia di riduzione delle emissioni di carbonio", afferma il rapporto.

Previsioni catastrofistiche

Il Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione (UNFPA) si è unito al coro malthusiano con la pubblicazione del suo Rapporto 2009 sullo stato della popolazione nel mondo.

Il Rapporto auspica ripetutamente un più diffuso accesso a misure di "salute riproduttiva". Questa definizione delle Nazioni Unite comprende l'accesso ai preservativi, ai contraccettivi e all'aborto.

"Abbiamo raggiunto un punto in cui l'umanità si sta avvicinando all'orlo del disastro", ha affermato Thoraya Ahmed Obaid, direttrice esecutiva dell'UNFPA, durante la presentazione del Rapporto a Londra il 18 novembre scorso.

Il documento è stato accolto dalla stampa con titoli quali "L'ONU combatte i cambiamenti climatici con i preservativi" (Associated Press, 18 novembre).

"Controllo della natalità: il modo più efficace per ridurre le emissioni di gas a effetto serra", strombazzava il quotidiano Times di Londra del 19 novembre nei suoi titoli relativi al Rapporto.

In modo confuso, accanto agli appelli per la salute riproduttiva nelle Nazioni in via di sviluppo, si leggevano altre affermazioni che contraddicevano le tesi secondo cui una riduzione della popolazione dei Paesi poveri sarebbe in grado di arrestare il cammino del mondo verso il baratro del disastro ambientale.

"La principale responsabilità per l'attuale accumulo di gas a effetto serra risiede nei Paesi sviluppati", ammette il Rapporto.

Inoltre, "i legami tra popolazione e cambiamenti climatici sono nella maggior parte dei casi complessi e indiretti", aggiunge.

Una migliore guida ai temi demografici e ambientali è contenuta in un servizio speciale pubblicato dalla rivista The Economist nell'edizione del 31 ottobre.

In un editoriale che accompagna il rapporto, la rivista sottolinea che la tendenza verso il basso dei livelli di fertilità nei Paesi in via di sviluppo è già avanzata. "L'attuale riduzione della fertilità è molto ampia e repentina", afferma.

Immorale

Secondo l'editoriale, l'impatto antropico sull'ambiente può essere arginato agendo su tre fronti: demografia, tecnologia e politica. Per quanto riguarda la demografia, non vi è molto altro che si possa fare, secondo la rivista. Solo una "coercizione in stile cinese" potrebbe assicurare una più rapida riduzione della fertilità.

Sorprendentemente per una pubblicazione che non si avvicina alla religione in alcun modo, l'editoriale aggiunge che "sarebbe immorale costringere le persone ad avere meno figli rispetto a quelli desiderati perché i ricchi consumano troppe risorse naturali".

Lo stesso Rapporto afferma che il modo per arginare le emissioni di carbonio e affrontare i problemi ambientali non è quello di ridurre la fertilità, ma di incidere sulla crescita economica per renderla meno inquinante e meno "divoratrice di energia".

Il sociologo britannico Fran Furedi ha esplorato il ritorno del malthusianesimo in un pezzo scritto per il sito Internet Spiked. Nel suo commento del 7 dicembre, ha duramente attaccato le proposte dell'Optimum Population Trust accusandolo di essere una sorta di "organizzazione malthusiana zombie, dedita alla causa della riduzione umana".

"Nel corso di gran parte della storia, la vita umana è stata considerata come un valore in sé, che ha una speciale qualità che non ammette di essere ridotta a termini quantitativi per essere misurata da contabili misantropi", ha osservato.

Furedi ha basato i suoi commenti su una prospettiva umanistica e non religiosa. La vita umana possiede una qualità unica, ha sostenuto, chiedendosi perché altri umanisti non hanno voluto difendere la vita umana e sostenere gli ideali sviluppati nel Rinascimento e nell'Illuminismo.

Perdere la fede

"Un mondo che è capace di mettere sullo stesso piano un bambino e il carbonio è un mondo che ha perso la sua fede nell'umanità", ha lamentato Furedi.

Un altro commento interessante è stato pubblicato il 9 dicembre dal sito Internet australiano On Line Opinion. L'autrice Farida Akhter, del Bangladesh, dirige un'organizzazione che lavora con le comunità nel suo Paese e gestisce una casa editrice femminista.

Riflettendo sul rapporto dell'UNFPA sullo stato della popolazione mondiale, ha sostenuto che è un approccio semplicistico quello di pensare che i problemi ambientali possano essere risolti semplicemente con una riduzione della fertilità delle donne.

Puntare il dito contro le Nazioni in via di sviluppo semplicemente non ha senso, ha affermato. Citando i dati del Rapporto UNFPA, ha rilevato che il 50% delle emissioni di anidride carbonica del mondo provengono dal mezzo miliardo di persone più ricche del pianeta.

Pertanto, ha proseguito, anche se rallentiamo la crescita della popolazione nei Paesi più poveri, il loro contributo alla riduzione delle emissioni di carbonio e del consumo delle risorse non potrà essere significativo.

"Non facciamo delle donne l'obiettivo della contraccezione in nome della soluzione dei cambiamenti climatici", ha concluso.

Questo sentimento è condiviso da Jennie Bristow, editrice della pubblicazione britannica Abortion Review.

Anche lei ha scritto un articolo per Spiked sul tema della demografia e dell'ambiente, apparso il 6 ottobre.

La Bristow ha difeso l'aborto e la contraccezione, ma ha anche sottolineato che la storia è piena di esempi di pratiche imposte alle donne da autorità che volevano decidere quanti bambini far nascere.

Rispetto

L'autrice ha espresso critiche alla posizione pro-vita, ma ha anche sostenuto che "deve essere posta seriamente la questione di quanto sia genuino l'impegno per la libera scelta tra coloro che in definitiva vorrebbero che le donne scegliessero di non avere figli o di non averne più di un certo numero".

Effettivamente noi abbiamo una responsabilità nei confronti dell'ambiente, ha sottolineato Benedetto XVI nella sua Enciclica del 29 giugno scorso, "Caritas in Veritate".

Ciò che è in gioco, tuttavia è qualcosa di più delle sole questioni ecologiche, ha aggiunto il Papa. Il rispetto per la natura comprende il rispetto della vita umana. "I doveri che abbiamo verso l'ambiente si collegano con i doveri che abbiamo verso la persona considerata in se stessa e in relazione con gli altri", sostiene l'Enciclica (n. 51).

"Non si possono esigere gli uni e conculcare gli altri. Questa è una grave antinomia della mentalità e della prassi odierna", prosegue il Pontefice.

Una contraddizione che viene proposta da non poche e isolate voci del dibattito odierno su come affrontare il problema ambientale.

I padroni del mondo. Come prima, più di clima In nome della lotta al global warming ora si pianificano anche le nascite. Un libro per capire

Contraccezione e aborto dovrebbero essere alla base delle politiche che mirano a combattere il surriscaldamento globale”. Fare più di due figli è “irresponsabile” e “anti ecologico”. Così parlava sul Times il consulente ambientale del governo britannico e presidente della commissione allo Sviluppo sostenibile, Jonathon Porritt. Dal momento che ogni nuovo nato in Gran Bretagna brucerà nella sua vita tanto carbone quanto un’area boschiva grande come Trafalgar Square, se non vogliamo morire arrostiti nel giro di pochi decenni dovremmo cominciare a prendere seriamente in considerazione le politiche di pianificazione familiare (quelle ad esempio perseguite dalle Ong appena finanziate dal presidente americano Barack Obama).

Per Porritt bisogna fermare “le teeneger che rimangono incinte e le donne che diventano madri senza volerlo veramente”, colpevoli di mettere al mondo figli che consumeranno (ed emetteranno) gas serra contribuendo all’invivibilità del nostro pianeta. Così, dopo anni di allarmismi e catastrofismi vari, tasse sulle emissioni gassose delle mucche e attacchi alle industrie di tutto il mondo, si è arrivati ad ammettere chi è il vero nemico da combattere e abbattere: non la CO2, non i gas serra, ma l’uomo.
Destino vuole che all’indomani delle dichiarazioni di Porritt, cioè oggi, in Italia esca il libro “I padroni del pianeta”, edito da Piemme e scritto da Riccardo Cascioli e Antonio Gaspari, nel quale i due autori provano a dimostrare l’infondatezza degli allarmi quotidianamente lanciati sulla scarsa disponibilità delle risorse sulla Terra e di come queste siano destinate a finire nel volgere di pochi anni. Ben supportato da cifre ed esemplificazioni storiche, “I padroni del pianeta” spiega come l’allarme della fine delle risorse sia un ritornello che viene ripetuto da decenni, tanto che secondo diverse previsioni dovrebbero già essere finite da un pezzo. La storia però dimostra come “la disponibilità di risorse aumenta con l’aumentare del consumo”, in quanto “le risorse dipendono essenzialmente dall’ingegno e dal lavoro dell’uomo che sa usare gli elementi della natura per rispondere ai propri bisogni”.

Basta osservare la realtà per capire come nessuna cosa è “risorsa” in sé, ma solo nel momento in cui serve a qualcosa o a qualcuno. Si pensi al silicio, scrivono Cascioli e Gaspari, presente nella sabbia da sempre e solo negli ultimi anni diventato componente fondamentale dei computer. Se è quindi vero che è il lavoro dell’uomo a trasformare una materia in risorsa, è altrettanto vero che la Terra non è un sistema chiuso destinato a consumarsi più o meno lentamente, tesi invece sostenuta dal catastrofismo ambientalista sempre più convinto che l’uomo sia una malattia da curare affinché la natura torni a essere se stessa. Lungi dall’inneggiare allo spreco e all’uso irresponsabile di ciò che abbiamo (“tanto ce n’è in abbondanza”), il libro mette in guardia dalle politiche asservite all’ideologia dell’eco-economia con una serie di dati interessanti: dal 1776 al 1975, per esempio, la popolazione mondiale è aumentata di sei volte mentre la ricchezza mondiale disponibile aumentava di ottanta; tra i cinquanta paesi considerati “non sviluppati” dall’Onu, poi, ben trentasei hanno una bassa densità di popolazione, mentre la maggior parte dei più sviluppati supera i cento abitanti a chilometro quadrato.

Non è combattendo l’aumento di popolazione che si risolveranno i problemi che oggettivamente riguardano la distribuzione delle risorse. Né facendo venire sensi di colpa grazie a demagogiche operazioni mediatiche troppo simili al pagamento di un “pizzo”: la Coca Cola che annuncia la sua “neutralità idrica” versando 20 milioni di dollari nelle casse del WWF per progetti idrici durante le Olimpiadi cinesi è simile al discorso ipocrita per cui farsi una doccia troppo lunga a Milano toglie l’acqua ai bambini africani. E’ un problema posto al contrario, quello delle risorse, che rischia di portare conseguenze politiche ai limiti della fantascienza, con i governi che impongono il numero di figli che ogni coppia potrà mettere al mondo. Cosa che, con i finanziamenti di Nazioni Unite e Unione europea, da tempo succede in Cina: la politica del “figlio unico”, per cui chi fa più di un figlio perde, nel migliore dei casi, tutti i diritti civili e sociali, è stata presentata più di una volta come il contributo cinese alla riduzione di gas serra per fermare il global warming. Solo l’Amministrazione Bush ha interrotto i finanziamenti al fondo Onu che implicitamente sostiene queste politiche, proprio mentre l’Europa raddoppiava i suoi contributi.

Il filo rosso che in realtà da sempre legava crescita della popolazione, difesa dell’ambiente e risorse alimentari è stato tirato per la prima volta in modo esplicito nel 1996 a Roma dall’allora segretario all’Agricoltura di Bill Clinton, Dan Glickman, che al vertice Fao affermò che “nel 2020 saremo tre miliardi in più sulla Terra, e quindi il problema della malnutrizione, già gravissimo oggi, avrà proporzioni molto più vaste. E’ dura oggi, ma tra venticinque anni sarà un problema di dimensioni spaventose. Una soluzione passa inevitabilmente attraverso la stabilizzazione volontaria della popolazione”. Non è un caso che l’unico a criticare queste parole fu l’allora Papa Giovanni Paolo II: “Sarebbe illusorio – disse – credere che una stabilizzazione arbitraria della popolazione mondiale, o addirittura una sua diminuzione, potrebbero risolvere direttamente il problema della fame. Senza contare che spesso non sono carenze o disastri naturali a portare alla morte per fame, ma situazioni politiche. Si pensi per esempio ai paesi devastati da conflitti di ogni genere, o che sopportano il peso, talvolta soffocante del debito internazionale”. E’ un problema di educazione e di cultura, ribadì il Pontefice, portatore di quella che Cascioli e Gaspari definiscono “la novità della civiltà cristiana”, l’unico sistema culturale che “ha sprigionato tutte le energie costruttive dell’uomo” nella storia, dando al lavoro quel valore positivo che solo può trasformare le materie in risorse. In realtà la vera risorsa che si sta esaurendo, scrivono gli autori, è proprio quella che ha sempre saputo far fruttare le risorse: l’uomo. L’ideologia per cui noi siamo ospiti sgraditi su un pianeta che in nostra assenza sarebbe un Eden (goduto da chi?) è arrivata a delineare la struttura portante di tante politiche ambientali ed ecologiste dei governi mondiali.

Una “caccia all’uomo” rafforzata dalle varie conferenze dell’Onu (sull’ambiente, i diritti umani, la donna ecc.) che ha nemici chiari: “L’umanità che cresce e consuma troppo, la chiesa cattolica che si oppone ai piani di riduzione delle nascite e quella parte del mondo economico che nutre fiducia nelle capacità umane di moltiplicare le risorse”, scrive il Club di Roma, da sempre portabandiera delle politiche di controllo demografico. Idee che fino a qualche anno fa sembravano aver perso vigore, ma che oggi grazie al consenso generale sulle cause antropiche del global warming ha trovato nuova giovinezza e sostegno in molti atti e dichiarazioni di chi governa il mondo. Per questo serve “un’ecologia umana”, scrivono Cascioli e Gaspari, “un movimento della società civile che riproponga l’uomo come punto di partenza e come fine di ogni politica sociale ed economica”. Mentre per ora certa ecologia ha solo dichiarato guerra all’uomo.

di Piero Vietti