DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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Siamo tutti giapponesi. La vera bomba demografica pronta a esplodere è quella della denatalità

Tratto da Il Foglio del 14 settembre 2010

Uno dei più importanti quotidiani giapponesi, il Mainichi Shimbun, racconta in un reportage dalla piccola città di Kanna, a nordovest di Tokyo, quale futuro attenda un paese in cui i tassi di natalità decrescono in modo esponenziale rispetto al resto del mondo industrializzato. A Kanna, oltre la metà degli abitanti ha più di sessantacinque anni e, se non succederà qualcosa a invertire la tendenza, nel 2035 gli anziani saranno il settanta per cento del totale. Il destino di Kanna prefigura, in versione accelerata, quello dell’intero Giappone, che nel 2035, secondo le proiezioni dell’Istituto di ricerca sulla popolazione e la sicurezza sociale, su metà del territorio conterà quaranta ultrasessantacinquenni su cento abitanti. E già tra una quindicina d’anni, con il 30,5 per cento di anziani, la spesa previdenziale giapponese sarà insostenibile, mentre ci si chiede “se le giovani generazioni di allora saranno in grado di sopportare il carico dell’assistenza dei vecchi delle zone urbane”, dice un demografo intervistato dal Mainichi Shimbun. Le fosche prospettive per il futuro accentuano così l’incapacità di fare famiglia e, di conseguenza, incentivano il calo della natalità, in un circolo vizioso che appare inarrestabile. L’aumento delle tasse al consumo, la soluzione più immediata e facile per consentire allo stato di far fronte alle spese sociali – basti pensare che nel giro di tre-quattro anni il traguardo dell’età pensionabile sarà tagliato dai figli del baby boom – va nella stessa direzione: crescita di insicurezza, paura di non farcela a mantenere una famiglia, aumento dei celibi, niente bambini.

Molto istruttivo e molto preoccupante, se si guarda al Giappone come a uno specchio accelerato di quello che sta succedendo anche in Italia. Se il Giappone è infatti il penultimo nella classifica mondiale della natalità (l’ultimo in assoluto è Hong Kong) con un tasso di 7,64 nuovi nati ogni mille abitanti, si dà il caso che l’Italia sia solo un gradino più su, con un tasso di 8,18 (condiviso con la Germania, che però sta lavorando a invertire la tendenza e dal 2007 vede aumentare ogni anno la percentuale di nuovi nati). In Giappone, dall’anno scorso un cartoon intitolato “Kokekko-San” (coprodotto con la Corea del sud, un altro paese che tenta di far fronte alla denatalità devastante) illustra in tv le gioie della famiglia con tanti bambini. Qualcosa ci dice che non è sufficiente.

La “ripresa” demografica italiana è una grande illusione, già finita

Prepariamoci ad amare sorprese. Nel
2008, comunica l’Istat, abbiamo raggiunto
con 577 mila il punto più alto delle
nascite dal 1995, allorché scendemmo a
quota 526 mila (la metà delle nascite rispetto
al massimo del 1964) e all’indice di
fecondità più basso al mondo: 1,19 figli in
media per donna durante l’intera vita riproduttiva.
Sempre nel 2008 questo indice
è risalito a 1,42: ancora uno dei più bassi,
ancora lontanissimo dalla soglia della pura
sostituzione (due figli in media a donna),
ma non più un indice da “dissolvimento”
tout court della popolazione. Ma
577 mila nascite e 1,42 figli in media per
donna sono valori che potremmo non toccare
per chissà quanti anni a venire. La
popolazione italiana, pur continuando nella
sua crescita quantitativa, dovuta esclusivamente
al saldo del movimento migratorio
con l’estero, è infatti destinata nei
prossimi anni: a fare meno nascite, a vedere
l’indice di fecondità tornare ad abbassarsi,
a diventare ancora più vecchia. E
probabilmente l’Italia sta entrando in una
nuova vera e propria depressione di nascite
e fecondità.
Entriamo nel merito della tanto decantata
(nei giorni scorsi) ripresa della fecondità
nel nostro paese. Niente di più passeggero,
perché è fatta di due componenti,
entrambe in fase calante: le nascite ritardate
e quelle dovute alla popolazione immigrata.
Prima componente: le cosiddette
nascite ritardate, ovvero quelle dovute a
donne di almeno 35 anni che, per fare un
figlio, hanno prima atteso di aver raggiunto
tutte le tappe della vita: studi universitari,
lavoro, matrimonio, casa. Sono aumentate
moltissimo perché erano moltissime
le donne nate tra la seconda metà degli
anni Sessanta e la prima metà degli anni
Settanta che hanno alimentato in questi
anni il fenomeno dei “figli procrastinati”.
Ma trascorsa la metà degli anni Settanta
l’Italia è entrata in un periodo di forte caduta
della natalità, ragione per cui negli
anni che si preparano saranno sempre
meno le donne con almeno 35 anni che entreranno
in scena. Così, nei prossimi venti
anni (perché tanto è durato il calo delle
nascite) le donne con almeno 35 anni sono
destinate a una tale contrazione da ridimensionare
in modo significativo anche il
numero dei “figli procrastinati”.
Non va poi meglio alla seconda componente
della ripresa della fecondità in Italia,
ovvero alle nascite dovute alla popolazione
immigrata, che nel 2008 sono arrivate
a rappresentare quasi il 17 per cento
delle nascite. Certo, siccome il saldo del
movimento migratorio con l’estero sarà
positivo di trecentomila persone o giù di lì
ancora per qualche anno, la popolazione
immigrata continuerà per un po’ a dar luogo
a un numero ancora crescente di nascite,
che rappresenteranno a loro volta quote
via via maggiori delle nascite in Italia
nei prossimi anni. Ma intanto, e per prima
cosa, il movimento migratorio annuo in entrata
è destinato a contrarsi – e, anzi, sta
già riducendosi – e, seconda e ancora più
importante cosa, la popolazione immigrata
sta progressivamente acquisendo ritmi
di nascite che si allontanano da quelli dei
paesi di origine per avvicinarsi ai nostri. E
infatti il numero medio dei figli a donna
immigrata, che superava quota 2,5 appena
qualche anno fa, è sceso a 2,3 nel 2008 ed è
destinato a scendere ancora.
Insomma, stante le condizioni attuali,
non sembra esserci scampo. Del resto, basta
leggere nei dati della cosiddetta “ripresa”
per rendersi conto della sua fragilità.
Tra il 1995, anno della massima depressione
delle nascite e della fecondità,
e il 2008, ultimo anno per il quale sono disponibili
dati definitivi, l’età media delle
donne italiane alla nascita del figlio si è
innalzata di quasi due anni, passando da
meno di 30 a quasi 32 anni: una età da record.
In tutte le regioni del centro-nord i
nati da donne ultraquarantenni sono molti
di più dei nati da donne con non più di
25 anni. La fecondità fino a trent’anni della
donna continua a ridursi senza tregua.
Il sud, una volta vera e propria colonna
della demografia italiana, ha un tasso di
fecondità più basso della media nazionale
(1,35 contro 1,42): anche per il minore apporto
degli immigrati, indubbiamente, ma
non meno per il propagarsi a quest’area
del modello del figlio unico tra le coppie
italiane. I risultati di tutto questo stanno
già cominciando a profilarsi. Primi dieci
mesi del 2009: meno 9 mila nascite rispetto
ai primi dieci mesi del 2008. A fine anno
la perdita sarà di oltre 11 mila nascite.
Potrebbe non essere che l’inizio. Le premesse
e le condizioni per un nuovo scivolamento
di proporzioni rimarchevoli della
fecondità per un verso e della famiglia per
l’altro ci sono tutte. A meno che la politica
non si decida a metterci finalmente una
mano. Meglio sarebbe entrambe.

Roberto Volpi

© Copyright Il Foglio 26 marzo 2010

Benvenuto figlio unico!

Ormai è di moda salutare i figli appena nati addobbando la casa, all'esterno, con striscioni, manifesti, nastri azzurri o rosa - dipende dal genere del neonato. E a volte con ornamenti più impegnativi. Intrecciando le piante davanti all'abitazione con fili di luce intermittente. O con altre decorazioni, che manco a Natale ...

"Benvenuto Pietro" (oppure Agata, Dario, Samuele, Greta, Mattia, Sofia, Francesco). Così che tutti sappiano. Che è arrivato il figlio/la figlia tanto atteso/attesa. Dai genitori, dai nonni, dagli zii. Non è il "figliol prodigo", che torna dopo aver dissipato tutto. Accolto con gioia dal padre "misericordioso", che per festeggiarlo fa uccidere il vitello grasso. No, gli annunci e i festoni non salutano il ritorno, ma l'arrivo di "un" figlio. Forse il primo. Forse l'unico. E i genitori, per questo, ci tengono ad annunciarlo al mondo.

Almeno: alle persone e alle famiglie che abitano intorno a loro. E che, nella gran parte, non conoscono. Perché i nuovi quartieri sono affollati da estranei. Così capita sempre più spesso di imbattersi in una bifamiliare imbandierata che celebra l'arrivo di Tito, Giorgia, Marco, Camilla, Matteo. Figli primogeniti e unici di genitori entusiasti di comunicare a tutti - persone note e sconosciute - la loro gioia. Perché il loro Signore: è nato. Difficile immaginare un atteggiamento simile a casa dei miei nonni quando "arrivarono" i miei genitori. Negli anni Venti del secolo scorso. Mia madre: settima di nove figli. Mio padre: sesto di otto.

La loro casa - per anni e anni - avrebbe dovuto essere addobbata a tempo pieno. Come tutte quelle intorno. D'altra parte, la famiglie contadine e quelle povere facevano molti figli. La famiglia di mia madre era contadina, quella di mio padre povera. Oggi le famiglie povere sono "invisibili". Nascondono la loro condizione. Quelle contadine non ci sono quasi più. Le famiglie numerose, con tanti figli, sono, perlopiù, composte da stranieri. Spesso povere. Oppure, al contrario, si tratta di famiglie ricche e borghesi. In entrambi i casi: difficilmente gridano al mondo la nascita di un nuovo figlio.

Mentre per tutti gli altri, la maggioranza dominante, è davvero un fatto raro. Da celebrare e da esporre al piccolo mondo in cui si è inseriti. Il bimbo che arriva, infatti, resterà in quella casa a lungo. Attraverso molte stagioni della vita. Fino a età avanzata. Visto che in Italia quasi tre (cosiddetti) giovani su quattro, tra 15 e 39 anni, risiedono con i genitori. Come ha rivelato l'Istat pochi giorni fa. Una "novità" nota da tempo, che ha diverse ragionevoli ragioni. Perché è difficile per i giovani (e non solo per loro) trovare casa e lavoro (per mantenersi). Perché i legami stabili sono sempre meno frequenti e, comunque, le coppie di giovani vanno a (con)vivere insieme sempre più tardi. Perché a casa con i genitori, in fondo, i figli stanno bene. Poche spese. Trovano pranzo e cena. La loro camera arredata e accessoriata con tutte le tecnologie più avanzate (a carico della famigli). Alla biancheria pensa mamma. E poi, a differenza di un tempo, dei miei tempi, sono "liberi". Di andare e venire a loro piacimento. Di fare quel che vogliono. Per cui non "vivono" con i genitori.

Ci passano e ci stazionano quando e per quanto è loro necessario. Poi ripartono. Ritornano. A volte incrociano i genitori. "Come va? dove sei stato? Quanto ti fermi? Quando riparti? Sei da solo? Hai bisogno di qualcosa?". Invece, per le generazioni precedenti andare via di casa, sposarsi, mettere su casa era un modo di fuggire, di conquistare l'autonomia. Oggi non è più così. Si è liberi anche da giovani. Quando si sta in famiglia. I figli. Da piccoli sono trattati come ninnoli. Coccolati, accuditi, assecondati. Da tutti: genitori, nonni, zii. E, ovviamente, controllati.

Tenuti d'occhio come una risorsa scarsa e - dunque - di valore. Da conservare con cura, quando crescono. Perderli, per i genitori, significherebbe restare soli. Senza rimedio. Così diventa difficile staccarsi. E figli restano nella casa in cui sono nati sempre più a lungo. Anche dopo il matrimonio. In un appartamento ricavato approfittando di qualche deroga edilizia. Oppure costruito lì accanto. Per mantenere solide relazioni di reciprocità. I nonni crescono i nipoti. I figli assistono i genitori. Così la catena biografica si allunga sempre di più. In questa costellazione di famiglie, strette e lunghe. Ma solide e radicate. Determinate a resistere e ad esistere. Piantate nello stesso luogo. Una società dove genitori, figli e nonni coabitano tanto a lungo che le distanze fra le generazioni si perdono. In un presente senza fine che si interrompe solo quando nasce un figlio. Salutato in modo vistoso, come un evento formidabile.

E allora benvenuta Federica. Benvenuto Alberto. Benvenuto Ruggero. Benvenuta Greta. Benvenuto Elia. Tracce di un futuro introvabile.

(La repubblica 30 dicembre 2009)

L'inverno demografico e il futuro dell’Europa

di Giorgio Salina*


BRUXELLES, giovedì, 5 marzo 2009 (ZENIT.org).- Il 4 marzo si è svolta, presso il Parlamento europeo a Bruxelles, una Conferenza dal titolo “Inverno demografico e il futuro dell’Europa”, organizzata dal Gruppo Del Partito Popolare Europeo (PPE) e dell’ELFAC - European Large Families Confederation - (Confederazione di associazioni delle famiglie numerose europee).

Alla Conferenza ha partecipato, con propri inviati, anche l’ANFN (Associazione nazionale Famiglie numerose), un'Associazione italiana che fa parte di ELFAC.

Coordinava i lavori la sign.ra Marie Panayotopoulos-Cassiotou, eurodeputata greca del Gruppo del PPE, Presidente dell’Intergruppo per la Famiglia e per la Protezione dell’Infanzia, che in passato ha ricoperto la carica di Rappresentante della Confederazione greca delle famiglie numerose COFACE (1998-2004).

La Panayotopoulos è stata molto attiva, lungo l’arco di tutta la legislatura che sta per chiudersi, sui temi della famiglia e dell’infanzia; temi che hanno avuto un notevole impulso a partire dalla Presidenza tedesca dell’UE, nel primo semestre del 2007.

Da allora numerose sono state le iniziative: il CESE (Comitato economico e sociale europeo) ha svolto un’indagine conoscitiva sulla situazione della denatalità e della famiglia in Europa, condensata in un “libro bianco” dal sign. Stéphane Buffetaut, successivamente utilizzato per i lavori del Parlamento, che ha organizzato numerosi convegni ed audizioni in merito.

Occorre precisare che le risoluzioni del Parlamento europeo su questi temi non hanno valore vincolante perchè la materia è di competenza dei singoli Stati membri, tuttavia è evidente che hanno notevole “peso politico”.

Nel corso della Conferenza svoltasi mercoledì scorso, è stato presentato un documentario, che, per esplicita dichiarazione degli stessi organizzatori, ha l’obiettivo di sollecitare i Parlamentari europei affinche “prendano coscienza della gravità del problema (meno due milioni di nuove nascite all’anno tra i Paesi dell’Europa dei 27!) e siano più incisivi verso quei paesi, come l’Italia, che tardano a prendere misure serie per contrastare la bassissima natalità e continuano ad attuare politiche fiscali e tributarie che colpiscono duramente proprio le famiglie che hanno messo al mondo più figli”.

Il documentario sintetizza efficacemente i rischi dell’Europa a causa del crollo verticale della natalita - 50% in 50 anni -, che ha determinato “l’inverno demografico” del continente, ulteriormente aggravato dall’aumento dell’attesa di vita. Conseguenza di ciò potrebbe essere il peggioramento della già grave crisi economico-finanziaria attuale, sino al collasso economico. Ad esempio, un piccolo Paese come la Lettonia vede a rischio la propria sopravvivenza.

A partire dagli anni 70, quando si temeva la “bomba demografica”, sono cessate del tutto le già scarse politiche familiari e di promozione della natalità, sino al dramma odierno, di cui le prime vittime sono le famiglie numerose. Il documentario afferma che condizione essenziale per la ripresa e lo sviluppo è il rilancio della natalità, per tornare all’attivo del saldo demografico, e quindi condizione indispensabile è il rilancio di una sera politica a favore della famiglia.

Anche in questa, come in altre occasioni, è stato riconosciuto che alcuni Paesi, come ad esempio la Francia, hanno adottato politiche di sostegno alla famiglia. Ed i risultati cominciano a vedersi. Varie sono le misure ipotizzate, tra le altre: l’aumento dei servizi sociali a disposizione della donna lavoratrice, i congedi parentali per entrambi i genitori, agevolazioni fiscali progressive per le famlie in funzione dei figli minori.

Tutte proposte condivisibili. Ma, se posso esprimere una considerazione e formulare una proposta, anche in questa come in altre occasioni è tuttavia mancata, accanto alle richieste di agevolazioni e facilitazioni per la donna lavoratrice, e alle misure a favore della famiglia, una pressante domanda di valorizzazione sociale ed economica della donna “moglie e madre a tempo pieno”, scelta di enorme importanza per le nostre società, e ricchezza insostituibile della nostra tradizione e cultura.

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*Presidente dell’Associazione Fondazione Europa

Denatalità e crisi economica, qualcuno non vuol capire. di Ettore Gotti Tedeschi

Tratto dal sito Svipop il 25 novembre 2009

«L'età della pietra non finì perché l'uomo rimase senza pietre e l'età del ferro non finì perché rimase senza ferro... Finirono perché l'uomo seppe escogitare qualcosa di nuovo, di meglio...». Così scrive l'economista indiano Indur Goklany in The improving state of the world (Cato Institute 2007).

Con troppa frequenza negli ultimi tempi abbiamo letto o ascoltato considerazioni di chi, per spiegare fenomeni economici o climatici, mette in discussione l'utilità della vita umana. E queste tesi cerco di contestarle da circa due anni sulle colonne dell'Osservatore Romano diretto da Giovanni Maria Vian.

Il maggior economista-demografo contemporaneo, Alfred Sauvy, ha spiegato e dimostrato che tra crescita della popolazione e sviluppo economico c'è una perfetta correlazione. Ancora oggi, al contrario, altri studiosi affermano disinvoltamente che la crescita demografica origina il cambiamento climatico e non è invece origine della crisi economica, anzi: che il crollo della natalità ha fatto bene ai paesi occidentali mentre nei paesi più poveri ha provocato maggior povertà.

L'insistenza con cui si continua a imputare alle nascite umane molti mali di cui soffriamo, senza poterlo dimostrare, ci ha portato invece a soffrire danni peggiori. Si pensi alle teorie neomalthusiane di metà anni 70, divulgate e accettate proprio nel mondo occidentale, che - estrapolando dati confusi - previdero che prima della fine del secolo milioni di persone sarebbero morte di fame per mancanza di risorse (in Cina e India).

Oggi verrebbe da ridere a pensare a queste capacità interpretative e previsionali, eppure l'attitudine a continuare a credere a spiegazioni "intuitive" riguardo la popolazione non cessa. La stessa Onu spiegò che tra il 1900 e il 2000 la popolazione mondiale era sì cresciuta di 4 volte, ma il Pil mondiale era cresciuto di ben 40 volte.

In più è bene ricordare che, mentre negli anni Sessanta la crescita della popolazione nei paesi poveri era di ben sei figli a coppia, nel 2005 scende a tre figli. Così nel 1960 il Pil dei paesi ricchi era 26 volte quello dei poveri, negli ultimi anni, grazie allo sviluppo di Cina e India è sceso a 5/7 volte.

Già il reverendo Malthus nel 1798 e l'economista del Mit Lester Thurow più recentemente, hanno cercato di spiegare che per far crescere il Pil si devono ridurre le nascite, ciò perché la crescita economica è più alta quanto il rapporto Pil/popolazione è superiore a uno. Così basta ridurre il denominatore, anziché aumentare il numeratore...

Ma altri due economisti, Shumpeter e Solow, negarono queste teorie malthusiane proponendo come soluzione invece proprio la crescita del numeratore, cioè il genio innovativo dell'uomo capace di sviluppare tecnologie per far crescre il Pil senza ridurre le nascite. Fu allora che si manifestarono le vere “intenzioni” verso la razza umana, spostando il problema dalla crescita economica all'ambiente.

Ciò fu fatto affermando che la crescita economica legata alla crescita della popolazione era intrinsecamente perversa perché peggiorava la qualità della vita, incoraggiava bisogni superflui provocando consumo di risorse non rinnovabili e conseguentemente inquinando il pianeta. Dimenticando o ignorando che è la ricerca tecnologica che migliora questo tipo di qualità della vita e che questa ricerca si può sostenere se la ricchezza cresce e questa cresce realmente e sostenibilmente se cresce la popolazione.

Se in un paese la popolazione non cresce, il suo rischio non è solo di regressione economica, ma anche di riduzione di potere politico verso altri paesi. Non si dimentichi lo shock provocato da un report di una nota banca d'affari americana a fine anni 90 quando spiegò che, crescendo gli Usa del 3% all'anno e l'Asia del doppio o più, entro il 2020 gli Usa sarebbero cresciuti dell'80% e l'Asia del 165% con conseguenti effetti di potere economico e politico. Non è illecito pensare che questa previsione possa aver influenzato la diponibilità dei governi Usa a sostenere la politica di crescita del Pil anche con i famosi mutui subprime...

Riguardo il rapporto tra cambiamento climatico e popolazione, quel che si dovrebbe auspicare è un vero confronto e chiarimento scientifico fra opposte tesi. Non è pensabile che vi siano scienziati che sostengono che i cambiamenti climatici siano dovuti all'eccesso di popolazione e altri che li imputino a fluttuazioni climatiche assolutamente naturali e per nulla eccezionali. Così come non è pensabile che esistano differenze così grandi sul fatto che la scienza empirica abbia stabilito o no una connessione univoca tra l'aumento dell'anidride carbonica e il riscaldamento globale osservato.

Se è vero che nel XX secolo la temperatura media globale è cresciuta solo di circa 0, 6 gradi centigradi, il problema del riscaldamento globale cosa è, fantasia o realtà? Il vero problema però, riguardo questa risposta, è che non si chiede tanto un dovuto risparmio energetico o maggior sobrietà nei consumi, entrambi opportuni, si sta invece suggestionando l'opinione pubblica affinché si veda nell'uomo e nelle nascite origine e causa della distruzione della Terra. È l'uomo il nemico da sconfiggere per salvare la Terra?

Da sempre, dai tempi più remoti, l'uomo sulla Terra ha temuto che si fosse in troppi. Anche per Caino, Abele era di troppo, creava problemi di competizione economica nell'allevamento ovino e inquinava l'ambiente con i suoi troppi sacrifici a Dio...

* Presidente dello Ior