DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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Per salvarci dalla «decadenza dell’uomo»: la memoria


«Decadenza dell’uomo» vuole dire che l’uomo si rattrappisce, che l’uomo diventa meschino. E, infatti, quando quello che si guarda o i rapporti che si stabiliscono rispondono esclusivamente alla reazione che è provocata e che si afferma in noi, oppure quando i giudizi o i rapporti nascono dal tentativo - sempre, in fondo in fondo, un po’ isterico - di affermare i propri progetti (nel rapporto con la ragazza o col ragazzo, nella famiglia, nel lavoro, nello studio o nella vita culturale, oppure nella politica), la meschinità significa che uno è come imprigionato, l’orizzonte non è più aperto e il tempo diventa giudice, perché uno si annoia di quello che ha fatto e di quello che fa, non può sostenere niente e niente può durare, anche se al momento può dare un certo gusto. Occorre che il limite della nostra prigionia venga spaccato. E - ecco l’aspetto della liberazione - la nostra prigionia viene spaccata soltanto se il muro si apre ed entra dentro l’infinito. È per questo che Sua Eminenza ha detto: chi rifiuta Dio, o ne perde e ne sminuisce il senso, allora decade. Perché la libertà è come senza confini, e senza confini è il rapporto con Dio. Ma quanta fatica per l’uomo!
Come noi ammiriamo tutti gli sforzi che gli uomini hanno fatto per aderire a Dio, per immaginarselo, per stabilire un rapporto affettivo con Lui e per esprimere esteticamente l’emozione che questo pensiero destava in loro - vale a dire, le varie religioni -! Ma la Madonna l’aveva lì, il Mistero infinito era lì, mentre mangiava e beveva, mentre vegliava e quando si coricava. Che dimensioni diverse per lei avevano tutte queste cose! Non poteva, in qualsiasi momento, dimenticare quel rapporto che la legava a quella creatura, prima che nascesse, dopo che era nato, vedendolo diventare grande. In lei dominava la memoria.
La “memoria”: è questa la grande parola che rinverdisce continuamente e libera continuamente la nostra vita, che altrimenti continuamente sarebbe tentata, cioè sarebbe schiacciata in un limite di prigionia, in un peso. È questa memoria, infatti, che libera dal peso dell’esistenza. Come quando Gesù vide quel funerale tra i campi - come abbiamo ricordato tante volte tra noi - e sentì gridare quella donna, gridare disperata, e allora s’informò, fece un passo in avanti e le disse: «Donna, non piangere!»7, che - come abbiamo notato tante volte - è un controsenso, sembra un controsenso, perché come si fa a dire a una mamma che ha il figlio morto: «Donna, non piangere!»? Ma è la più grande, la più bella espressione di quella tenerezza, cioè di quella passione per l’uomo, senza della quale, senza sentire la quale, senza renderci conto della quale, è impossibile capire il Signore. In questo senso il Signore è venuto per pietà dell’uomo, e l’origine della sua mossa non è quindi una origine, starei per dire, di “religione”, ma di umanità. Questa memoria come rendeva diverse tutte le azioni che la Madonna faceva! Dio tra di noi è diventato una realtà presente.
Come dobbiamo raccogliere dalla Madonna questo invito che essa ci fa, che la sua figura ci fa? Abbiamo una devozione grande, un’attenzione grande a tutto ciò che ci richiama alla memoria Cristo: dal grande mistero della Chiesa tutta, al mistero vivente e concreto della nostra Chiesa particolare, della nostra parrocchia, della comunità di amici, delle persone della famiglia: sono veramente - dopo l’adorazione a Dio, dopo la gratitudine a Dio - la gratitudine più grande della nostra vita. Quasi un’adorazione deve andare a questa realtà umana in cui la memoria di Cristo, vale a dire in cui il ricordo della Sua presenza ci è richiamato, perché da soli siamo distratti; possiamo anche studiare teologia, ma qui si tratta di un sentimento, di una coscienza, ma una coscienza che investe, tende a investire tutta la nostra affettività, che deve come qualificare un modo con cui guardiamo tutte le cose e quindi il modo con cui trattiamo tutte le cose.
Che grazia, che grazia questo segno della Sua presenza, l’umanità che ci richiama a Lui: dalla Chiesa alla famiglia, all’amico, all’amico personale. Questa è la vera amicizia. Io ho sempre sentito vivamente questo valore che l’icona di Maria richiama alla nostra coscienza, fin da quando ero ancora ragazzetto di ginnasio e, durante i cammini del giovedì, durante le uscite dal seminario - in fila, allora, a tre a tre -, specialmente con due miei compagni, mi sentivo sempre richiamato a queste cose e sognavamo. La gloria di Cristo è più grande e sfonda tutti i limiti dell’immaginazione con cui noi cerchiamo di dargli omaggio, ma ricordarlo, ricordarlo - di qualunque forma il ricordo possa ornarsi -, ricordarlo è, nella nostra vita, il punto in cui la nostra vita si libera: si apre la prigione dell’affezione, la prigione della compagnia, la prigione del lavoro, la prigione della fatica, la prigione di se stessi.
Ora, questa memoria, proprio perché non è il ricordo del Mistero immaginabile e ineffabile, ma è il ricordo di una umanità presente (il Mistero è diventato un uomo, e
«Sono con voi - Egli ha detto - tutti i giorni, fino alla fine del mondo»8), si chiama “fede”. Quando ella ha detto: «Fiat», «Sì», ha espresso nel modo più breve, sintetico e grandioso la fede di tutti i tempi.

( Appunti dall’intervento di Luigi Giussani durante il pellegrinaggio dei giovani al Santuario di Caravaggio, promosso dalla diocesi di Milano in occasione dell’Anno Mariano. 18 giugno 1988)


Chi sono i farisei di ogni tempo? don Giussani:

La corruzione della moralità - oggi particolarmente in voga - si chiama moralismo.

Il moralismo è la scelta unilaterale dei valori per avallare la propria visione delle cose. Normalmente gli uomini capiscono che, senza un certo ordine, non si può concepire la vita, il reale, l'esistere. Ma come definiscono quest'ordine? Considerando la realtà secondo i vari punti di vista da cui partono, la descrivono nei suoi dinamismi stabili e mettono in fila un seguito di principi e di leggi, adempiendo i quali sono persuasi che l'ordine si crei. Ecco allora che si scandiscono, in ogni epoca, le varie proposizioni analitiche in cui la riflessione distende le sue pretese: “Bisogna fare così e così”. I farisei definivano l'ordine con un numero quasi infinito di leggi: da un certo punto di vista il fariseo è l'uomo affezionato all'ordine, il difensore della morale intesa come quell'ordine affermato e delineato, in quanto possibile all'uomo, secondo tutti i suoi dettagli.

Il moralismo si traduce in due sintomi gravi. Il primo è, appunto, il fariseismo. Nessuno è più antievangelico di chi si considera onesto, perchè non ha più bisogno di Cristo. Il fariseo vive senza tensione, perchè stabilisce lui stesso la misura del giusto e la identifica con ciò che crede di poter fare. Come contraccolpo, egli usa la violenza contro chi non è come lui. Il secondo sintomo perciò è la facilità alla calunnia. Da un lato, dunque, giustificazione per se stessi. Dall'altro, odio e condanna del prossimo. (..)

Nel Regno di Dio non c'è nessuna misura, nessun metro. “Nessuno giudichi, perchè Dio solo giudica”. San Paolo dice anche: “Io non giudico nessuno, neanche me stesso”. Solo Dio misura tutti i fattori dell'uomo che agisce e la sua misura è oltre ogni misura: si chiama misericordia, qualcosa per noi di ultimamente incomprensibile. Come l'uomo Gesù che ha detto di coloro che lo uccidevano: “Padre, perdona loro perchè non sanno quello che fanno”: sull'infinitesimo margine della loro ignoranza Cristo costruiva la loro difesa. La nostra imitazione di Lui è nello spazio della misericordia.

Per questo la moralità è una tensione di ripresa continua. Come un bambino che impara a camminare: cade dieci volte, ma tende a sua madre, si rialza e tende. Il male non ci ferma: possiamo cadere mille volte, ma il male non ci definisce, come invece definisce la mentalità mondana, per cui alla fine gli uomini giustificano quello che non riescono a non fare. (..)

Luigi Giussani

(da Generare tracce nella storia del mondo, Rizzoli)

*******

Ecco anche un passo significativo di Dostoevskij, citato da Karamoazov:

Quest'uomo ingiuriava Cristo in mia presenza con i più bassi insulti,e tuttavia non è mai stato capace
di mettere a confronto con Cristo se stesso
e tutti i progressisti di questo mondo.
Non è mai stato capace di accorgersi quanto c'era in lui stesso
di meschino amor proprio, di odio, d'insofferenza,
d'irritabilità, di volgarità, ma soprattutto di amor proprio.
Insultando Cristo, lui non si è chiesto: ma cosa metteremo al suo posto?
Non possiamo mica metterci noi stessi, che siamo così spregevoli.

Fëdor Michailovic Dostoevskij

(Lettere)

Compito della Chiesa non è la soluzione dei problemi del mondo La testimonianza controcorrente di don Luigi Giussani

di Vincenzo Barcellona

Nelle sue tante indimenticabili pagine, don Luigi Giussani dà una risposta a molte di quelle domande che nascondono una sottile e subdola vena denigratoria nei confronti della Chiesa. Una tra queste suona all’incirca così: perché invece di vivere nel lusso i preti di ogni chiesa, specie quelli del Vaticano, non aprono le loro porte, accogliendo e soccorrendo i poveri? Il paradosso è infatti questo: molti, pur non avendo alcuna stima della Chiesa, pretendono che questa risolva i problemi del mondo, specie i più complessi. Quelle a cui facevo riferimento sono pagine dedicate alla Chiesa, con particolare riguardo alla sua natura e alla sua autocoscienza (1).

Giussani sofferma la sua attenzione, in modo particolare, sul seguente passo del Vangelo di Luca: Uno della folla gli disse: “Maestro, dì a mio fratello che divida con me l’eredità”. Ma Egli rispose: “O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?”. E disse loro: “Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell'abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni (Lc 12,13-15). Anche noi, dopo duemila anni, rimaniamo attoniti di fronte a come Gesù, con decisione, dichiara che non spetta a Lui dirimere la questione tra i due fratelli. Non dobbiamo però arrestarci di fronte a questa perplessità. Gesù infatti li richiama a non attaccarsi a ciò da cui la vita non dipende, in questo caso il denaro, ricordando loro, e a tutti noi, che la vera dipendenza è quella da Dio. Scrive Giussani: “E, forse, quell'amore al denaro che ingiustamente faceva trattenere al fratello la parte di eredità che non gli sarebbe spettata, era lo stesso amore al denaro presente nell'altro fratello che reclamava i suoi diritti” (op. cit. p. 206).
Aggiunge poi il fondatore di CL: “Tutti noi avvertiamo che i problemi sono la stoffa delle nostre ore e delle nostre giornate, problemi grandi e piccoli. E se c’è un impeto che segna ogni vita, è l’impeto a risolverli. Filosofie e ideologie, realtà sociali e politiche propongono delle soluzioni” (op. cit. p. 201). Traendo spunto dall'episodio citato, riferito solo da San Luca, e facendone di esso il supporto teologico, Giussani ci indica quale sia in realtà la preoccupazione pedagogica di Gesù e quindi della Chiesa, suo prolungamento nella storia: Suo compito non è quello di fornire soluzioni ai problemi umani. Tali soluzioni devono scaturire da uno sforzo ascrivibile all’uomo: “l'uomo è all’interno di una possibilità di soluzione, perché Dio non ci ha immesso nel flusso del tempo senza una ragione” (op. cit. p. 208). Mettersi al posto dell’uomo non sarebbe rispettoso della libertà umana; per la Chiesa sarebbe un'illusione, paragonabile a quella dei genitori che pretendono di aiutare i figli sostituendosi ad essi. “La libertà è il dono più grande che i cieli abbiano fatto all’uomo”, perciò il cammino di ognuno deve essere poggiato sulla sua propria libertà. Eccoci così al punto fondamentale: la Chiesa non ha il compito di fornire soluzioni per gli ostacoli e le difficoltà che ciascuno incontrerà nell’arco della propria vita, né tanto meno alle società in cui essa è inserita o, addirittura, al mondo intero. Ciò non significa però che sia “uguale a zero la funzione di Cristo e della Chiesa nei riguardi dei problemi degli uomini. (. . . ) da essi gli uomini vengono sollecitati a quei principi e a quelle condizioni, non perdendo di vista i quali tutto si trova a poter essere affrontato con verità” (op. cit. p. 206).
Il vero compito della Chiesa, analogamente a Gesù nella narrazione evangelica, è quello di esercitare un richiamo continuo a quei valori, a quel giusto atteggiamento che mette l’uomo nelle condizioni ottimali per dispiegare il suo potenziale di creatività umana: in particolare per far sì che i problemi siano risolti nel miglior modo possibile, o per dirla con Giussani, con più “rendimento”. È questo l’atteggiamento secondo il quale dovremmo sempre tenere presente che gli sforzi umani di risoluzione non sono dentro un meccanismo concepito dall’uomo, cioè dentro le ideologie. Ai problemi potranno essere date risposte tanto più efficaci e durature quanto più l’uomo si trovi in una posizione di attenzione, tanto per fare un esempio concreto, al “richiamo al valore della persona dell’altro – carità – o al contesto nel quale il denaro deve trovare il suo giusto posto con misura” (op. cit. p.207). Certo non è “la formula magica” per affrontare tutto con facilità “ma è il fondamento per cui la soluzione sia più facilmente umana”. (op. cit. p.207).
D’altro canto, ecco un ulteriore motivo per il quale la pretesa laicista di ridurre la Chiesa al silenzio non può essere accettata: significherebbe per essa venire meno a uno dei suoi maggiori compiti, costringendo il credente a rinunciare ad ascoltare la voce di una madre premurosa. Nonostante quanto abbiamo detto, chi ha però il coraggio di dire che la Chiesa, dalla sua fondazione, non abbia comunque collaborato, a fianco degli uomini, alla soluzione dei problemi del mondo con i suoi martiri, i suoi pastori, i suoi missionari?


(1) L. Giussani, Perché la Chiesa, Rizzoli, Milano 2003.



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Da quale vita nasce Comunione e Liberazione. INTERVISTA A LUIGI GIUSSANI, a cura di Giorgio Sarco, maggio 1979

DA QUALE VITA NASCE
COMUNIONE E LIBERAZIONE
INTERVISTA A LUIGI GIUSSANI

a cura di Giorgio Sarco, maggio 1979

TRACCE





Questa intervista a don Giussani fu effettuata nel maggio 1979
per il settimanale Il Sabato, che la pubblicò nel n. 20 del
19/05/1979, omettendone, per ragioni di spazio, diverse parti.
La presentiamo qui nella versione integrale, che fu pubblicata
come supplemento a Litterae Communionis CL n. 7-8 (1979) e
successivamente in Un avvenimento di vita, cioè una storia (Edit
- Il Sabato, Roma 1993, pp. 347-371).


Cos’è propriamente Comunione e Liberazione, un progetto sociale, una
cultura, una strategia educativa, o che cosa altro ancora ?
Comunione eLiberazione è solounaintuizione del cristianesimocome
avvenimentodi vita equindi come storia.Findagli inizidelmovimento
è stato sempre sottolineato che un’idea, un valore intuito, si svolge in
unmetodo di affrontodella realtà,che a sua voltaoperauncambiamento
di tutti i rapporti che si vivono.Egualmente l’intuizione cristiana si svolge
in unmetodo di giudizio e di vita.
Iocredochelastoriaelosviluppocheilmovimentohaavutodipendono
anzituttodalla centrata autenticitàdell’intuizioneoriginaria,cioèdelpunto
di vista dal quale siamo partiti per impegnarci con il fatto cristiano.
Ricordare come questa intuizione sia nata inme è risvegliare una dellememoriepiùbelledellamia
vita.Certo, laprima intuizione che l’orizzonte
dell’esistenza è l’amore diDio si è accesa in una situazione spirituale
preparata dall’educazione familiare e poi approfondita dalla vita
seminaristica;mapropriamente essa è sbocciata edivenuta consapevole
quandoholettoe compresoper laprima volta convera intelligenza l’inizio
del vangelo di Giovanni: «IlVerbo si è fatto carne».Ricordo come
ilmioprofessore inseminario,donGaetanoCorti (che attualmentemi
pare insegni Storia del cristianesimo all’Università di Trieste), spiegava
questo passo a noi ragazzi, dicendo che la chiave di volta della realtà
ed il centro della vita della persona e delmondo si era resopresenza
incontrabile per ciascuno di noi in Cristo.
In quel tempo leggevo Leopardi con grande gusto e passione; ed in
particolaremi soffermavo sulCanto alla sua donna, che uno deimaggiori
commentatori, il Levi, considera chiave di volta dell’intera vicenda
spiritualedelpoeta.FinoadalloraLeopardi si era innamoratodiuna
donna,poi di un’altra,poi di un’altra ancora;ma capiva che era un’altra
cosa quella che cercava dentro il volto di ogni donna: la Bellezza, a
cuinessuna figuradidonna rendeva totale giustizia.Scaturì allora inlui
quella che si può giustamente chiamare preghiera, la preghiera di un
ateo: «Se delle eterne idee / L’una sei tu, cui di sensibil forma / Sdegni
l’eterno senno esser vestita, / E fra caduche foglie / Provar gli affanni di
funerea vita /.../Diquadove songli anni infausti ebrevi /Questod’ignoto
amante inno ricevi».Ho incominciato a capire l’inizio del vangelo
diGiovanni,«ilVerbosi è fattocarne»,mettendoloa confrontoconquesta
lirica che esprime, in un certo senso, il livello più profondo della ricerca
umana. L’uomo è, spesso inconsapevolmente,mendicante della
Bellezza,dellaVerità,dellaGiustizia, senza poterle trovare inalcunluogo.
Ma laBellezza fatta carne, laVerità fatta carne, laGiustizia fatta carne
sono fra noi, sono ilVerbo diDio, sonoGesù Cristo
Di quello stesso periodo ricordo anche, e nello stesso senso, ilmodo
con cui il rettore del seminario, attuale cardinale diMilano,Giovanni
Colombo, spiegava e commentava laDivinaCommedia,opera del genio
più espressivo di un popolo formato dall’esperienza della Chiesa.
Da allora, la prima volta cheho sentito ripetere,conunsussulto, l’intuizioneoriginaria
chiaritadalle esperienzedi quegli anni,e conlostesso
accento, è stata nell’enciclica di Giovanni Paolo II: «Cristo è centro
del cosmoedella storia».Èquesta, infatti, l’intuizione chemi sonoportatodentroper
tutta la vita seminariale; essaha costituitoilmotivoesauriente
per cui sono andato ad insegnare religione nelle scuole: appunto
per comunicare ai giovani quella verità chemi aveva colpito e la necessità
di cambiare la vita alla luce di essa.
Un altro elemento che ha contribuito alla crescita delmovimento, a
farne quello che è, è stato il tipo umano a cui questa intuizione si è rivolta:
i giovani,chehannoportatoinquegli anni la freschezzadella loro
semplicità e della loro generosità, e l’hanno comunicata, attraverso le
vie normali di un’amicizia, in tutt’Italia.

IL METODO DELL’ESPERIENZA

Ci ha detto che all’inizio della storia delmovimento di Comunione e Liberazione
c’è un’intuizione, svolta in unmetodo di vita e di presenza, e ci
haparlatodi questa intuizione.Potrebbe ora chiarire incosa consiste ilmetodo
attraverso il quale essa è cresciuta?
Il cristianesimoè l’annunciocheDiosi è resopresenza incontrabilenella
storia,comeunqualsiasi fattoredell’esistenzaumana.Diosi è resoconstatabile
nella realtà di un segno che duemila anni fa era l’umanità singolare diCristo e oggi,per Sua volontà, è l’unità dei credenti, laChiesa.
Èimbattendosi inquestosegnoche l’uomorealmente fa esperienzadella
presenza diDio.
Ilmetododunqueconsisteinquesto:chel’intuizionediventaesperienza.
L’esperienza è anzitutto l’imbattersi in un segno, in una realtà oggettiva
chemobilita lapersona verso il suo fine,verso il suodestino (edinquestamobilitazione
lapersonaèprovocataaduncambiamento,adunaconversione).
L’esperienza è il luogo incui si vede se ciò che si è intuito vale
per la vita. L’oggetto in cui l’uomo si imbatte, il segno, è una provocazione.
La presenza diCristo nella vita dell’uomo del nostro tempo non
arriva inmodostoricamente efficace senoncomeprovocazione cheperturba
ilmodo di concepire la realtà, anzi addirittura perturba ilmodo
di percepirla e, quindi,perturba i criteri con cui valutare e decidere.
Il primo elementometodologico è l’insistenza sulla certezza, costitutiva
del nocciolo della intuizione cristiana, cheCristo è il centro del cosmoedella
storia:questa «parola chiara»,questa certezza già insé è sconvolgente
- e lo si vede da questo Papa -, contiene una suggestività profonda
incui si rivela l’attesa continua,anche se inconscia,che l’uomoha
di questo annuncio.
Laportatadiveritàdiquestoannuncio,la suadensità esistenziale,come
tuttonellavita,devesvolgersi inregolaorganica,indinamismosistematico.
È in questo l’importanza della verifica, secondo elementometodologico:
essa esige che, avendo ascoltato un annuncio vero, la persona paragoni
con esso il flusso della propria vita, e perciò la trama dei propri bisogni,
problemi,situazioni,reazioni,esigenze,eccetera.Solocosì l’incontro
con Cristo diventa un punto di vista nuovo, una vera e propria ipotesi
di lavoro a partire dalla quale vedere ed affrontare tutto ciò che il dinamismo
normale della esigenza quotidiana implica. Per questo l’atteggiamento
di «verifica» sbocca in una cultura, cioè in una comprensione
complessiva e rinnovata della realtà.

UNA SFIDA CULTURALE

Tuttavia Comunione e Liberazione è stata spesso accusata di non capire
l’importanza della «mediazione culturale» e di non valorizzarla...
Questa accusa nasce il più delle volte, io credo, da una concezione ristretta
e, tuttosommato,meschinadi cultura.Al fondodiogni vera grande
cultura umana, come al fondo di ogni vera opera d’arte o di ogni
vera filosofia, c’è sempre una intuizione creativa, che si sottopone al rigore
diunmetodo.Unaffronto che dimentichi l’importanza del rigore
esigitoda ogni singolo oggetto,è sentimentale;mauna cultura che censuri
programmaticamente l’intuizione originaria è astratta. In qualchemodo
l’inizio dell’atteggiamento culturale dei cristiani è delineato
dalla esortazione di sanPietro a «rendere ragione della speranza che
è in voi» (1Pt 3,15).Questo suppone una interrogazione che parte dal
mondo e raggiunge il cristiano.Per «rendere ragione» ènecessario prima
di tutto che la speranza sia così evidente da colpire gli osservatori,
costituire per essi un incontro e costringerli a domandare.
Se tale puntodi partenzamanca,nonè possibilenessuna costruzione
culturale inserita nella dinamica della fede.La cultura, infatti, è la passioneumana
sollecitata epotenziatadall’incontro.Nella concezionepaolinaCristo
è «la chiave di volta cui sono sospesi ontologicamente tutti
gli esseri» (Huby).Esistenzialmente ciò significa cheCristo è il puntodi
vistaunitariocapacedi far affrontarequalsiasi aspettodell’esistenza.
Chi capiscequestosi trova trasportatodi colponel cuorediun’autentica
posizione culturale,anche se gli strumenti conoscitivi di cui disponesse
fossero del tutto inadeguati ad esprimere la profondità di quella comprensione
a lui donata.Èproprio vero quanto sta scrittonelSalmo 118:
«Ho più senno di chimi è più avanti negli anni, perché la Tua legge,
Signore, è l’oggetto dellamiameditazione».
Questa implicazione globale del cristianesimo è ciò che fin dal principio
ha generato nei nostri ragazzi gusto e decisione ad affrontare
criticamente e creativamente l’ambiente della scuola, con tutte le sue
asprezze e difficoltà.Aripensarci adesso, c’è da rabbrividire per la buona
dose di incoscienza,mamolto di più da ringraziareDio per la semplicità
di cuore con cui abbiamo affrontato l’ideologia dominante nelle
scuole e nelle università, tecnicamente cosìmeglio attrezzata di noi,
ma così povera di proposta per la vita e quindi di cultura vera.
Nella obiezione rivolta fin da allora al nostro atteggiamento culturale,
mi sembra ci fosse unameschinità nel comprendere quale sia
il metodo del fare cultura.Mancava, in coloro che ci criticavano, la
comprensione del fatto che un orizzonte globale ed un punto di vista
veramente unitario sono l’implicazione e l’esigenza ultima di ogni
vera impresa di studio e di ricerca.Al livello più profondo, infatti,una
posizione culturale si identifica con una passione globale per la vita
e per ilmondo. Infatti,quello che si aveva dimira attaccando noi, era
opporsi all’affermazione che la realtà di Cristo è la chiave di volta di
una visione sistematica e critica della totalità dell’esperienza umana.
Alivello ultimo la posizione culturale coincide dunque con una forma
nuova del soggetto in quanto tale.Questo non è sostitutivo di nessunamediazione,
non abilita a scansare nessuna fatica e non provoca
il salto di nessun tempo che tale faticamisuri.
Alcune critiche che ci venivano rivolte nascevano dalla giusta preoccupazione
che la nostra posizione e volontà culturale si identificassero
con talune grandi affermazioni ideali non giocate in un lavoro,
come se per fare cultura bastasse un’intuizione, anzi affermare
di averla avuta. Invece l’intuizione, se è vera, si svolge in un lavoro.
Il rischio, comunque, certamente non nasceva dal nostro principio
educativo, tanto è vero chemolti dei ragazzi di quei primi anni
sono stati fra imigliori dei loro corsi ed hanno poi anche fatto carriera
in campo scientifico.Anche a questo livello bisogna registrare
la sostanziale ingenerosità di tante critiche nelle quali intellettuali di
professione simettevano amisurare,pedanti,parole e virgole dei primi
tentativi culturali di un gruppo di ragazzi, con sordità verso ciò
che questi incominciavano amendicare.
Questa scelta di partire con tanta decisione dall’affermazione che «Gesù
Cristo è il centro del cosmo e della storia» non portava ad una chiusura
integristica delle comunità studentesche, ad un rifiuto di vivere il rapporto
con il mondo moderno e la sua cultura, che ha tutt’altro segno?
Per nulla affatto.Mi spiegherò con un esempio: fin da quando ero ragazzo
ilmio poeta preferito era, come ho detto, Leopardi, perché poneva
inmodo clamoroso e perentorio quella domanda di senso ultimo
e quindi di felicità che percepivo definire l’essenza stessa dell’animoumano.
Questo livello di profondità, l’attesa diDio,definisce lanostra epoca storica, come qualunque altra, tanto è connaturata all’esserci
dell’uomo come tale.Perciò l’apertura ad essa è potenziata dalla
nostra certezza di fede.
Le faceva problema il dichiaratomaterialismo di Leopardi?
Assolutamente no. Era così potente la domanda che lo agitava, che
l’insufficienza ideologica della risposta non poteva non risultare
subito evidente.
L’intuizione di fondo del movimento è più etica, più filosofica o più
poetica?
Posta così la domanda, sono tentato di dire che è più poetica.Ma
vorrei dire che è semplicemente religiosa. Nello stesso atto di conoscenza
stanno l’emozione per l’unità dell’essere che dà la poesia
e la sete di chiarezza razionale propria della filosofia. Lo dice ancheVon
Balthasar: l’inizio della teologia è una percezione estetica,
e l’avventura della forma svolge tale percezione, facendone un principio
di comprensione. Del resto, io ripeto sempre ai ragazzi: attraverso
cosa noi giudichiamo? Attraverso quell’attrattiva dell’essere
che ci costituisce. Per questo anche dentro un sistema teoretico
strutturato bisogna sempre individuare l’intuizione originaria
che tenta di dare ragione di sé attraverso lo sviluppo teorico.Ma
al fondo c’è sempre l’attrattiva di un qualcosa sperimentato come
vero e che dà corposità esistenziale all’affermazione teorica.A questa
impostazione si deve il fatto che, all’inizio delmovimento, noi
abbiamo avuto una posizione culturale attiva.Certo il suo tradursi,
il suo specificarsi ed edificarsi implicherà un tempo, l’uso di tutti
i debiti strumenti, l’umiltà, il sacrificio ed il rischio necessari.
In questa sottolineatura così decisa dell’importanza della intuizione originaria
non c’è forse un rischio di irrazionalismo, di svalutazione delmomento
razionale della ricerca?
Per nulla affatto. Abbiamo sempre detto che l’intuizione «Cristo è
il centro del cosmo e della storia» genera immediatamente una ricerca
che la illustri; non èmai un’affermazione vuota; ha sempre un
contenuto ragionevole ed umano.Oggetto dell’intuizione è la verità,
il fondo dell’essere; e tutto lo spazio della vita e del sapere è il luogo
della verifica. Irrazionalistica è la posizione che pone a principio
un’intuizione che si rifiuta di svolgersi in un confronto critico con
la realtà.Del resto oggetto dell’intuizione non è un sentimento vago,
ma quell’Essere da cui promana la razionalità della natura e della storia.
È tanto poco irrazionalistica la nostra intuizione che essa coincide
con ilmodo in cui san Tommaso (che certo non è un irrazionalista)
parla di «intelligenza». L’intelligenza, infatti, per Tommaso,
non è altro che l’atto con cui l’uomo si apre umilmente e senza presunzione
alla verità e se ne lascia riempire.Tanto poco questa apertura
originaria contraddice alla razionalità che ne è, propriamente,
il principio e l’inevitabile presupposto.
Pure, quello che lei dice, sembra che nessuno lo abbia rilevato, tanto è statomassiccio
l’attacco ideologico contro Cl.
No,non bisogna esagerare.Qualcuno ci ha capiti, abbiamo avuto anche
i nostri amici.Voglio ricordare prima di tutto La Pira, che è forse
il primo fra quanti abbiamo incontrato che ci abbia veramente compreso.
Poi vorrei ricordare, tra i docenti dell’UniversitàCattolica, il professor
Bontadini e, negli anni più recenti,Von Balthasar.Oltre a questi,
naturalmente,molti altri, che non posso nominare tutti e che vorrei
ringraziare.
Ma anche altri «incontri» culturali per noi sono stati decisivi: quelli
con i Padri ed iDottori della Chiesa, e conmolti che hanno vissuto
con vera profondità la loro vicenda umana.

CONDIVISIONE DELL’UMANO

A questo proposito mi ha sempre colpito l’accusa a Cl di rappresentare
una cultura tradizionale (non nel senso giusto della parola, di
legame, cioè, con la radice vera della vita della Chiesa, ma nel senso
polveroso, accademico...).
Fin dai primissimi tempi abbiamo sottolineato la necessità di partire
dall’uomo e ci siamo trovati compagni i più grandi scrittori,
da Péguy a Claudel, da Dostoevskij a Thomas Mann, da Leopardi
a Rilke. Una posizione culturale corretta, infatti, non ha paura
di nulla, incontra tutto l’umano e trattiene ciò che è giusto senza
lasciarsi deviare dall’ideologia. È detto in modo insuperabile nel
Vangelo: «Il saggio tira fuori dal suo tesoro cose vecchie e cose nuove
». Così la nostra gente ha navigato tra le pagine di Shakespeare
o di Pavese condividendone a fondo lo spessore umano e ritrovando
la ricchezza di quella domanda umana la cui sola risposta adeguata
è Cristo. Con quale entusiasmo e spirito di condivisione noi leggevamo
in quelle pagine la vicenda dell’uomo! Tutti i nostri raduni
utilizzavano dei libretti preparati dagli stessi ragazzi che segnalavano
le letture che più li avevano colpiti, che più avevano trovato
consonanti con la propria esperienza ed esemplari di una verità
o di un valore.
In quei libretti è possibile incontrare, per esempio, la poesia neoromantica
o la teologia dei Padri,Newman e Guardini, eccetera...
Si può dire che ilmetodo che lei espone parte dall’uomo, anzi dal fondo
della questione umana, come ben chiarisce ne Il senso religioso;
nello stesso tempo afferma che non è possibile parlare dell’uomo a prescindere
da Cristo, dall’incontro con Lui. In altri termini che l’uomo
è una domanda, e una domanda non può essere compresa se non implicando
la risposta ad essa...
È soltanto quando si incontra la risposta che la domanda si illumina.
La convinzione programmatica che ha guidato i nostri primi
passi, quasi come tema di una sfida alla cultura dominante, è
il grido con cui il retore Vittorino annunciava la sua conversione
al popolo: «Quando ho incontrato Cristo mi sono scoperto
uomo». Con quale criterio noi possiamo valutare tutta la proposta
che dalla vita emerge, nelle innumeri forme in cui questa proposta
si fermenta e si coagula? O questo criterio si delinea come
originale e costitutivo del nostro «io», come il volto, lo sguardo con
cui la natura ci butta nel rapporto con tutto, oppure questo criterio
ci viene dato e quindi continuamente imposto dallamentalità
dominante. L’unico caso in cui viene salvata la possibilità di «essere» della persona, la capacità critica, è il primo: un criterio offerto
dal volto originale, costitutivo del nostro «io», struttura della
nostra natura. È questo il criterio che si palesa in quella che io
chiamo «esperienza elementare»: quel complesso, cioè, di esigenze
ed evidenze con cui la natura ci impegna al paragone con ogni
cosa.Questo complesso di esigenze costituisce l’interrogativo che
l’uomo è. La persona ultimamente è sete di verità, di felicità, di libertà,
cioè sete di essere, di realizzazione totale, e quindi sete di adesione
a ciò che la completi e la «faccia». «Nulla è tanto incredibile
quanto la risposta a un problema che non si pone» (R.Niebuhr).
Ho sempre citato questa frase ai ragazzi perché la prima condizione
per capire la risposta all’umano che Cristo pretende di essere è di
sentire fino alla sofferenza la propria domanda umana inevasa. L’incontro
con Cristo esalta questo dolore come s’esalta una fame alla
vista del cibo.
E questo, in un certo senso, è anche il compito della comunità cristiana
come fatto concreto e visibile, presente nell’ambiente, su cui il movimento
tanto insiste, perché soltanto l’incontro con un’umanità diversa
apre a riconsiderare il problema umano...
Indubbiamente si deve anche tener presente che la comunità è condizione
esistenziale necessaria al proprio «io», alla persona. Se infatti
da una parte essa è il primo impatto, per quanto magari titubante
e fragile, con il segno di Cristo, dall’altra, la comunità è
l’humus nel quale la realtà della persona può sviluppare la percezione
di sé e quindi può far scaturire la domanda vera.

LA RICERCA INTELLETTUALE

Questa intuizione è profondamentemoderna ed insieme assolutamente
tradizionale.Del restomi ha sempre colpitomolto il fatto che le prime
pagine de Il senso religioso ripetono, con parole filtrate dall’esperienzamoderna,
le note di apertura di quella grande sinfonia sull’uomo che
è la Prima Secundae della Summa Theologiae di sanTommaso.Quali
sono stati imaestri che l’hanno introdotta a questa comprensione, così
inusitata per la cultura cattolica dell’epoca, del retaggio tradizionale della
Chiesa ?
Oltre ai nomi già citati, direi il clima stesso del seminario di Venegono.
Perché, anche se non inmaniera geniale come nei nomi citati,
tutti là erano animati dall’intuizione che la verità e quindi la novità
nell’uomo è aiutata a prendere coscienza di sé dalla testimonianza
del lungo passato cristiano, e trova in esso l’indicazione della risposta
vera.
Su quella base si è poi impiantata però la sua attività di ricercatore e
di docente nell’università. Vuole raccontarci qualcosa di questo aspetto
della sua esperienza intellettuale?
Ho fatto la mia tesi di laurea su Reinhold Niebuhr. È un personaggio
singolare che unisce in sé acutezza d’indagine sociologica, profondità
filosofica e lo spirito religioso di un grande teologo.Egli rappresenta
il risultato piùmaturo e critico della teologia protestante nordamericana
degli anni Trenta-Quaranta.
La PrimaGuerramondiale e poi la grande crisi del ’29 imponevano
una profonda autoriflessione critica all’ingenuo ottimismo progressista
che aveva impregnato di sé fino ad allora il pensiero religioso americano,
per esempio nella direzione del Social Gospel teorizzato dal
Rauschenbusch.Niebuhr, a partire da questa situazione spirituale, riscopre
in un certo senso la immanente tragicità dell’umano esistere
e sviluppa quindi una nuova teologia che si suole definire esistenzialista,
ma che nelle sue punte più alte merita invece di essere
considerata semplicemente realista,per lo straordinario equilibrio con
cui sa descrivere insieme la grandezza e lamiseria dell’uomo.Più tardi
ebbi la possibilità di un lungo soggiorno inAmerica,durante il quale
ho svolto le ricerche che sono poi state raccolte nelmio libroTeologia
protestante americana. Profilo storico.
Che cosa ha imparato un cattolico come lei dalla teologia protestante?
Prima di tutto il senso del limite inerente ad ogni posizione umana.
Questa è la pedana di lancio di ogni spirito sano verso la percezione
dell’esistenza del divino.Connesso con questo è il senso della concretezza che, nei casimigliori, non è affatto un piatto pragmatismo,
ma un gusto per la realtà vista nella totalità dei suoi fattori, che sfocia
in un realismo nel quale il rispetto per la libertà si appaia con la
valorizzazione di tutti gli aspetti delle cose.Un’altra figura chemi ha
molto influenzato fu Paul Tillich. Benché sia tedesco come formazione
originale, Tillich ha però incarnato lo spirito del protestantesimo
americano inmodo perfetto.
C’è una critica che lei, come cattolico, farebbe a questa impostazione teologica
pure così affascinante ?
Ecco, io credo che ci sia un aspetto, quello più profondo, del pensiero
sia diNiebuhr che diTillich, che non può essere sviluppato a fondo in
un ambiente protestante, se non si vuole ripetere l’itinerario per esempio
di unNewman verso laChiesa cattolica.Si tratta proprio della percezione
del limite.Dice Tillich che la realtà umana è una specie di lineadi
confine incui la storia edilmisterodell’uomosi incontrano.Una
linea di confine,non unsegno, emeno chemai un segno efficace,nel
quale ilmistero si fa presente (un sacramento). Per questomotivo la
loro riflessione rimane ultimamente come sospesa in un vuoto.
All’interno dell’a priori soggettivistico, che è proprio del pensiero
protestante, il limite finisce quasi inevitabilmente con il rimandare
piuttosto che aDio alla profondità stessa dell’individuo, oppure della
umanità come tale, come avverrà nelle diverse teologie dellamorte
di Dio, per esempio in Vahanian. Ilmessaggio biblico di salvezza
si riduce ad essere un contesto d’intuizioni, all’interno del quale si svolge
una semplice analisi esistenziale dell’uomo.Nella tradizione cattolica,
invece, il limite assume consistenza ontologica e sacramentale;
nel segno l’Essere trapela, si annuncia, sostenendo la forma stessa
del segno e stabilendone la capacità di richiamo evocativa e suggestiva.
È insomma l’idea tomista dell’essenza delle cose come segno
dal quale l’Essere trabocca facendosi incontro a chi cerca la verità. È
questo sentimento dell’oggettività delmistero che toglie al gusto per
il concreto, cioè per l’esperienza e la verifica, il rischio di cadere in un
pragmatismo senza anima.
Quello per la teologia protestante americana non è stato però l’unico interesse
culturale del suo periodo di studio e di insegnamento...
No.Tre sono stati gli incontri intellettuali deimiei anni di studio della
teologia: Newman, chemi ha introdotto alla cultura anglosassone
e che aveva già incominciato a interessarmi findai tempi del liceo;Möhler
e la teologia cattolica tedesca dell’Ottocento; e poi i filosofi ed i teologi
dell’ortodossia russa, specialmente gli «slavofili».Anzi, per qualche
tempo ho anche insegnatoTeologia orientale alla Facoltà teologica.
Anche qui, se il primo confronto fu naturalmenteDostoevskij, lessi
poi Chomjakov, chemi rivelò la bellezza e la profondità della concezione
russo-ortodossa della Chiesa.Ho lettomolto di quello che si
poteva reperire in quegli anni sulla ecclesiologia orientale e che veniva
divulgato soprattutto dall’Istituto Russicumdei gesuiti romani.
In che cosa è consistito propriamente questo incontro con la tradizione
orientale?
Due sono gli elementi che soprattutto mi hanno colpito, due elementi
che fanno parte integrante della nostra stessa tradizione cattolicama
la cuimemoria si è, inOccidente, come affievolita. Il primo
è il concetto di trasfigurazione, che è rimasto uno dei fattori fondamentali
del nostro discorso. Cioè: chi affronta ilmondo in Cristo
percepisce e manipola le cose in un modo tale (come segno di
Cristo) che esse si rivelano come l’albore di una nuova giornata, vale
a dire come principiomisterioso dellamanifestazione diCristo.Questo
elemento inOccidente è stato degradato a «modo di dire» di una
teologia mistica che ci si può permettere di non prendere troppo
sul serio (come se ilmistico fosse un tipo un po’ folle e non uno che
va più al fondo in unmistero che sostiene in sé la vita di tutti). L’uso
delle cose, in questa luce, è come l’albore reale dell’esperienza di umanità
nuova e di mondo nuovo («cieli e terra nuova»); è la manifestazione
iniziale (aurorale) della pienezza di verità e di bellezza a
cui il segno rimanda. Il mondo nuovo infatti è già iniziato con la
resurrezione di Cristo ed a noi è dato di farne esperienza.
Il secondo elemento decisivo che ho imparato dagli orientali è il
concetto di «sobornost»: è lo sviluppo di una virtualità poco sottolineata della «comunione».La comunionalità cioè, è fattore necessario
alla conoscenza, è fattore che la rende possibile.Vita di comunione
e conoscenza nuova (cioè autentica, vera) della realtà sono connesse
tra loro. Certo, non nel senso banale che gli oggetti della conoscenza
risultanomaterialmente diversi,ma in quello che la loro
verità ultima, il loro essere per la redenzione finale simanifesta: risulta
perciò veramente diverso il «volto» delle cose.
È, in un certo senso, la stessa cosa che uno dei più grandi filosofi laici
del nostro tempo,TheodorW.Adorno dice, parlando della sua Teoria
critica della società: «Guardare ilmondo dal punto di vista di una
redenzione possibile».Ma del resto anche Adorno, come origine, era
ebreo, cresciuto nella fede dei profeti e del popolo della Bibbia.Allo stesso
concetto di «sobornost» mi pare si possa legare anche l’idea della
Chiesa come «popolo di Dio».
Mi sembra più giusto dire l’idea della Chiesa come corpo di Cristo,
la cui forma di segno è di essere popolo. Era un’idea che ci aveva
affascinati già prima del Concilio e che noi leggevamo nellaMystici
corporis: l’idea di popolo completa dal punto di vista di un’evidenza
educativa quella ontologicamente più profonda di corpo di
Cristo.

LA«COMMUNIO»

Le cose dette ci riportano almodo in cui al principio aveva impostato la
questione della cultura.
Sì, la cultura è infatti l’espressione tendenzialmente critica e compiuta
della coscienza che la persona ha della totalità del proprio essere.Di
questa totalità vivente la dimensione comunitaria,di popolo è un elemento
essenziale. La comunità dunque è un fattore, una «dimensione
» della persona,non è un’organizzazione né un assembramento né
tantomeno un collettivo che si sostituisce alla persona. È questo, del
resto, anche il senso vero del personalismo comunitario diMounier e
diMaritain, troppe volte distorto o nel senso di un deleterio individualismo
o in quello di una sottolineatura esasperata (ed assai poco
cristiana) del collettivo.La «communio», invece, avviene sempre a partire
dalla ontologia della persona.
Abbiamo parlato della cultura protestante e di quella ortodossa. Lei, che
ha una simpatia così viva per queste tradizioni religiose, perché è cattolico?
Da questo punto di vista perme è decisiva la risposta che ha datoNewman
all’identica questione: perché questa è la tradizione ininterrotta
che arriva a partire da Cristo e dai suoi apostoli fino a noi. Inoltre la
Chiesa cattolica è l’unica (insieme a quella ortodossa) che salva la struttura
originale che ilPadre ha scelto per comunicarsi agli uomini,quella
struttura sacramentale che ha la sua radice nella presenza diDio in
Cristo. Ed è l’unica struttura dell’avvenimento religioso interamente,
pienamente umana.La verità, infatti, attira come «adaequatio» fra ciò
che ci sta davanti e la percezione che abbiamo di noi stessi.Ora,nel sacramento
di Cristo,Dio si fa avanti verso l’uomo e diventa incontro
pieno di verità e di fascino anche umano.Non esiste nulla di più corrispondente
alla natura dell’uomo.Ma c’è anche un altromotivo.Proprio
l’incontro rispettoso e pieno di ammirazione con lo spirito protestante
e con il genio dell’ortodossiami ha fatto capiremeglio come
la Chiesa cattolica sia l’unico luogo nel quale il senso ortodosso della
comunione ed il gusto protestante per il concreto e l’individuale possono
armonicamente conciliarsi in una sintesi plenaria.
Questa impalcatura culturale, che ci ha illustrato, in gran parte era già
costruita prima del Concilio.Che impatto ha avuto il Concilio sulmovimento?
È vera l’accusa che spesso si fa a Comunione e Liberazione di
essere rimasta ancorata a posizioni preconciliari?
Io mi ricordo ancora i soprassalti di entusiasmo che abbiamo avuto
trovando sviluppate organicamente nei documenti del Concilio,
chemanmano uscivano, tematiche che costituivano il contenuto più
profondo della nostra sensibilità intellettuale, del nostro impegno e
della nostra prassi di vita.Avevamo la riconoscenza di chi si sente ridire
con più compiutezza e profondità, con «autorità», il perché esauriente
di ciò che sta vivendo.Mi ricordo,per esempio, la festa che abbiamo fatto quando è uscita la Lumen gentium, che pone cosìmagnificamente
l’accento,particolarmentenel paragrafo ottavo, sullaChiesa
come comunità visibile, sperimentabile, incontrabile: l’anima del
nostro tentativo.Così pure laGaudiumet spes, per l’interessamento,
la passione per il mondo, la stima dei tentativi umani, pur nella
percezione della loro tristezza ultima. Anche questa è stata sempre
una nostra caratteristica, come si è visto dalla passione con cui la nostra
gente si è buttata assetata alla ricerca della verità nell’umano,dovunque
e comunque essa fosse incontrabile.Quanto più è vera,però,
questa passione simpatetica, tanto più grande è la percezione della
tristezza ultima per l’incompiutezza dell’umano, così che solo nella
esperienza di Cristo la speranza trova il suo compimento.Del resto,
una delle frasi che citavo sempre era questa: «Non sono venuto a togliere
la Leggema a compierla», vale a dire, a renderla vera. La «Legge
» è l’espressione più alta dello sforzo di intelligenza e di moralità
dell’uomo, che Dio non disprezza,ma coglie e compie nel mistero
della Sua presenza.No, non si può dire davvero che noi non ci siamo
trovati in sintonia con il Concilio: del resto i teologi, sui libri dei
quali ci siamo formati, non sono forse i precursori e gli esperti del
Concilio? Si pensi a De Lubac e aVon Balthasar;ma altri si potrebbero
aggiungere. Imotivi dell’accusa contro di noi sono diversi.Molti
protagonisti dell’«aggiornamento» conciliare in Italia erano convinti
che il Concilio avesse aperto la Chiesa cattolica ad una trama
di pensieromutuata da certemode filosofiche o sociologiche.Noi invece,
pur rispettando tutte le scienze umane, ciascuna nel proprio ambito,
eravamo convinti che il punto di partenza cui il Concilio ci rimandava
era l’imitazione della strutturamentale,delmetodo, cheCristo
aveva usato nella sua vita.Aprirsi almondo non vuol dire accettare,
magari acriticamente, le ideologie delmondo,ma piuttosto incontrare
il desiderio di verità che anima gli uomini.Del resto si è visto
come fossero infondate, per esempio, le posizioni di quelli che ci
accusavano di integrismo sventolando ad ogni piè sospinto il libro
diMaritain sull’Umanesimo integrale.Credo che non vi sia dubbio
alcuno sul fatto che, se fosse vivo e si interessasse delle cose italiane,
il grande filosofo francese si riconoscerebbe assai più nelle nostre posizioni che in quelle di tanti suoi discepoli di allora (e di ora: si ricordi
l’accoglienza a Le Paysan de la Garonne).

AUTORITÀ E LIBERTÀ

Ha sempre destato tantissime difficoltà l’uso cheComunione e Liberazione
ha fatto della parola e del concetto di autorità. Su questo c’è stato lo scontro
forse più radicale, perché la sottolineatura dell’autorità è sempre apparsa
almondo come un qualcosa di anti-moderno,medievale, negatore
della libertà e dell’indipendenza dell’individuo. Lei invece ha sempre
affermato che l’autorità è l’occasione della libertà.Vuole spiegaremeglio
questo concetto di autorità?
Giustamente lei dice che l’autorità è l’occasione delmanifestarsi della
libertà,perché è di fronte al proprio oggetto che una potenzialità entra
in atto; è di fronte ad un esempio piùmaturo di fede (come chiarezza
di idee, come generosità di azione, e quindi come suggestività di proposta)
che la libertà, intravedendomeglio il proprio oggetto ultimo, si
mette inazione.Ènell’impattoprovocatodaunapresenzapiùtesa verso
l’ideale chediventapiùevidente la ragionevolezza e la suggestivitàdi
ciòversocui si tende e lapossibilità,perciò,di conseguire ilpropriofine.
Per questo motivo è sempre per imitazione che la dinamica della affermazionedi
sé si sviluppa equilibratamente e sanamente.Tradotta in
terminidignitosamenteumani,questa imitazione si chiama sequela.La
sequela è quindi lamodalità con cui la persona si rende conto dei valori.
Lungidall’essere (comemoltihannovolutamentemistificato,quasi
fosse ilnostro sistema)unabbandono irragionevole, essa è l’atto che
piùdiogni altrorichiede l’eserciziodell’intelligenza:per vedere se e come
si realizzi la verifica della proposta di valore che l’autorità impersona.
Ma perché questo esercizio della ragione scatti, occorre la disponibilità
originaria a dare credito ad una novità, dapprima solo intuita, ed a
seguirla.Ciò che rende ragionevole il seguire è il sussulto che una vera
presenza autorevoledestanella vita come consiglioimprevisto aduscire
da sé, a rischiare con più coraggio l’avventura umana.Questa «autorità
»noi l’abbiamotante volte identificata come «grazia»,un«dono»,
o per parlare più laicamente, l’emergere di una ipotesi di lavoro da verificare.L’autorità è, esistenzialmente, la grande ipotesi all’interno della
quale uno simette al lavoro. Se l’autorità è adeguata, cioè vera, corrispondente
nella sua proposta alla verità oggettiva, allora il paragone
con la vita verifica nel tempo l’esattezza dell’ipotesi. Per questo la gratitudine
versoilmaestrocheha introdottonella veritàdella vita e quindi
nell’esperienza della libertà va di pari passo con l’aumento della libertà
che la persona assume nella vita.Non è questa una dottrina propria
di Cl,ma è ilmodo in cui la Chiesa ha sempre inteso l’educazione.
Anche la cultura laicapiùavvertita giunge alle stesse conclusioni:quale
psicologo negherebbe che questa è la dinamica attraverso la quale il
bambino, e poi l’adolescente,nel rapporto con il padre e con lamadre,
raggiungono la consapevolezza di sé?
C’è però una difficoltà segnalata da molti: come si lega questa concezione,
assolutamente libera, carismatica, dell’autorità, con l’autorità
istituzionale all’interno della Chiesa, con la sua struttura gerarchica
nella quale l’autorità non nasce da un libero riconoscimento?
Seguendo il Papa, i vescovi ed i sacerdoti che sono in comunione con
lui, non si seguono le loro figure umane,ma Cristo attraverso loro;
si segue il disegno dello Spirito diDio nella storia e nella nostra vita.
Sono essi, infatti, gli strumenti di cui Cristo ha voluto servirsi per
arrivare a tutti. La sequela diventa naturale non appena si impara
ad intravedere in essi il rapporto pieno di autorevolezza con la figura
di Cristo, che è il soloMaestro.Comunione e Liberazione non
è altro che un tentativo di introdurre pedagogicamente la struttura
oggettiva della autorità della Chiesa. Proprio per questo è tentativo
contingente e si sottopone alla verifica critica di coloro che responsabilmente
lo compiono.

RESPONSABILITÀ NELLA CHIESA

È vero che già damolti anni le voci dei pastori delle Chiese dell’Est, di
Wyszynski e diWojtyła erano ascoltate emeditate in Comunione e Liberazione?
Sì, da molti anni. Ed insieme a loro anche altre figure,meno note,
ma egualmente di grandissima spiritualità e profondità religiosa, per
esempio Zverina.
L’amore alla Chiesa, del resto, fin dal principio, è cattolico, cioè
universale. Chi lo sente, avverte la necessità di comunicare a tutti
la novità che ha reso piena la sua vita. Per questo lamissione è stata
fin dal principio una dimensione essenziale per il nostromovimento,
anche quando poteva sembrare una dispersione di energie
che potevano tornare utili nel nostro Paese.Tutto questo con l’unica
presunzione di non fare altro che esprimere la dinamica normale
della vita cristiana. Come ha detto Pigi Bernareggi, tra i primi dei
nostri amici partiti per il Brasile: «La sequela rende facile, quasi ovvio,
ciò che agli occhi del mondo è impossibile».
C’è qualcosa che lei vorrebbe dire agli aderenti a Comunione e Liberazione
per aiutarli a far fronte alle nuove responsabilità che vengono
al movimento dall’attuale momento di grazia della Chiesa?
Il problema è solo quello di centrare ancora più chiaramente ed intensamente,
criticamente, cordialmente e generosamente tutto sulla
parola del Papa. E per questo chi ha autorevolezza nelmovimento
deve essere esempio di sequela autentica alla parola delMagistero.
La persona che Dio usa per educare alla sua Chiesa, dal punto di
vista del contenuto della verità, in un certo senso è indifferente.Nel
presente momento della Chiesa, tuttavia, il tipo umano di questo
Papa è esso stesso un fatto altamente significativo dal punto di vista
pedagogico. Le persone responsabili del nostromovimento hanno
il dovere acuto di immedesimarsi con il tipo umano da cui oggi
è guidata la Chiesa, di immedesimarsi con la certezza umana carica
di fede che il Papa vive con l’urgenza di far diventare Cristo la
chiave di volta di tutto lo sguardo rivolto all’uomo e almondo.Questo
Papa ci insegna una apertura assoluta all’umano nella sua concretezza
originale, il che è del tutto diverso da una apertura alle interpretazioni
dell’umano che via via vanno per lamaggiore, la quale
finisce in un atteggiamento servile verso gli intellettuali di turno.
Se si perde quel punto di riferimento originale si finisce con il
tradire l’uomo per andar dietro ai propri orgogliosi pensieri, «sognando» come dice Eliot «sistemi così perfetti da rendere inutile all’uomo
essere buono».
E che cosa vorrebbe dire, lei che ha sempre detto di voler costruire un
dialogo fraterno e un lavoro comune fra tutti i cattolici, a tutti quei settori
del mondo cattolico che fino a ieri hanno avversato Cl e che, forse
anche per effetto della nuova temperie umana che ha segnato l’inizio
di questo pontificato, cominciano a ricredersi?
Abbiamo sempre voluto costruire l’unità fra i cristiani non per una
ragione politica o di potere, ma perché ciò che rende gloria a Dio
nel mondo è proprio tale impossibile unità. Questo è il miracolo:
signum elevatum in nationibus, come dice la teologia. Scompariremmo
volentieri per creare questa unità.
E il pluralismo?
L’unità vera si crea andando al fondo della propria posizione umana
fino ad incontrare ciò che è più profondo: cioè ciò che unisce. È
a questa profondità che unità e pluralismo si incontrano. L’unità fra
te eme nasce perché ciascuno di noi va al fondo della propria esperienza
umana e vi incontra il volto diGesù Cristo. Per questo,mentre
chiedo a tutti di impegnarsi per l’unità, chiedo contemporaneamente
a ciascuno di andare al fondo della propria esperienza di
verità e di amare veramente ciascuno l’esperienza degli altri. È solo
questo che rende capaci di una vera correzione.Quella vera correzione,
mi si consenta, che a noi è stata sempre lasciatamancare (tranne
eccezioni rarissime): critiche tante,ma quasimai nessuno che ci
abbia ripresi, spinto dall’evidente desiderio di aiutarci ad andare al
fondo della esperienza di verità che tentavamo di vivere. Chi ama
l’ideale, nulla desidera più che di essere aiutato dalla correzione.Ma
uno è aiutato dalla correzione quando si sente amato nel proprio cammino
all’ideale.
Vorrei che commentasse un’espressione che ho sentito ripetere da lei anche
recentemente: il compito dell’autorità non è far crescere l’organizzazione,
ma far avvenire la verità di ciascuno.
Il compito dell’autorità come tale è di valorizzare la fede, la speranza
e la carità che vivono inunindividuo o inungruppo.L’organizzazione
della comunità deve esistere,ma solo per favorire questo, altrimenti si
trasforma in un progetto di saggezza umana che elimina l’azione dello
Spirito e tende di fatto a produrre uniformità, anche dove a parole
si esalta il pluralismo.E l’uniformità culturale ementale è la tomba di
ogni genialità, cioè del carisma. L’autorità è come un padre che abbia
tanti figli:non può non esprimersi nella valorizzazione di ciascuno; ed
è nell’affermazione della fisionomia dei singoli figli che l’unità della famiglia
diventa sicura.
Quandomi sono sposato leimi ha detto di pregare laMadonna. È una
cosa che stomeditando da allora.
Il genio del cristianesimo è nella fedeltà con cui si percepisce la figura
dellaMadonna; è lì che ilmetodo cheDio ha usato nel salvare ilmondo
si illumina. La più grande categoria delmetodo usato daDio nella
storianei confronti dell’uomo è la scelta gratuita, l’elezione.Dal punto
di vista umano,mai come inMaria questa gratuità simanifesta nella
sua assoluta sovranità. È il segno della assoluta libertà diDio il fattochenoi
siamostati scelti. InsecondoluogoMaria è lamadredelmondo
nuovo e perciò ilmondo nuovo è fatto del suo tipomorale e spirituale
e fisico, è fatto di Lei.Almiracolo della liberazione dell’uomo
e del senso del cosmo e della storia si accede attraverso il fiat diMaria.
Il disegno di Dio ha voluto restare sospeso a questo sì, pronunciato
dalla Sua libertà.Maria infine è il paradigma totale della vita cristiana.
Cristo è tutto,ma nasce da Lei nelmondo.Così è per noi: tutto
è dato dalla potenza delVerbo fatto uomo,ma è attraverso la nostra
fisicità che Cristo simanifesta nelmondo. La disponibilità totale
a questamanifestazione dipende da una parola sola:memoria.Vivere
lamemoria dell’incontro con Lui per vivere la disponibilità a riconoscerLo
di nuovo in tutti i giorni della vita.E chi più diMaria viveva
nel ricordo di quella presenza?
Il Papa, quando ha ricevutoCl, ha accolto lei come un vecchio amico.Fra
l’altro ha detto: «La vostra proposta ha raccolto consensi, pur tra contrasti ed opposizioni, e so che anche avete sofferto.Allora, tra contrasti ed opposizioni,
voi avete visto convergere su di voi ed a voi affiancarsi altri
giovani, ai quali il vostro esempio ha dischiuso nuovi orizzonti di donazione,
di autorealizzazione, di gioia... È importante che continuiate
ad annunciare con umile coraggio la parola salvatrice di Cristo...».
Poi ha messo da parte il discorso scritto che era stato preparato ed ha
parlato a braccio, ricordando i numerosi incontri che ormai da molti
anni hanno scandito le tappe di un’amicizia.Ci vuole raccontare come
questa amicizia è nata?
Veramente più che un amico personalemio il Papa è sempre stato,dai
tempi in cui era arcivescovo diCracovia,un amico dimolti fra noi. Io
l’hoincontratouna volta sola,aKroscienko,ma innumerevoli sonostati
gli incontri con i nostri ragazzi pellegrini in terra di Polonia.
Direi che anche questo incontro, come quasi tutti i fatti decisivi della
vita diCl, è stato puramente casuale.ComeCl si è propagata daMilano
intutta Italia solo perché inostri invacanza incontravano dei coetanei
di altre regioni e comunicavano loro il gusto per l’esperienza che
stavano vivendo, così è successo che alcuni di noi inPolonia hanno incontrato
delle altre persone che stavano vivendo la stessa realtà,declinata
secondo la stessa intenzione profonda, che noi stavamo sperimentando
qui inItalia.Si trattava delmovimento del padreBlachnicki
che allora si chiamava «Oasi» e adessohapresoilnomedi «Luce eVita».
È stata una occasione che ha dato felice e sorprendente risposta ad
un bisogno inconsapevole, all’urgenza ed alla passione per il riconoscimento
reciproco nella stessa fede, perciò nello stesso valore circa il
proprio essere, la vita e tutto.
Del resto anche il costituirsi della piccola o grande comunità fra di
noi rispondeva a questa stessaurgenza.Questadisponibilità attiva,questa
benefica irrequietezza dei nostri occhi e del nostro cuore tesi a scoprire
chi come noi credesse e volesseCristo come vita dell’uomo,non
ci poteva lasciar scappare l’occasione quando si dava.
Allo stessomodo, del resto, oltre che la realtà polacca abbiamo incontrato
quella dell’America Latina ed in Brasile anzi, addirittura,
si è sviluppata una intensa presenza missionaria del nostro movimento.


© Fraternità di Comunione e Liberazione
In copertina: Un momento di incontro di Gioventù Studentesca negli anni Sessanta a Ravenna.
© Foto Archivio CL / G. Cassani
Supplemento al periodico Tracce - Litterae Communionis , n. 2, febbraio 2010.
Poste Italiane Spa - Spedizione in A.P.D.L. 353/2003 (conv. in L. 27.02.2004, n° 46)
art. 1, comma 1, DCB Milano
Iscrizione nel Registro degli Operatori di Comunicazione n. 6147
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Progetto grafico: Davide Cestari, Lucia Crimi
Reg. Tribunale di Milano n. 57 - 3 marzo 1975
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La distruzione del principio di autorità

Voglio farlo io un elogio di don Giussani a cinque anni dalla morte. Lo voglio fare proprio in quanto ebreo, perché don Giussani era un cattolico che voleva bene agli ebrei, capiva l’ebraismo. So di ebrei con cui ha saputo parlare stimolandoli ad approfondire la propria identità, non per convertirli. E soprattutto voglio fare il suo elogio per quel che ha dato sul tema dell’educazione, dicendo cose coraggiose e giuste – giuste perché vere – e che forse troppi, anche tra i suoi discepoli, stanno dimenticando o travisando. Difatti, don Giussani ha visto in tempo il rischio che si profilava e che ora è realtà: la distruzione del principio d’autorità. Certo, egli respingeva l’idea di guardare indietro, ma per lui il motore dell’educazione era l’esistenza di un maestro – e quindi il richiamo a un principio di autorità, autorità affettiva e autorevole, beninteso – e la trasmissione della conoscenza, dell’esperienza, della tradizione.
Prescriverei la lettura nelle scuole dei brani sulla “conoscenza per testimonianza”. La prescriverei come medicina quotidiana per coloro che ripetono sventatamente i futili protocolli dell’“autoapprendimento” e dell’“autoformazione”. «Tutta la cultura umana si basa sul fatto che uno incomincia da quello che ha scoperto l’altro e va avanti». Banale? Ovvio? Non direi proprio, a stare a sentire chi predica che l’alunno deve ricostruirsi tutta la conoscenza da solo, che nessuno deve insegnare l’algoritmo della divisione o la fonetica, perché sarebbe violenza sui minori, educazione “trasmissiva”, lezione “ex-cathedra”. Non è né banale, né ovvio: è semplicemente vero perché dettato dal buonsenso. Diceva Cartesio che il buonsenso è equamente ripartito ma non tutti sanno usarlo. Qui c’è chi, lungi dal saperlo usare, lo disprezza.
Per convincersi che l’acqua può essere scissa in ossigeno e idrogeno sarà forse necessario rifare l’esperienza di Lavoisier? Si riporrà piuttosto fiducia nella testimonianza di chi l’ha fatta. Certo, occorre che la testimonianza sia affidabile. Ed è giusto essere capaci di verificare questa affidabilità e di riappropriarsi attivamente del sapere trasmesso. Ma chi potrà creare questa capacità se non un autentico maestro? Quando un alunno avrà acquisito questa capacità autonoma sarà in grado di rendersi conto che gli articoli dell’Enciclopedia Treccani sono affidabili mentre quelli di Wikipedia non lo sono. Se nessuno gli avrà insegnato – trasmesso – la capacità di muoversi sul terreno bibliografico andrà allo sbando. Solo chi abbia acquisito a fondo queste capacità – derivanti da conoscenze consolidate nel tempo – sarà in grado di rendersi conto che il Dizionario Biografico degli Italiani fin ad ora pubblicato è affidabile, mentre il seguito, se verrà fatto con i metodi di Wikipedia, non lo sarà.
Ma ora la parola d’ordine dell’autoapprendimento è persino superata. L’ultimo grido è l’“apprendimento personalizzato”, tagliato su misura per ogni studente e che garantisca il “successo educativo”. La perdita del buonsenso trionfa quando si promuove un seminario dal titolo «Perché mi bocci?», appena svoltosi a Bologna con tanto di autorevoli partecipanti. «Ti boccio perché non studi, perché non hai senso del dovere malgrado quel che si sta facendo per te, perché sei un nullafacente» – risponderebbe il buonsenso. Nient’affatto. Agli «studenti che si sentono alieni in classe, insofferenti ai ritmi delle lezioni, alle prescrizioni degli insegnanti, che non sopportano i riti e le regole di questa istituzione che ancora chiamiamo scuola» bisogna offrire «soluzioni educative accattivanti» - recita il depliant. Ma quando si parla di «soluzioni accattivanti» si promuove quella pseudocultura che, per dirla con Zygmunt Bauman, «non ha gente da educare, ma piuttosto clienti da sedurre». Né passa per la mente il dubbio che, se la scuola non funziona, è perché è governata dalle soluzioni imposte da qualche decennio dalla dittatura del pedagogismo dell’autoapprendimento.
No, si vuol raddoppiare la dose di questa cattiva medicina. Secondo l’“esperto” inglese Charles Leadbeater, personalizzare significa «partecipazione e co-creazione». A suo dire, gli studenti sono già co-creatori. Non sono «solo diventati i co-produttori di un nuovo servizio e di nuovi impieghi per il telefono mobile, ma i creatori di una nuova ortografia coniata sulle conversazioni digitali, rapida, snella, abbreviata, fonetica, che dai cellulari sta via via invadendo più generali forme di scrittura».
Insomma, signori dell’Accademia della Crusca e dell’Invalsi, siete inutili cariatidi. Mentre vi lamentate perché gli studenti non sanno più scrivere e usare la logica nel comporre testi, il mondo vi scorre sotto i piedi e i “co-creatori” edificano un nuovo mondo dotato di una nuova lingua. Anzi, toglietevi di mezzo. Lo ammonisce Leadbeater, assieme ai suoi allievi italiani: «dare voce in capitolo a coloro che apprendono».
Si tolgano di mezzo anche quei genitori che pretendono dai figli un rendimento di qualità, rigore, disciplina, concentrazione. Il potere andrà agli alieni in classe e a quei genitori che fanno i sindacalisti della nullafacenza contro l’istituzione «che ancora chiamiamo scuola». E si tolgano di mezzo gli insegnanti che pretendono di insegnare. Una valutazione severa è riservata soltanto a loro, per gli altri c’è soltanto il successo garantito.
Occorrerebbe rileggere e mandare a memoria il celebre brano de La Repubblica di Platone in cui si spiega come dall’eccesso di libertà si passi alla tirannide:
«Forse adunque l’insaziabilità di quel bene che la democrazia si prefigge, la manda in rovina? — Ma quale bene? — La libertà — E in che modo? — Quando uno Stato retto a democrazia, assetato di libertà, si trovi ad avere per capi cattivi coppieri, ed oltre il dovuto si inebrii di libertà non annacquata, allora esso punisce i suoi governanti se non sono molto miti e non concedono molta libertà, e li accusa di essere tristi e oligarchici. Ed è inevitabile che il disordine penetri anche nelle case private e finisca per ingenerarsi l’anarchia anche fra gli animali. — In che modo? — Così: che il padre si avvezzi a divenire simile al figlio e a temere i figli; ed il figlio si faccia simile al padre e non rispetti e non tema i genitori … in tale ambiente il maestro teme e adula gli scolari, e gli scolari fanno poco conto dei maestri e dei pedagoghi; e in tutto i giovani si mettono alla pari con gli anziani e con essi gareggiano a parole e in atti; e i vecchi, cedendo ai giovani, si mostrano pieni di arrendevolezza e di gentilezza, ed imitano i giovani per non sembrare sgraditi né autoritari. … tutto questo ammollisce l’anima dei cittadini… infine non si danno pensiero delle leggi né scritte né non scritte per non avere nessun padrone. Questo veramente è il bello e baldanzoso principio da cui si genera la tirannide».
(Il Giornale, 1 marzo 2010)

Rendere presente Cristo nella nostra carne, in ogni ambiente, in ogni realtà umana Appunti da una conversazione di Luigi Giussani

L’essere uomini, il salvare, per usare un termine che non è soltanto religioso, il salvare la nostra umanità costituisce sempre, qualunque cosa facciamo, esplicitamente o implicitamente, il criterio ultimo: anche quando sbagliamo, sbagliamo per salvare la nostra umanità, per godere di più la nostra umanità, nell’illusione di affermare di più la nostra umanità. Essa è il criterio in base al quale noi sentiamo e giudichiamo tutto. La nostra umanità! Potremmo usare un altro termine: essere più felici! Salvare l’umanità vuol dire realizzarla, e questa perfezione (perché “realizzare” in latino si dice con un termine - perficere - che in italiano si traduce con “perfezione”) dal punto di vista psicologico si chiama “felicità”, o “soddisfazione”, che è sinonimo di perfezione e perciò di felicità. Il desiderio della felicità, dell’affermarsi compiuto, intero, della nostra umanità è il criterio per il quale uno sceglie un film invece che un altro, sceglie di impegnarsi in un determinato lavoro e di sacrificarvi energia e tempo, sceglie la ragazza con cui fare famiglia, accetta o non accetta figli. Il criterio è unico, ed è questa umanità che abbiamo addosso, che è come una cosa incompiuta, che urge di compiersi.
L’epoca in cui viviamo è come se portasse alle estreme conseguenze l’equivoco che può nascere sul concetto e sul sentimento di umanità: l’equivoco è se l’umanità, la nostra umanità, possiamo costruirla, adempierla completamente noi, oppure è qualcosa d’altro che la può salvare, è qualcosa più grande di essa che la può realizzare. Questa alternativa, che è di tutti i tempi, si può tradurre secondo la parola che è stata tematizzata nella Scuola di comunità dell’anno scorso, la parola “appartenenza”: se l’uomo appartiene a se stesso o appartiene a qualcosa d’altro. Ora, l’uomo che pretende di appartenere a se stesso cerca di costruire una visione dell’uomo e del mondo in cui, come opera delle sue mani, la sua umanità si realizzi. È inevitabile che parta da un certo punto di vista, è inevitabile la parzialità in questo tentativo; per questo si chiama anche ideologia.
Siamo in un momento in cui questo equivoco è portato alle estreme conseguenze. Questo primo fattore dell’alternativa, portato alle estreme conseguenze, ha dato lo scacco matto a tutte le ideologie. Noi viviamo un presente in cui tutte le ideologie sono crollate: proprio là dove si è tentata, come nel ’68, l’esasperata affermazione di esse, là si è aperto il baratro dove tutto è affondato...

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Don Giussani e il suo Dio di carne e ossa

«Per me che non l’ho mai visto, quest’uomo conosciuto soltanto nella sua eredità ha riedificato quella struttura umana cristiana che la mia generazione aveva perduto». Marina Corradi ricorda il fondatore di Cl

di Marina Corradi
Avrò avuto nove anni quando un giorno, guardando in giù dal finestrino di una funivia delle Dolomiti, notai un fiore viola, solo, bellissimo, abbarbicato sulle rocce a picco, sospeso sull’abisso. È strano come certe cose apparentemente insignificanti ti restino in mente: mi ricordo che mi domandai che senso avesse quel fiore così bello, in una piega della roccia in cui non lo avrebbe visto mai nessuno. Però non posi neppure la domanda agli adulti che erano con me. Non ero certa che fosse una domanda sensata.
Quel fiore del monte Faloria, nella mia memoria, è legato a don Luigi Giussani. Benché io Giussani non l’abbia mai conosciuto. L’ho solo letto, ho solo incontrato gente che lo ha seguito. Sono una “figlia” indiretta, come potrebbero esserlo i ragazzi di oggi, che la sua faccia non l’hanno vista mai.
Dunque, quel fiore era in realtà una faccenda importante. Col suo splendore gratuito speso su un anfratto irraggiungibile, interrogava sulla bellezza, e sul significato della bellezza. E perché poi una bambina doveva restarne tanto stupita e stranamente commossa? In fondo era solo un fiore. Passarono tanti anni da quel giorno in funivia. A venticinque anni io ero il tipico prodotto della cultura in cui ero vissuta. Sprezzante verso la Chiesa, acre verso ciò che del cristianesimo mi era stato tramandato: brandelli di un catechismo moralista e triste, di un pio appello a essere “buoni”, senza che se ne capisse la ragione. Nulla che potesse interessarmi. Senonché ero triste, e a volte quasi disperata: l’educato nichilismo in cui vivevo non mi bastava. Don Giussani, attraverso la voce di alcuni dei suoi, nei suoi libri, è stato per me l’uomo capace di ribaltare l’idea che mi ero fatta del cristianesimo. Di rovesciarla, riportandola all’essenza rivoluzionaria dell’origine. Che è: Dio si è fatto uomo. Verbum caro factum est. Duemila anni fa è nato un bambino che era il figlio di Dio. Ha predicato, è stato amato, è morto in croce ed è risorto. Tutto comincia da una storia di carne, tutto è concreto. Non è un’idea, non è un nobile “valore”: è un uomo, è quell’uomo, il cristianesimo.
Si dirà che tanti nella storia della Chiesa hanno ripetuto la stessa cosa. Certo, ma nei nostri anni, e soprattutto per i figli dei borghesi come me, Giussani ha saputo ridirlo con una straordinaria efficacia. Parlava la lingua giusta. Capiva da quali delusioni venivamo, si era accorto prima degli altri, ascoltando gli studenti del Berchet negli anni Cinquanta, di quanto formale e vuoto era diventato ormai, per molti, il cristianesimo. E il ripartire dal fatto, dal nascere di quell’uomo nella carne, comporta la pretesa cristiana di incidere pienamente nella storia: di avere a che fare con tutto ciò che l’uomo fa.
Quindici anni fa andai a intervistare un intellettuale laico allora molto in voga. Si parlava di smarrimento dei giovani, e dei soliti “valori” perduti. Tutto in astratto: perché, come disse il professore con sussiego, «Dio, se anche c’è, non c’entra». Ecco, ho amato Giussani proprio perché era il contrario di quell’intellettuale noioso e annoiante, e inutile col suo invocare vaghe utopistiche etiche. Ho amato Giussani con il suo Cristo di carne e ossa, con la sua orgogliosa pretesa di un Dio che c’entra con ogni uomo, con ogni istante della vita. Quel Cristo che è «tutto in tutti», come scriveva Paolo, nel vigore delle origini.
E però, insieme a questa totalità di pretesa, altrettanto grande è in Giussani l’amore per la libertà. Educava – mi hanno raccontato i suoi amici – ad aderire nella pienezza della ragione. Mai per conformismo, moralismo, abitudine. Ammettendo dunque implicitamente la possibilità di rifiutare, di sbagliare, di andarsene: perché siamo liberi. E di ritornare: perché il nostro Dio è misericordioso.

La ragione usata fino al culmine
Ha insegnato a usare la ragione fino al suo culmine: l’ammettere che c’è qualcosa che la supera, l’ammettere che siamo “fatti da”, che siamo creature. Questione determinante, in un tempo che fa dell’autosufficienza dell’uomo il proprio vero dogma. È il crinale che ci divide oggi: siamo creature o padroni assoluti di noi? A quanti ragazzi, allontanati da un cristianesimo che aveva ridotto la sua speranza a una morale, Giussani ha saputo dire, ha trovato le parole per dire che siamo “figli”. Figli di un padre che ci ha dato una vocazione: cioè un compito. Che dunque siamo qui a fare qualcosa di importante, non a ingannare il tempo. Che non andiamo verso il nulla, ma verso un destino. E che quel destino, qualsiasi siano le circostanze, è buono.
Per me, che Giussani non l’ho mai visto, quest’uomo conosciuto soltanto nella sua eredità di affetti e parole è stato un ricostruttore: ha riedificato quella struttura umana cristiana che molti della mia generazione avevano perduto. Ci ha detto che è vero ciò in cui credevano i padri dei padri; che ha un senso sposarsi per sempre, e avere dei figli, e continuare la storia. (Come il restauro di un tesoro sommerso, ossidato dal tempo, confuso nella memoria).
E il fiore del monte Faloria? Beh, quel fiore è una faccenda fondamentale. Perché la bellezza, ho imparato nei libri di Giussani, è segno, che potentemente rimanda all’Altro. Orma sui nostri sentieri, lasciata per chi liberamente voglia riconoscerla. O apparentemente abbandonata in terre senza nessuno, come quella genziana. Gratuitamente, verginalmente adorante il suo creatore. Come forse infantilmente avevo intuito – fedele a una domanda originaria – quel giorno in montagna. E poi dimenticato. Quel prete mai incontrato mi ha spiegato che tutto è ancora e sempre vero. Da quell’istante che ha tagliato la storia, con il vagito di un bambino.

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Giussani: la convenienza umana del cristianesimo. Del Card. Angelo Scola

«Sono persuaso che a proposito del fatto religioso in genere, e del cristianesimo in particolare, tutti crediamo già di sapere. Invece non è impossibile, riaffrontandolo, approdare a qualche aspetto di conoscenza nuova».

L’intento, del tutto positivo, di Luigi Giussani è stato sempre quello di mostrare la cum-venientia del fatto cristiano con quell’«insopprimibile senso religioso con cui la ricerca del destino dell’uomo coincide». Per riformulare la proposta cristiana egli ha esaminato i fattori che caratterizzano la vicenda culturale e sociale moderna e contemporanea.

Mi sembra particolarmente illuminante in proposito rileggere oggi un rilievo di Giussani sulla situazione del cristianesimo in Italia all’inizio degli anni Cinquanta: «Una situazione che vedeva i cristiani autoeliminarsi educatamente dalla vita pubblica, dalla cultura, dalle realtà popolari, fra gli incoraggianti applausi e il cordiale consenso delle forze politiche e culturali che miravano a sostituirli sulla scena del nostro paese».

Quando il mondo cattolico sembrava ancora occupare in modo imponente la società, Giussani percepisce con lucidità l’ondata di secolarizzazione che si sta per abbattere sull’Italia cattolica, i cui effetti saranno visibili, macroscopicamente, a partire dal 1968.

Da dove poteva nascere un simile, profetico giudizio? Dalla percezione che tale presenza massiccia non era che l’eredità inerziale di un passato: «Mi apparve allora chiaro che una tradizione, o in genere un’esperienza umana, non possono sfidare la storia, non possono sussistere nel fluire del tempo, se non nella misura in cui giungono a esprimersi e a comunicarsi secondo modi che abbiano una dignità culturale».

Ma questa dignità culturale è impossibile se non a partire dall’esperienza di un soggetto, personale e comunitario, ben identificato nei suoi tratti ideali ma inserito nella storia, che si proponga, con semplicità e senza complessi, all’uomo in forza delle sue ragioni intrinseche. Un simile soggetto non teme un confronto a tutto campo.

In Giussani è lo stesso dinamismo che regge l’insorgere e lo svilupparsi dell’esperienza e del pensiero. Una conferma questa del fatto che l’esperienza, quando è autentica, contiene il suo logos, non lo riceve dall’esterno, e a sua volta il pensiero, quando è integrale, non può che “rendere” la realtà in quanto tale.

In quest’ottica non sfugge come l’opera di Giussani superi di schianto ogni dicotomia e ogni estrinsecismo nel considerare il rapporto tra ragione e fede, tra natura e soprannaturale, tra umano e cristiano.

Sono i due polmoni della riflessione di Giussani. Nel suo appassionato insegnamento e nei suoi scritti, il sacerdote milanese non cessa di porre attenzione al frangente storico e culturale per comunicare un’esperienza/pensiero alla libertà del suo interlocutore. Una libertà che è sempre drammaticamente situata.

Realtà (quindi storia e cultura) e conoscenza (perciò ragione e fede) fanno l’esperienza dell’uomo aperto alla verità e desideroso di comunicarla. La verità infatti non è veramente conosciuta fin tanto che non è comunicata.

Non si capirebbe Giussani al di fuori di concetti chiave pensati secondo la sensibilità moderna, quali quelli di esperienza, di libertà, di verità come evento, di conoscenza come strutturalmente connessa all’affezione, di essere come dono, di “ soggetto” come implicato nel dono stesso dell’essere.

Giussani era realista, di un realismo che afferma l’esistenza e la conoscibilità del fondamento veritativo del reale e che conduce a un confronto a tutto campo: «Se la persona di Cristo dà senso ad ogni persona e ad ogni cosa, non c’è nulla al mondo e nella nostra vita che possa vivere a sé, che possa evitare di essere legato invincibilmente a Lui. Quindi la vera dimensione culturale cristiana si attua nel confronto tra la verità della sua persona e la nostra vita in tutte le sue implicazioni».

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Don Giussani ci svelò il segreto della Realtà

TU ES PETRUS. Don Giussani ci svelò il segreto della Realtà





22 Febbraio 2010: cinque anni dalla scomparsa di don Luigi Giussani. Per ricordare la figura e l'opera di questo Maestro di Fede, abbiamo chiesto a don Gabriele Mangiarotti, responsabile del prestigioso sito Cultura Cattolica.it, la testimonianza di chi ha riconosciuto in lui la guida di una vita innamorata di Cristo e della Sua misteriosa presenza in mezzo agli uomini: la Chiesa.




Giussani. Il carisma del maestro. di Massimo Camisasca


Chi sia stato don Giussani non è semplice dirlo. Poche parole non bastano a descriverne la ricchezza della personalità poiché egli è stato un uomo poliedrico. Ci avvicineremo percorrendo alcune strade concentriche che hanno segnato la sua esistenza. Egli è stato un lettore intelligente e precoce di poesia e letteratura. Durante le ore di lezione, citava a memoria intere poesie di Pascoli, di Leopardi, di Ada Negri e di altri autori a lui cari. Interessato al dramma inevitabile dell’esistenza umana, era un innamorato degli uomini: sempre desideroso di imparare, di trovare la strada per entrare dentro le loro vite, la loro mente e il loro cuore. Le parole degli scrittori erano, tra le altre, alcune vie di questo incontro. Era sicuro di una cosa: ogni uomo, nel fondo del suo essere, vive per le stesse esigenze di verità, di giustizia, di bene, di felicità che animano le ore dei suoi fratelli sulla terra. All’uomo che grida, che cerca, che non può negare a se stesso quel «più in là» di cui parla Montale, era diretta la sua attenzione profonda. Lo sviluppo compiuto di questa intuizione è contenuto nella sua opera che egli chiamerà «Il senso religioso». Colpiva in don Giussani la sua passione per la musica. Da piccolo, il padre lo portava con sé ad assistere a concerti d’organo o di polifonia, una passione che coltiverà poi in seminario attraverso la scuola di monsignor Nava. Egli ha così penetrato i segreti delle grandi opere: portava in classe grandi grammofoni per farci ascoltare la Quinta o la Settima di Beethoven, alcuni concerti di Mozart, ci introduceva a Brahms, Schubert e Chopin.
Nella musica vedeva il segno profondo della vita dell’uomo. Nei grandi artisti, nella loro opera leggeva la solitudine umana e, allo stesso tempo, la tensione verso l’incontro con altri uomini. Don Giussani è stato sì un uomo curioso, che amava conoscere, ma soprattutto l’amico che avresti voluto trovare sul sedile accanto a te, durante il viaggio della vita. Egli è stato un grande studioso di teologia in seminario, l’ha penetrata con tale passione che i suoi insegnanti pensavano potesse diventare un grande teologo, uno dei più importanti del nostro Paese. Trascorse 8 anni nel seminario di Venegono, dove vi erano degli educatori che potevano, per la loro profondità e paternità, formare non solamente dei preti, ma educare degli uomini. Un episodio lo segnò profondamente. Quando da monsignor Gaetano Corti sentì commentare il versetto del Prologo del Vangelo di Giovanni, «Il Verbo si è fatto carne» (Gv 1,14), cioè la Bellezza, la Giustizia, l’Amore, la Verità si è fatta carne, si ricordò in quel momento di una poesia di Leopardi. Era un inno non a una delle sue amanti, ma alla scoperta che ciò che cercava nella donna amata era qualcosa oltre essa. Quella di Leopardi fu, 1800 anni dopo san Giovanni, la mendicanza di quell’avvenimento che era già accaduto. L’allora rettore del seminario, Giovanni Colombo, futuro arcivescovo di Milano, che nutriva sentimenti di vera stima per Giussani, tentò per ben due volte di realizzare il progetto di tenerlo in seminario. Nel 1954 e poi nel 1965.
Giussani sentiva di essere chiamato ad altro. È lui stesso a raccontarlo: dopo aver incontrato alcuni giovani studenti sul treno, trovandoli totalmente estranei alle cose più elementari del cristianesimo: «Mi venne… il desiderio di far conoscere loro quello che io avevo conosciuto… Abbandonai perciò l’insegnamento in seminario… e scelsi di insegnare religione nelle scuole medie superiori dello Stato».
Don Giussani è stato soprattutto un grande educatore. La sua preoccupazione era trasmettere ai ragazzi in modo chiaro, affascinante e coinvolgente, quello che gli sembrava la Chiesa non riuscisse più a comunicare. Il patrimonio vitale che costituisce l’anima di ogni civiltà deve essere riscoperto e riguadagnato da ogni generazione. Tutta la vita del sacerdote lombardo è stata un’esistenza dedicata a documentare il metodo della trasmissione del cristianesimo. Una sintonia impressionante con quello che sarà il tentativo del Vaticano II, un concilio pastorale che non volle semplicemente riproporre delle verità, ma soprattutto indicare una strada per viverle. Egli non si stancò mai di ripetere che seguire Cristo
non è negare la ragione, negare l’uomo, ma all’opposto è esaltarlo. Il cristianesimo non è una tradizione del passato, è una Persona presente che entra nella vita, in forza della ragione stessa del suo annuncio. Giussani era fermamente convinto che solo dall’interno del cristianesimo vissuto l’uomo scopre se stesso e le sue attese più radicali. Nessuno conosce l’uomo come Cristo, dirà la costituzione del Concilio «Gaudium et spes» (n. 22). Il suo tentativo è stato quello di portare la tradizione vivente della Chiesa negli ambienti della vita dell’uomo: nella scuola, nell’università, nella famiglia e nel lavoro. Tuttavia Giussani non ebbe vita facile. Egli era malvisto dai tradizionalisti, che lo consideravano un innovatore perché metteva insieme ragazzi e ragazze e favoriva la creazione di comunità nelle scuole, viste come una possibile causa dell’allontanamento dei giovani dalle parrocchie. Al tempo stesso era additato dagli innovatori come tradizionalista. In realtà don Giussani aveva orrore per ogni tradizionalismo come sguardo all’indietro.
Desiderava lanciare i giovani verso il futuro, voleva portare un cambiamento, non una rivoluzione, una rottura con la storia precedente, quanto piuttosto una novità nella continuità. Tema centrale di questo passaggio verso una tradizione rinnovata è stato l’esperienza dell’autorità.
Egli ne fu un estremo sostenitore, soprattutto dopo il Sessantotto, quando essa fu duramente contestata.

E
ra fermamente convinto che senza autorità non c’è educazione, perché educare è trasmettere qualcosa che si è ricevuto. La vita perderebbe il suo asse fondamentale: la scoperta di essere creatura, di essere fatti da Dio, generati da qualcuno che ci precede, che ci attende e che ci vuole bene.
Combatté tuttavia anche ogni forma
di autoritarismo e di clericalismo, mettendo in luce il valore affettivo dell’ autorità. Don Giussani è stato un alto cantore di Cristo. Già negli anni del seminario iniziò con alcuni suoi compagni un piccolo gruppo, lo «Studium Christi»: una passione irrefrenabile per Gesù come avvenimento presente. La fede è riconoscere Cristo vivo qui ed ora, centro del cosmo e della storia, una persona che vale la pena seguire, che è luce che illumina la vita e calore che riempie interamente il cuore. Le parole della Scrittura erano spessissimo sulle labbra di Giussani: egli la leggeva, la meditava, ci si immedesimava. E immedesimava chi lo ascoltava. Amava tantissimo san Giovanni e san Paolo, forse perché li sentiva più vicini a sé. In Giovanni scopriva la forza della contemplazione dell’evento dell’incarnazione; in Paolo il grande slancio missionario. Don Giussani era un uomo profondamente lombardo e un prete profondamente ambrosiano. Tutta la sua vita è stata permeata dalla figura e dall’insegnamento di sant’Ambrogio che attraverso la liturgia e la grande tradizione della Chiesa ambrosiana giunse fino a lui.
L’

ambrosianità di don Giussani si esprimeva nel senso concreto dell’uomo peccatore e salvato. Era vivo in lui lo stupore per la misericordia di Dio più grande del nostro peccato. Amava tutto ciò che è bello, tutto ciò che è parola, che è canto, come era per Ambrogio, creatore degli inni. In lui ho rivisto un tratto tipico dei grandi preti ambrosiani: una «fedeltà in piedi» non servile, ma reale e sacrificata all’autorità della Chiesa. Così è stato il suo rapporto con i due arcivescovi di Milano, Montini e Colombo, che videro la fioritura del movimento proprio negli anni del loro servizio pastorale, e con i papi che ha incontrato. Don Giussani è stato un grande uomo di cultura, un estimatore della ragione umana. Durante le ore di lezione colpiva la forza logica del suo parlare, la stringenza del suo ragionamento. Egli non si stancò di sostenere contro ogni riduzionismo che la ragione è apertura alla realtà in tutti i suoi fattori. Benedetto XVI in questi ultimi anni ha invitato ad «allargare la ragione». Mi ha fatto molto pensare a don Giussani. La ragione non è qualcosa che ci chiude in noi stessi ma è una finestra spalancata su una realtà nella quale non si finisce mai di entrare.
Dall’incontro con Cristo nasce una cultura nuova, chiamata ad incidere nell’ambiente in cui vivono i cristiani. Essa divenne una delle tre dimensioni che, insieme alla carità
e alla missione, costituì l’anima della nuova Gioventù Studentesca nata intorno a Giussani. Egli ci ha sempre educati alla carità. Fin da piccoli andavamo nella Bassa milanese per stare con i bambini semplicemente, per educarci al fatto che Dio si è fatto uomo per stare con noi. Tutto nasce dalla carità, dal nostro cuore che accetta di condividere la sua vita con quella degli altri, come Dio ha condiviso la nostra. Le opere di carità nate da don Giussani sono tantissime: scuole, opere di accoglienza, associazioni di famiglie, iniziative missionarie.Già dalla fine degli anni Sessanta don Giussani aveva pensato a una missione in Brasile. Fu sicuramente un’apertura importante perché egli era convinto della necessità della missione come vero ecumenismo: condividere con altri fratelli che vivono in orizzonti lontani e diversi quello che viviamo noi. Ed infine, l’ultima parola che ha dominato la vita di don Giussani è stata la misericordia. Negli ultimi anni tutto si era tramutato in questa certezza: «Dio per l’uomo è misericordia». È stata l’insistenza maggiore in un numero impressionante di interventi, come un fiume in piena, in un uomo segnato dall’immobilità, dalla quasi totale impossibilità ad articolare la sua voce.
Colpisce la comunanza con la vita di Giovanni Paolo II, morto proprio nei primi vespri della festa della Divina Misericordia.
E 5 anni prima di morire Giussani scriveva: «Di fronte a tutti i peccati della terra, sarebbe ovvio dire: Dio distrugga un uomo così. Invece, Dio muore per un uomo così, diventa uomo e muore per un uomo così, tanto che questa sua misericordia rappresenta il senso ultimo del mistero».

Non ebbe vita facile: malvisto dai tradizionalisti, che lo consideravano progressista perché metteva insieme ragazzi e ragazze, al tempo stesso era additato dagli innovatori come passatista In realtà aveva orrore per ogni sguardo all’indietro, desiderava lanciare i giovani verso il futuro ma nella continuità; per questo soprattutto dopo il ’68 sostenne l’autorità, convinto che si deve trasmettere ciò che si è ricevuto




© Copyright Avvenire 21 febbraio 2010