DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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LA REGRESSIONE DEL MEDICO DA IPPOCRATE A GRETA

Mattia Ferraresi


La progressiva trasformazione del medico in scienziato sociale, opportunamente formato nelle facoltà di Medicina sui cambiamenti climatici, la giustizia sociale, la teoria del gender e altro, è il “Pensiero dominante” di questa settimana. Lo spunto è un editoriale di denuncia firmato dal professore di medicina Stanley Goldfarb, che prende nota delle profonde modifiche in atto nei curricula delle medical school americane e si scaglia contro il potere acquisito da discipline che non hanno quasi nulla a che fare con la scienza medica. Già questo spostamento configura un paradosso: i progressisti che insistono sull’importanza cruciale dei cambiamenti climatici solitamente lo fanno in nome della scienza, non di una mera opinione politica, ma nel caso della formazione dei medici lo studio di certe discipline avviene proprio a discapito del rigore scientifico. Per far spazio alle scienze sociali, si toglie spazio ad anatomia e fisiologia. È dunque curioso che siano le associazioni di categoria a promuovere con forza le riforme dei programmi che Goldfarb avversa (peraltro contro l’opinione dell’istituzione per cui lavora, la University of Pennsylvania), mentre allo stesso tempo bastonano la popolazione ignorante che per via di qualche presunto sortilegio populista si fida sempre meno dei medici e degli esperti in generale. Il dibattito in questione riguarda i medici, ma l’idea che illumina è più vasta e riguarda l’intrusione delle scienze sociali, opportunamente piegate su certi temi politicamente sensibili, in qualunque disciplina e ambito della vita pubblica. Si tratta di una tendenza generale, parte del clima in cui viviamo.
  
Stanley Goldfarb è un medico americano e professore alla University of Pennsylvania, dove in passato ha guidato anche il dipartimento che si occupa di stabilire e aggiornare il curriculum della facoltà di Medicina. Goldfarb non è affatto contento del modo in cui le medical school americane stanno ridisegnando i propri corsi di studi, e ha esternato il suo dissenso in un editoriale sul Wall Street Journal in cui denuncia la tendenza – promossa dalle maggiori associazioni del settore – a includere nel percorso di formazione dei medici corsi sui cambiamenti climatici, il controllo delle armi da fuoco, la giustizia sociale. Alcuni esempi del trend: l’American College of Physicians ha preso posizione nel dibattito sulle armi da fuoco chiedendo una riforma restrittiva sul loro possesso. La presidentessa, Ana Maria Lopez, ha detto che “abbiamo urgente bisogno di leggi per tenere lontano le armi da chi commette violenze domestiche” e ha sottolineato che le donne sono particolarmente esposte ai rischi. L’American Medical Association e l’International Federation of Medical Students sostengono l’introduzione di corsi obbligatori nelle facoltà di Medicina sugli effetti dei cambiamenti climatici sulla salute, e la direttiva è già stata applicata da diverse università, fra cui la University of Minnesota e la University of Illinois. La Mayo Clinic, il più importante centro di ricerca in America, ha da poco avviato una discussione su come integrare il tema nel curriculum degli studenti. 187 università hanno aderito alle linee guida proposte due anni fa dal centro di salute pubblica della Columbia University, che preme per fare dei cambiamenti climatici un pilastro dell’educazione dei medici. Goldfarb conosce queste dinamiche per esperienza diretta: nel suo precedente incarico presso l’università dell’Ivy League è stato duramente criticato da alcuni colleghi per aver resistito a una riforma in senso socio-politico del percorso di studi. Si potrebbe andare avanti con gli esempi, ma quel che importa ai fini del “Pensiero dominante” è che la politicizzazione della formazione di chi cura ha assunto ormai un carattere sistemico, istituzionale. Ippocrate è affiancato da un esercito di scienziati sociali che propugnano giuramenti di altra natura.

“Una nuova ondata di specialisti dell’educazione sta sempre più influenzando la formazione medica. Questi sottolineano una ‘giustizia sociale’ che c’entra soltanto marginalmente con la salute”, scrive Goldfarb, che individua alcune cause di questa china: “Questa impostazione è il risultato di una mentalità progressista che disprezza le gerarchie di ogni tipo e l’elitismo sociale associato in particolare alla professione medica”. Gli esperti di educazione che il professore critica “si concentrano sull’eliminazione delle disparità sanitarie e sull’obiettivo di formare una generazione di medici che sia attrezzata per occuparsi di diversità culturale”, obiettivo che giudica meritorio, ma che “avviene a spese del rigoroso training nella scienza medica”. Questo è il cuore della critica di Goldfarb: per assecondare lo Zeitgeist, i medici americani promuovono una riduzione del rigore scientifico nella formazione dei nuovi professionisti. Gli aspiranti medici sono sempre più esposti alle scienze sociali, e le energie che mettono nello studio di materie che hanno il solo scopo di stare al passo con la temperie culturale sono inevitabilmente sottratte allo studio della scienza medica. Il che configura un paradosso, perché i promotori dell’allargamento dei curricula alla scienza climatica, alla giustizia sociale, alla teoria del gender, all’inclusività culturale e quant’altro non sostengono le loro tesi adducendo motivazioni ideologiche o culturali, ma dicono che la riforma medica va fatta proprio nel nome della scienza. Gli oppositori, come Goldfarb, rispondono però che le pur importanti battaglie che questi promuovono non poggiano su evidenze scientifiche paragonabili a quelle su cui si muove la medicina. Gli studi degli effetti dei cambiamenti climatici sulla salute umana provano poco, troppo poco per poter essere promossi allo stesso rango dell’anatomia e della fisiologia, e il discorso vale ancora di più per il tema delle armi da fuoco. “Questo metodo si adatta perfettamente – scrive Goldfarb – all’approccio burocratico, gravido di politica, che predilige la forma sulla funzione che domina l’educazione americana a tutti i livelli. Prevalgono oggi teorie dell’apprendimento che non hanno alcuna base sperimentale per stabilire il loro impatto sulla società e sulle professioni”.
  
Per evitare la semplicista riduzione del problema al solito dialogo fra sordi di progressisti e conservatori, è bene chiarire ancora meglio che cosa Goldfarb non pensa e cosa non invoca. Non pensa che i cambiamenti climatici non esistano o che non siano rilevanti per la salute umana; non denigra gli oppositori della diffusione sbrigliata delle armi da fuoco e non sostiene l’inutilità delle scienze sociali. Molto più semplicemente, dice che il medico si occupa della cura dei corpi, e le facoltà di Medicina, per assolvere il loro compito, dovrebbero occuparsi di formare professionisti sempre più competenti e abili nel maneggiare gli strumenti propri della medicina. E l’esigenza è ancora più urgente in un contesto in cui l’America è a corto di specialisti. Si tratta di scegliere le priorità, come hanno osservato anche i rappresentanti della scuola di Medicina della New York University di Long Island, che non ha fatto concessioni alla climatologia in chiave medica: “Con una disponibilità limitata di tempo e molti argomenti di scienza e clinica di base da studiare negli anni formativi della scuola di medicina, i nostri docenti devono scegliere quali sono le materie fondamentali, a discapito di altre”, ha spiegato l’università di New York.
  
Non era difficile prevedere una reazione scomposta di un certo mondo medico di impostazione progressista – cosa che di per sé testimonia la validità della sua critica – e infatti la medical school della University of Pennsylvania si è affrettata a smarcarsi dalla posizione di Goldfarb: “Abbiamo profondamente a cuore l’inclusione e la diversità come fattori fondamentali per un’efficiente erogazione dei servizi sanitari, per la creatività, la scoperta e l’educazione permanente. Ci impegniamo per assicurare una rigorosa e comprensiva formazione medica che includa l’esame delle molte componenti sociali e culturali che influenzano la salute, dalla violenza nelle nostre comunità ai cambiamenti dell’ambiente”. La risposta non fa che alimentare l’equivoco alla base della disputa: non si tratta del posizionamento culturale e politico su alcune questioni ampiamente dibattute nel nostro tempo, ma di decidere se il medico – figura fondamentale nella vita civile, qualunque partito si voti – debba o meno assomigliare sempre di più a uno scienziato sociale.


  
Scritto prima del IV secolo a.C. e attribuito a Ippocrate, padre della professione medica, il famoso giuramento costituisce la base della deontologia professionale dei dottori. Il testo è stato aggiornato e rivisto nel corso dei secoli, e l’ultima versione in Italia risale al 2007. Pubblichiamo qui il testo del giuramento antico.
  
Giuro per Apollo medico e Asclepio e Igea e Panacea e per tutti gli dei e per tutte le dee, chiamandoli a testimoni, che eseguirò, secondo le forze e il mio giudizio, questo giuramento e questo impegno scritto: di stimare il mio maestro di quest’arte come mio padre e di vivere insieme a lui e di soccorrerlo se ha bisogno e che considererò i suoi figli come fratelli e insegnerò quest’arte, se essi desiderano apprenderla, senza richiedere compensi né patti scritti; di rendere partecipi dei precetti e degli insegnamenti orali e di ogni altra dottrina i miei figli e i figli del mio maestro e gli allievi legati da un contratto e vincolati dal giuramento del medico, ma nessun altro.
Regolerò il tenore di vita per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio; mi asterrò dal recar danno e offesa. Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo. Con innocenza e purezza io custodirò la mia vita e la mia arte.
Non opererò coloro che soffrono del male della pietra, ma mi rivolgerò a coloro che sono esperti di questa attività.
In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati, e mi asterrò da ogni offesa e danno volontario, e fra l’altro da ogni azione corruttrice sul corpo delle donne e degli uomini, liberi e schiavi. Ciò che io possa vedere o sentire durante il mio esercizio o anche fuori dell’esercizio sulla vita degli uomini, tacerò ciò che non è necessario sia divulgato, ritenendo come un segreto cose simili.
E a me, dunque, che adempio un tale giuramento e non lo calpesto, sia concesso di godere della vita e dell’arte, onorato dagli uomini tutti per sempre; mi accada il contrario se lo violo e se spergiuro.
Ippocrate
(460 a.C. – 377 a.C. circa)

IL FOGLIO 6 Ottobre 2019

Il Nobel per la medicina a Edwards. Scienza e Vita: premiata una tecnica che riduce l'uomo a "prodotto"

“Un’assegnazione che disattende tutte le problematiche di ordine etico e che rimarca che l’uomo può essere ridotto da soggetto ad oggetto”. Così il presidente dell’Associazione Scienza e Vita, Lucio Romano, ha commentato l’assegnazione oggi del Nobel per la medicina all’inglese Robert Edwards ''per lo sviluppo della fecondazione artificiale''. Il prof. Romano sottolinea anche l’inaccettabilità delle tecniche di fecondazione in vitro, che comportano la “selezione e soppressione di esseri umani allo stato biologico di embrioni”. Massimiliano Menichetti lo ha intervistato.RealAudioMP3



R. - Teniamo conto che Edwards segna la storia, perché pratica il passaggio delle tecniche dal mondo degli animali - vale a dire dove, nell’applicazione degli allevamenti, venivano già da tempo messe in essere tecniche di fecondazione artificiale - all’ambito umano. Ma questo non significa assolutamente che ciò, nel suo complesso, rappresenti un progresso dell’uomo nella sua visione globale. E’ un Premio Nobel che deve essere assolutamente preso in considerazione in ragione di un’analisi anche di ordine etico, che a me sembra, attraverso un’assegnazione così decisa del premio stesso, venga a disattendere tutte le problematiche di ordine etico ad esse connesse.

D. - Quando si parla di fecondazione "in vitro" non si può non parlare del destino degli embrioni. Che cosa gli accade?

R. - Sia per quanto riguarda la selezione, il congelamento e lo scongelamento, evidentemente vanno incontro a morte. Stiamo parlando di vite umane, di esseri umani allo stato biologico di embrione che vengono soppressi per una procedura che è sicuramente selettiva. In altre nazioni, viene preso in notevole considerazione il ricorso anche alla cosiddetta diagnosi genetica preimpianto, con ulteriore selezione degli embrioni, secondo caratteristiche preordinate, non soltanto di ordine biologico, ma anche di ordine sociale e culturale.

D. - Un Premio Nobel di questo tipo sembra andare sempre di più verso una deriva, dove l’uomo è un oggetto e non è più un essere umano...

R. - Sì, di un uomo che diventa non più un essere umano frutto di una procreazione, ma viene edificato come “prodotto del concepimento”: e sappiamo benissimo come questo tipo di termine, “prodotto del concepimento”, ufficializzi - così come viene usato nella prevalenza dei casi, in ambito ginecologico, in ambito biomedico - quella del riduzionismo antropologico di nuovo da soggetto a oggetto.

D. - Questo, ad esempio, come ricade su problematiche come aborto ed eutanasia?

R. - Quando si considera la vita di un essere umano non più come vita appartenente ad un soggetto, ma come vita della quale si può disporre, è evidente che si aprono tutti gli altri campi che non riconoscono la dignità della vita, della quale invece si può disporre in qualsiasi momento.

D. - Edwards ha avuto il Nobel; non l’ha ottenuto Yamanaka sulle cellule staminali adulte, una ricerca che invece va verso la vita..

R. - La ricerca di Yamanaka risponde a criteri di scientificità e di rigore etico, ma il segnale che ci perviene attraverso l’assegnazione del Premio Nobel indica una sorta di accettazione di tecniche che noi sappiamo essere caratterizzate e gravate da una molteplicità di problemi di ordine etico che possiamo definire insormontabile.



Dichiarazione di mons. Ignazio Carrasco de Paula, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita



Dichiarazione di mons. Ignazio Carrasco de Paula, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita. (Mons. Carrasco precisa che si tratta di una dichiarazione da lui data a titolo personale in risposta alle domande ricevute da agenzie e giornalisti e non di un Comunicato ufficiale

"La concessione del Nobel al Prof. Edwards ha suscitato molti consensi e non poche perplessità come era prevedibile. Personalmente avrei votato altri candidati come McCullock e Till, scopritori delle cellule staminali, oppure Yamanaka, il primo a creare una cellula pluripotente indotta (iPS).
Tuttavia la scelta di Edwards non mi sembra completamente fuori luogo; da una parte, rientra nella logica perseguita dal Comitato che assegna il Nobel, dall'altra lo scienziato britannico non è un personaggio che si possa sottovalutare: lui ha inaugurato un capitolo nuovo e importante nel campo della riproduzione umana, i cui risultati migliori stanno alla vista di tutti, a cominciare da Louise Brown la prima bambina nata dalla Fivet, ormai trentenne e a sua volta mamma – in modo assolutamente naturale – di un bambino.

Le perplessità? Tante: senza Edwards non ci sarebbe il mercato di ovociti; senza Edwards non ci sarebbero congelatori pieni di embrioni in attesa di essere trasferiti in utero o, più probabilmente, di essere usati per la ricerca oppure di morire abbandonati e dimenticati da tutti.

Direi che Edwards inaugurò una casa ma aprì la porta sbagliata dal momento che puntò tutto sulla fecondazione in vitro e consentì implicitamente il ricorso a donazioni e a compra-vendite che coinvolgono esseri umani. Così non ha modificato minimamente né il quadro patologico né il quadro epidemiologico dell'infertilità. La soluzione a questo grave problema verrà da un’altra strada meno costosa e ormai in avanzato corso di costruzione. Bisogna pazientare e aver fiducia nei nostri ricercatori e nei nostri clinici"

IL CONTROLLO CHIMICO SUL CORPO FEMMINILE. Una compressa per ogni stagione della vita

In un illuminante articolo uscito su Repubblica nel febbraio del 1991, a firma del giornalista scientifico Giovanni Maria Pace, si celebravano trionfalmente i venticinque anni della pillola che aveva cambiato il mondo, definita “l’anticoncezionale più affidabile e meno invasivo, il piccolo gesto quotidiano che ha dato leggerezza alla sessualità e ordine alla procreazione”. Solo luci e nessuna ombra (“la donna può tranquillamente prendere la pillola dai quindici ai quarantacinque anni”), nella certezza che Pincus era stato solo il battistrada di una tendenza che lo stesso autore dell’articolo sintetizzava efficacemente così: per ogni donna, c’è “una pillola, dal menarca alla tomba”. Dalla pillola anticoncezionale durante l’età feconda fino alla pillola per la terapia ormonale sostitutiva nella terza età (ora affiancata, da qualche anno, dalla pillola che sollecita il desiderio sessuale “anche per lei”) la donna moderna può contare su “una pillola per ogni stagione”. Anzi, “la pillola getta un ponte tra le varie stagioni della vita, livellando la distanza tra donna fertile e donna in menopausa”. Anche il luminare delle ginecologia citato da Giovanni Maria Pace, aveva in proposito idee molto chiare: “In realtà, ovulare continuamente senza necessità, come accade alle donne avviate al Duemila, non è meno anomalo del trattamento ormonale”.

La donna, insomma, è ontologicamente e decisamente antiquata, con quella noiosa ovulazione mensile, relitto di chissà quale stato ferino e spada di Damocle continua. Bisognava, bisogna modernizzarsi a forza di pillole, per stare al passo con i tempi. Non essere feconda quando lo si è e sembrarlo quando non lo si è più.
Non c’è molto da ridere, anche se verrebbe voglia. Solo poche settimane fa, la Società italiana di ginecologia e ostetricia ha fatto sapere che secondo uno “studio americano sono le magre (con un indice di massa corporea fra 15 e 25) a preferire i contraccettivi ormonali, i più sicuri in assoluto”. Più pillole si prendono, più magre, sane, più belle e più “moderne” si è, insomma.
Questa valenza di “normalizzazione” del femminile fecondo, del suo controllo chimico, dell’addomesticamento dei corpi di donna trasformati in corpi che non procreano, sul modello maschile, non è mai sfuggita alla critica del movimento femminista, o almeno alle sue componenti meno influenzate dal vecchio emancipazionismo, preso dal suo ideale di donna “libera proprio come un uomo”. A questa immagine – bisognosa delle pillole che promettono potere totale sulla capacità procreativa e sul desiderio sessuale (compresa la pillola abortiva Ru486, la pillola del giorno dopo e l’ultima arrivata, quella dei cinque giorni dopo) – il femminismo della differenza ha saputo invece opporre una visione tutt’altro che entusiasta. E’ proprio da quel femminismo che arrivano le critiche più forti alla medicalizzazione della vita sessuale delle donne (così come, più tardi, arriveranno anche le più forti opposizioni all’aborto con le prostaglandine, considerato “unsafe”, e al suo derivato perfezionato, la Ru486), anche quando continua a essere valorizzato l’aspetto della sessualità separata dalla procreazione.
Non c’è solo l’antesignana del femminismo italiano, Carla Lonzi, che nel suo anatema assoluto contro il patriarcato pure afferma che “col controllo delle nascite le donne, che prima hanno visto svalutata la loro sessualità, vedono svalutata anche la maternità”. La pillola anticoncezionale, per usare le parole della femminista e storica del corpo Barbara Duden, per molte era ed è “un prodotto ingerito ogni giorno, non per prevenire la rinite autunnale, ma per bloccare un intero processo, l’ovulazione, un processo che soltanto da poco, cioè dal 1923, era stato verificato empiricamente” (“I geni in testa, il feto nel grembo”, Bollati Boringhieri). La Duden si chiede se la pillola non sia altro che uno “strumento di automutilazione”. Scegliendola, la donna impartisce “un ordine chimico al proprio corpo”. Un ordine che, a torto, si ritiene facilmente reversibile. Da quell’ordine “normalizzante” in realtà la donna è cambiata nel profondo, nel suo modo di essere e di interagire. Non è affatto liberata ma “decorporeizzata”. Per questo è il caso di riflettere, dice Duden, fuori da ogni sospetto di condanna morale, sul “contesto di questo ‘meccanismo di controllo’ chimico della donna, che sta diventando routine anche in menopausa e oltre”. Un contesto nel quale la biografia femminile rischia “di diventare il protocollo di una gestione di sé completamente affidata alla chimica: la donna gira l’interruttore della procreazione su ‘off’ e poi cerca di rimetterlo temporaneamente su ‘on’, sempre che ci riesca. E già a quarant’anni passa alla pillola ormonale per prevenire non il concepimento, ma l’osteoporosi o l’Alzheimer”. Duden invita quindi le donne a “imparare a decifrare la logica simbolica che hanno ingollato insieme con la pillola”. A darle ragione, le paradossali cifre dei “fallimenti contraccettivi” nei paesi, come la Francia, dove al diffusissimo impiego di anticoncezionali orali (anche le adolescenti possono farseli prescivere dal ginecologo senza autorizzazione dei genitori) corrisponde, da vent’anni a questa parte, lo stesso, inamovibile e altissimo numero di aborti.

Nicoletta Tiliacos



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Una rivoluzione antropologica si sta consumando DA PILLOLA A PILLOLA UN CICLO SI CHIUDE. FORSE

Quando un mese fa, nella riunione di redazione, decidemmo di titolare la puntata mensile “E l’uomo creò la pillola”, non potevamo immaginare la bagarre che si sarebbe scatenata, di lì a poco, attorno alla Ru486, la pillola dell’aborto chimico. Sta di fatto che abbiamo colto nel segno. Abbiamo cioè individuato uno dei temi “sensibili” con i quali tanto la società italiana quanto la politica non possono non fare i conti da subito. Per non parlare delle coscienze individuali chiamate a valutare una possibilità nuova messa a disposizione dalla scienza per una delle pratiche umane più antiche, ma anche più cariche di dolore e di sofferenza. Dunque, un percorso pubblico e privato pieno di insidie e di scelte.
La vicenda della Ru486 è a suo modo emblematica perché pone in rilievo tutte le contraddizioni che noi abbiamo voluto mettere in fila e che registrano l’affollarsi di interrogativi, dai quali dipende anche una parte essenziale del futuro di tutti noi. Volendo elencare, solo per titoli, le conseguenze che l’introduzione dell’aborto chimico nel sistema sanitario pubblico reca con sé, dobbiamo ricordare innanzitutto quelle attinenti alla sfera della “salute riproduttiva”, ci sono poi quelle economiche, sociali, relazionali, culturali e politiche. Ultime, non meno importanti, quelle antropologiche ed etiche. Tutto questo troverete negli approfondimenti che arricchiscono la puntata.
A noi, però, preme offrire una chiave di interpretazione generale: con l’aborto chimico si avvia a chiudersi, in Italia, un ciclo storico-culturale-antropologico cominciato molti anni fa, nel lontanissimo 1961. In quell’anno approdò e si diffuse in Italia la pillola anticoncezionale, la pillola delle avanguardie femministe che hanno legato a quella molecola l’affermazione della liberazione della donna. In realtà quella pillola portò con sé il primo grande strappo fra sessualità e procreazione che ha trovato slancio e si è proiettato sino ai nostri giorni guadagnando spazi nella legislazione (pensate alla procreazione medicalmente assistita) e nel dibattito pubblico (fecondazione eterologa, Pma estesa alle coppie gay e ai single, adozione a coppie gay). Come vedete tutto si tiene e affonda le radici in quel primo atto, apparentemente liberatorio, in realtà foriero di profondi cambiamenti socio-culturali. Sull’onda della pillola anticoncezionale l’Italia ha vissuto la stagione del divorzio (1970/74) e poi dell’aborto sino al varo della legge 194 (1978). Fra i cui obiettivi anche quello di portare alla luce i drammi degli aborti (tutti allora clandestini) e di garantire alle donne condizioni di tutela della salute per pratiche che spesso venivano realizzate in condizioni disumane. L’aborto, dunque, sottratto al privato e al nascondimento per essere “tutelato” dallo Stato. E perciò fatto riaffiorare socialmente. Ecco, però, come in un’eterogenesi dei fini, irrompere un’altra pillola, la Ru486 a risospingere l’aborto nel mondo privato delle donne. Si discute, infatti, della possibilità di favorire l’assunzione della pillola in regime di day hospital. In tal caso, le donne potranno tornare a casa per consumare, in solitudine, il dramma dell’aborto.
Sorpresa: chi sostiene questa soluzione? Sì, sono sempre loro: quelli che hanno sponsorizzato la pillola anticoncezionale, la scissione fra sessualità e procreazione, hanno alimentato il mito dell’aborto come frontiera della libera scelta individuale, hanno trascurato la parte preventiva della legge 194 perché interessava solo far abortire. E oggi, stanchi di praticare aborti, se la sbrigano così: la donna venga in ambulatorio, prenda una pilloletta e vada ad abortire da sola a casa.
Irresponsabili? No, semplicemente cinici. E cultori dell’autodeterminazione assoluta che lascia la donna, nel caso dell’aborto, sola davanti alla consumazione del proprio dramma. Così come vorrebbero che fossero soli, gli uomini e le donne del nostro tempo, dinanzi alla scelta di morire mediante l’eutanasia.
Dalla pillola anticoncezionale alla Ru486 sono passati cinquant’anni. Forse davvero un ciclo si è chiuso. Forse faranno fatica a spingersi più in là. Cos’altro potranno inventarsi sul fronte della “salute riproduttiva” e della vita nascente? Sin dove potranno e vorranno spingersi nella loro ricerca della “leggerezza” che sconfina nel cinismo? Il mondo in una pillola? No, grazie.

Domenico Delle Foglie



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Tutti «bipolari» dopo i casi celebri

Confessioni di vip come Mel Gibson e Robbie Williams hanno conferito un alone «glamour» alla malattia
e scatenano una corsa all'auto-diagnosi

GRAN BRETAGNA

Tutti «bipolari» dopo i casi celebri

Confessioni di vip come Mel Gibson e Robbie Williams hanno conferito un alone «glamour» alla malattia
e scatenano una corsa all'auto-diagnosi

Robbie Willams
Robbie Willams
ROMA - Si allunga la lista dei vip che confessano di soffrire di disordine bipolare. Ma le parole di attori come Stephen Fry, Carrie Fisher e Mel Gibson, e cantanti come Robbie Williams - che sicuramente hanno contribuito a far conoscere un problema di salute mentale ancora poco noto al grande pubblico - hanno avuto un inatteso effetto collaterale. Secondo alcuni psichiatri, infatti, queste confessioni hanno regalato un'aura di glamour e creatività alla patologia. Risultato? Almeno in Gran Bretagna i medici di famiglia e gli psichiatri sarebbero bombardati da persone che chiedono di farsi controllare, con in mente già ben chiara la diagnosi: pensano infatti di soffrire di disordine bipolare. A lanciare l'allarme sono due psichiatri del servizio sanitario britannico, Diana Chan e Lester Sireling, che lavorano in un centro di salute mentale territoriale a North London. Ma perchè all'improvviso dei cittadini perfettamente sani dovrebbero voler essere etichettati come «malati», oltretutto con un problema mentale?

ESAGERAZIONI - Secondo l'analisi dei due specialisti, ormai si confondono normali ondeggiamenti dell'umore - legati agli alti e bassi della vita - con questa condizione medica, e molti pensano di essere «un pizzico» bipolari. C'è perfino un gruppo su Facebook che sottolinea come tutti nella vita, a un certo punto, possano sperimentare questa condizione. In realtà - ricordano gli specialisti sul «Daily Mail» - il disordine bipolare è un problema serio, che spinge i pazienti in stati prolungati e violenti di euforia o depressione, alterando le loro vite.

LA MALATTIA «VERA» - Nei momenti positivi, i pazienti si sentono euforici, hanno pensieri grandiosi, sono inclini a spendere incredibili somme di denaro, a parlare «a macchinetta» e a passare intere giornate senza mangiare, o dormire. Possono vedere anche cose inesistenti, e sentire «le voci». Le depressioni che seguono sono estremamente profonde, e lasciano le «vittime» in uno stato di prostrazione che le rende abuliche e apatiche.

I RISCHI DELL'AUTO-DIAGNOSI - Insomma, questa nuova moda delle auto-diagnosi non solo è ben lontana dalla realtà, ma può portare centinaia di persone ad assumere medicinali inutili e per questo pericolosi, scrivono gli psichiatri sulla rivista del Royal College of Psychiatrists. Nello studio, intitolato non a caso « I Want To Be Bipolar, A New Phenomenon», gli specialisti notano che i camici bianchi stanno assistendo a ondate di aspiranti bipolari. Ormai questa condizione sembra aver acquisito una patina glamour, diventando quasi una «garanzia» di creatività. Secondo i dati del Nhs (Sistema sanitario Britannico) solo in Gran Bretagna circa 500 mila persone hanno una diagnosi di disordine bipolare. Ma dopo una serie di studi in materia alcuni ricercatori sospettano che negli anni si sia assistito a una sorta di «falsa epidemia». Il fenomeno delle malattie di moda ha, comunque, una lunga storia. Per restare in GB, ai tempi della regina Vittoria la melanconia era associata a emozioni e tormenti spia di una sensibilità superiore al normale. Oggi il disordine bipolare fa rima con la creatività. Così, testimonia anche il medico di famiglia di Glasgow, Des Spence, «vediamo molte aspiranti vittime della nuova moda. E io stesso - conclude - ho dovuto convincere un certo numero di persone che in realtà non avevano questo problema». (Fonte Agenzia Adnkronos Salute)


30 marzo 2010

Se la medicina vuole essere una scienza esatta. Per un approccio umanistico alla cura della persona. di Giorgio Israel

Gli sviluppi recenti delle scienze biomediche e, in particolare, il crescente peso assunto dalla genetica, stanno determinando un cambiamento profondo dei connotati della professione medica. L'approccio diagnostico tradizionale lascia sempre più il posto alla determinazione dello stato del malato per via analitica, e ora anche per via di test genetici. Ciò ha come conseguenza il fatto che il rapporto intersoggettivo e personale tra medico e paziente assume un ruolo sempre meno importante. In linea di tendenza lo stato del paziente potrà essere diagnosticato a distanza, senza che il medico neanche veda il suo volto e ascolti la sua voce. In parte, questo è già realtà.
Un'altra conseguenza non meno rilevante è un radicale cambiamento della figura del medico. Non soltanto per il paziente egli diventa "il" medico, figura astratta e impersonale e non più "un" particolare medico. Egli diventa qualcosa di diverso anche per sé stesso: sempre di più uno specialista il cui compito è analizzare in termini oggettivi un organismo e predisporre i rimedi standard per la situazione-tipo in cui esso si trova; piuttosto che valutare e curare lo stato particolare di una persona, intendendo con "stato" sia l'essere che il sentirsi malato di quella persona.
Questi mutamenti della figura del paziente e del medico vengono sempre più spesso giustificati come una conseguenza positiva e benefica di un'evoluzione inevitabile, e cioè del fatto che la medicina assume sempre di più i connotati di un'attività scientifica fondata su basi rigorosamente oggettive. Insomma, la riduzione dello spazio concesso agli aspetti soggettivi e interpersonali sarebbe un male minore rispetto al progresso consistente nel fatto che la medicina diventa sempre di più una "scienza" basata su protocolli analitici solidi e oggettivi.
Ma è proprio vero che questi mutamenti presentano aspetti soltanto positivi - evidenti e indiscutibili - e che la trasformazione della medicina in una scienza simile alla fisica o alla chimica costituisce un progresso e non comporta alcuna perdita? Si tratta di una domanda che non ha una portata esclusivamente teorica. I mutamenti profondi nel rapporto tra medico e malato provocano spesso stati di malessere le cui cause e le cui conseguenze debbono essere attentamente valutate. Pertanto, riflettere sullo statuto epistemologico e metodologico della medicina ha implicazioni pratiche rilevanti. In questo breve saggio intendo mostrare - ricorrendo a considerazioni storiche ed epistemologiche - che, nonostante non possano essere seriamente contestati i vantaggi derivanti dall'espansione dell'area degli aspetti biomedici trattabili in termini quanto più oggettivi sia possibile, la trasformazione della medicina in una scienza "esatta" comporta necessariamente la sottovalutazione delle componenti soggettive e di relazione. Questa sottovalutazione costituisce una riduzione e non un progresso. Si tratta di un aspetto regressivo che è tanto più evidente quanto più si assume come riferimento un'immagine meccanicistica della scienza.
Tuttavia, si può obbiettare: è forse un'anomalia che la medicina aspiri a godere dello statuto di scienza al pari delle altre scienze ritenute "esatte"? La risposta è certamente negativa. Quale ramo della conoscenza non ambisce oggi a proclamarsi "scientifico"? Si tratta di una tendenza che ha radici nella rivoluzione scientifica del Seicento. Come ricorda Alain Finkielkraut: "Nello stesso paragrafo in cui afferma solennemente che l'universo è scritto in lingua matematica, Galileo definisce l'Iliade, come l'Orlando furioso, "opere della fantasia umana, in cui la verità di quel che è scritto è la cosa meno importante". A questo punto può nascere la famosa espressione che per gli umanisti non avrebbe avuto senso: "E tutto il resto è letteratura"".
Nel corso di circa tre secoli abbiamo a tal punto assimilato questo punto di vista che tutte le attività intellettuali e pratiche che non appaiono esibire un fondamento di "verità oggettiva" sono considerate di livello inferiore o infimo, dove per "verità oggettiva" deve intendersi ciò che è garantito dal metodo delle "scienze esatte", a loro volta rappresentate dal modello delle scienze fisico-matematiche. Accade così che l'antica affermazione secondo cui la medicina non è una scienza bensì un'"arte" - e sul cui significato torneremo più in là - è divenuta quasi fonte di vergogna. Dichiarare che la medicina è una scienza appare come una condizione essenziale per evitare che su di essa cada il discredito.
In questo saggio mi propongo di mostrare che questa visione è profondamente sbagliata. La medicina non può che essere qualcosa di più di una scienza puramente oggettiva sullo stile della fisica-matematica, proprio se vuol essere una forma di conoscenza e di pratica rigorosa. Occorre prendere atto che la medicina si occupa di qualcosa che è molto di più di un mero oggetto materiale, di un uomo-macchina da riparare: essa si occupa di una persona da curare. Pertanto, essa, proprio se aspira a essere rigorosa, deve tenere in conto sia gli aspetti strettamente oggettivi che quelli soggettivi del paziente. Ne consegue che la mutilazione degli aspetti di relazione intersoggettiva - di cui sottolineavamo all'inizio le implicazioni negative e spesso dolorose - è conseguenza di una mutilazione del valore della medicina il cui rigore scientifico ha come condizione imprescindibile il rigetto di ogni forma di riduzionismo, tanto più se meccanicistico. Difendere il valore umanistico della medicina non è quindi soltanto un'istanza morale, ma significa affermarne il valore conoscitivo e pratico in tutta la sua pienezza.
Non basta fissare lo sguardo e la mente sulle carte. Occorre che lo sguardo del medico si levi verso il paziente, verso la persona in carne e ossa che gli sta di fronte. Ricordare anche questo non è una predica superflua e fastidiosa, perché questo sguardo si solleva sempre di meno e sempre di più il paziente si trova di fronte a un apparato anonimo, il "sistema sanitario" che lo esamina con un tipo di rapporto che assomiglia sempre di più a quello di una macchina con un'altra macchina.


(©L'Osservatore Romano - 18 marzo 2010)

Per una medicina che curi i malati come persone. E non come se fossero macchine

Pubblichiamo uno stralcio del libro “Per una medicina
umanistica. Apologia di una medicina che curi i malati
come persone”, di Giorgio Israel, edito da Lindau e arrivato
da pochi giorni in libreria.

Non si tratta neppure lontanamente di mettere in discussione
i progressi e le conquiste della medicina
occidentale e di sottovalutare i suoi indiscutibili meriti.
(…) I suoi trionfi si ripetono ogni giorno quando consegniamo
al medico il fascicolo degli esami di laboratorio,
le radiografie, le ecografie, le Tac, i test genetici, che disegnano
in modo sempre più approfondito e minuzioso
la geografia fisiopatologica del nostro corpo. Ma quei fogli
non sono una chiave incantata che permette di accedere
in modo immediato alla comprensione dello stato
del paziente che sta di fronte al medico. In primo luogo,
egli deve chinarsi a lungo su quei risultati analitici: è un
obbligo che deriva proprio dalla scelta “scientifica” assunta.
(…) Può sembrare una predica superflua e presuntuosa
ricordarlo, ma non lo è quando si constata che
troppo spesso la valutazione del risultato analitico si riduce
a un mero confronto con un insieme di intervalli di
normalità codificati una volta per tutte in modo troppo
generico e impersonale. In secondo luogo, non basta fissare
lo sguardo e la mente sulle carte. Occorre che lo
sguardo del medico si levi verso il paziente, verso la persona
in carne e ossa che gli sta di fronte. Ricordare anche
questo non è una predica superflua e fastidiosa, perché
questo sguardo si solleva sempre di meno e sempre
di più il paziente si trova di fronte a un apparato anonimo,
il “sistema sanitario” che lo esamina con un tipo di
rapporto che assomiglia sempre di più a quello di una
macchina con un’altra macchina.
(…) Potremmo limitarci a criticare certi eccessi della
medicina scientifica moderna e le sue estreme manifestazioni
contemporanee osservando che, distruggendo di
fatto la figura del medico e riducendolo a una figura di
tecnico operativo che applica un insieme di protocolli
standardizzati, essa distrugge allo stesso tempo una modalità
di intervento che ha un ruolo ineliminabile: il rapporto
interpersonale, il rapporto umano tra paziente e
medico in cui il secondo risponde alle domande e alle
esigenze poste dal primo, in funzione del suo “sentirsi
malato”. Se si riduce la malattia all’“essere malato” del
medico-scienziato o medico-tecnico, annullando la considerazione
del “sentirsi malato” che ci viene proposta
dal paziente, si trascura la sofferenza personale, si disumanizza
la medicina, trasformando l’ospedale in officina
di riparazione totalmente spersonalizzante e, in definitiva,
angosciosa. In fondo, basterebbe dire questo, e lo abbiamo
detto più volte. Ma si può dire molto di più. E cioè
che la spersonalizzazione e la mera quantificazione, l’abolizione
del vissuto del malato, rappresentano un approccio
riduttivo dal punto di vista della razionalità e
concettualmente sbagliato. Nel caso della medicina, concepire
l’oggettivismo scientifico in termini radicali, e
cioè come riduzione di ogni aspetto soggettivo a caratteristiche
oggettive impersonali e generali, è un errore grave
dal punto di vista concettuale. La scientificità della
medicina non può essere la stessa di quella della fisica.
Affrontare il problema della malattia o della salute di
una persona non ha nulla di analogo allo studio del moto
di un elettrone o di un pianeta o delle proprietà di un
campo elettromagnetico. (…) L’unico modo di realizzare
la scientificità della medicina è di tener conto che il suo
oggetto sono dei soggetti, e dei soggetti considerati nella
loro individualità e particolarità, portatori di una storia
personale situata in modo irripetibile nello spazio e nel
tempo. La risposta a questa sfida la medicina la possiede
ed è la clinica, che è proprio la caratteristica operativa
che più la contraddistingue rispetto a ogni altra attività
conoscitiva e pratica. La clinica è indissolubilmente
legata alla considerazione della soggettività, della persona
e delle sue “richieste” – del suo sentirsi malato, e
non soltanto del suo essere malato. (…)
E’ del tutto evidente che il desiderio di ridurre la medicina
a una scienza meramente oggettivista in analogia
con le scienze “esatte” è spesso dettato da due fattori:
dalla pigrizia – è molto più semplice esaminare quanto
più possibile meccanicamente dei risultati analitici che
non farsi carico di un esame complessivo e complesso
della persona che ci sta di fronte – e dalla soggezione
esercitata dalle scienze “esatte”, come se adeguarsi al loro
metodo fosse l’unico modo per conquistarsi un biglietto
d’ingresso al salotto buono della scienza. Insisto
sul verbo “ridurre”, perché ritengo che una siffatta visione
sia riduzionista non soltanto nel senso oggettivo
della parola, ma anche nel senso valutativo: essa comporta
cioè un’amputazione della ricchezza della medicina,
che non può essere vista soltanto come una “scienza”
fra le altre, ma rappresenta qualcosa di molto più complesso.
Si ripropone qui spontaneamente la vecchia caratterizzazione
della medicina come “arte”. Sappiamo
bene quanto questa definizione sia oggi criticata e persino
infastidisca chi l’accusa di essere la manifestazione
di discorsi fumosi che hanno come unico scopo (o effetto)
quello di porre una barriera tra la medicina e la
scienza, quasi che la medicina fosse un’attività estetica
come suonare il pianoforte, dipingere un quadro o danzare.
Questa è una tipica manifestazione della consueta
soggezione nei confronti delle “vere” scienze; ma è anche
un deplorevole oblìo di che cosa significa “arte” in
questo contesto. E’ un oblìo del tutto analogo a quello
che abbiamo visto nel caso dell’idea di “natura”, nel contesto
della concezione dinamico-funzionalista. “Arte” qui
sta per “tecnica”, ovvero per un complesso di capacità
pratiche sostenute dalla conoscenza, ma non identificabili
come mera conoscenza teorica. Come ha giustamente
osservato Grmek, “la medicina non è mai stata e non è
neppure oggi una scienza. I Greci la chiamavano iatrikè
téchne, in contrapposizione a epistéme, considerandola
come una specie di attività artigianale che opera la sintesi
tra scienza, tecnica e arte”. Quindi, la medicina non
è una scienza come la chimica o la fisica, ma è una pratica
che utilizza tutte le scienze, un’arte della vita che fa
uso di scienze di varia estrazione. (…)
Riteniamo quindi di poter concludere osservando che
all’abbandono della clinica non può sopravvivere nessuna
forma di medicina, neppure quella scientifica. E forse
a maggior ragione questa. Che la clinica resti al centro
della medicina è la condizione perché possa sopravvivere
una medicina razionale nel senso pieno del termine,
e quindi anche degna di essere considerata scientifica.
La medicina rischia quindi di (…) mutilarsi se aderisce
all’ideale oggettivistico. Una medicina che abbia
“cura” della persona non può essere meccanicista, ma
deve essere risolutamente umanistica. Essa non può
aderire a una visione della malattia come mero “guasto”
di una macchina umana, o come una perturbazione abnorme
dei parametri caratteristici dello stato di salute.
Come ha osservato Canguilhem, “la vita di un vivente riconosce
le categorie di salute e di malattia soltanto sul
piano dell’esperienza, che è innanzitutto un fatto affettivo,
e non sul piano della scienza. La scienza spiega l’esperienza
ma non l’annulla per questo”.

Giorgio Israel

© Copyright Il Foglio 23 febbraio 2010

Come e perchè guardare il Dott. House

Cliccando su questo link ( house ) si accede ad un filmato dove Carlo Bellieni introduce al senso religioso della serie TV “House MD”, che molti ha colpito per le scene in ospedale psichiatrico. E’ un approccio breve, nuovo e stimolante, che vale la pena di seguire.

Clamoroso! Documento di esperti francesi contro la deriva della diagnosi prenatale.


Le Monde.frDépistage prénatal : Les marchands de risques, par Alexandra Benachi, Roland Gori, Odile En à peine trente ans, l'échographie foetale, une technique d'EXPLORATION PAR ULTRASONS, a révolutionné la prise en charge des femmes enceintes et de leur bébé. 97,4 % des futures mères bénéficient désormais d'au moins trois échographies au cours de leurs neuf mois de grossesse. Cependant, un rapport du Comité national technique de l'échographie de DÉPISTAGE PRÉNATAL (présidé par les professeurs Claude Sureau et Roger Henrion), remis mercredi 1er juin au ministre de la santé, déplore les DISPARITÉS dans la qualité des examens. D'une région à l'autre, le dépistage de certaines anomalies varie sensiblement. Pour y remédier, le Comité préconise un "contrôle qualité" du matériel utilisé et de la formation des praticiens. Enfin, l'étude rapporte les difficultés auxquelles sont confrontés des PROFESSIONNELS "EN CRISE". ...Buisson...



La diagnosi prenatale come "mercato della paura", ecco i dettagli di un importante appello sottoscritto dai maggiori esponenti della medicina francese. "In un'epoca di solitudine si cerca nella scienza la sicurezza che dava un tempo la religione" e "non sono tanto i pazienti a trarne vantaggio, quanto gli azionisti delle ditte mediche e la carriera dei ricercatori". In breve, il bambino è "schedato ", "braccato ", -pardon, "seguito" - dal suo concepimento. Sono parole forti, che ribadiscono quanto diciamo da anni: la diagnosi prenatale genetica non è eticamente neutra.


http://carlobellieni.splinder.com/

Il feto: un paziente pediatrico. MEDICINA:UGAZIO,PIU'RICERCA PER CURE IN UTERO EVITANO ABORTO


Più spazio alla medicina prenatale, chiede il nuovo presidente della Società Italiana di Pediaria: già, curare il feto è possibile in certi casi,ma talora si esita. Il feto è un paziente pediatrico a tutti gli effetti e come tale dovrebbe anche essere considerato. Una proposta in questo senso già esiste presso la SIP: quando il bambino non ancora nato avrà diritto ad un suo medico pediatra?

Cosa si intende per «salute». Etica e spiritualità nella medicina

di Giulia Galeotti

Discutere di salute, ponendo un accento particolare sui farmaci non chimici e su altre possibili vie di guarigione meno usate perché, spesso, male o poco conosciute: è stato l'argomento sviluppato dal convegno "Etica e spiritualità della salute" tenuto la settimana scorsa a Roma, a Palazzo della Cancelleria, sotto l'alto patronato del Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute presieduto dal cardinale Paul Poupard - presidente emerito del Pontificio Consiglio per la Cultura.
Organizzato e moderato dal professor Louis Rey, l'incontro ha visto confrontarsi gli ospiti sui nuovi indirizzi della ricerca scientifica, sulla medicina tradizionale e su quella cosiddetta alternativa. I relatori, provenienti da diverse parti del mondo - Francia, Svizzera, Marocco, India, Belgio, Austria, Israele, Italia e Gran Bretagna - rappresentavano le più diverse confessioni religiose (accanto a studiosi agnostici, vi erano esponenti di area cattolica, anglicana, musulmana e induista) nonché differenti saperi e aree disciplinari (filosofi, medici e biologi). Un complesso e interessante misto di culture, di religioni e di saperi.
L'idea di confrontarsi sull'etica e sulla spiritualità non è nuova: quindici anni fa, ha spiegato Rey, venne organizzato in Marocco un convegno sull'ambiente alla luce di questi due fondamentali parametri. E questo, dedicato alla salute, si è deciso di tenerlo a Roma, in quanto indubbia capitale mondiale della spiritualità.
A partire dal tema generale del convegno gli interventi dei relatori si sono soffermati sull'immaginario della salute, sulla salute come imperativo etico, sul concetto di guarigione, sull'attuale incapacità di fornire un buon modello di cura a livello globale.
Ampio spazio è stato quindi dato all'omeopatia, medicina fondata dal medico tedesco Samuel Christian Hahnemann e basata sul principio similia similibus curentur. Era il 1796, esattamente l'anno in cui Edward Jenner vaccinò per la prima volta un bambino di 8 anni contro il vaiolo, una coincidenza assolutamente rivelatoria, seppure dimenticata.
Infatti, nonostante nella tradizione medica l'omeopatia sia sorta come disciplina sperimentale e non oppositiva, essa è sempre stata separata dalla scienza convenzionale. Un atteggiamento di contrapposizione che, permanendo tutt'oggi - e forse nel tempo l'ostilità si è addirittura accresciuta - il convegno ha tentato di ridimensionare.
Tra l'altro, attualmente un processo osmotico tra le due "medicine" è facilitato dal fatto che nelle ultime decadi l'omeopatia ha iniziato a usare i metodi della scienza medica corrente, e moltissimi studi (a livello molecolare, cellulare e clinico) sono ora disponibili. Seguendo il convegno, abbiamo ad esempio imparato che esiste una grande e profonda ignoranza circa il valore dell'acqua, sia nella pratica omeopatica che nella ricerca in genere. L'acqua, infatti, è la sostanza meno compresa in fisica e in chimica, sebbene essa sia il ponte tra il paziente e il rimedio, stia alla base del lavoro dei medici, essendo il primo requisito per la vita e per tutti i processi che avvengono negli organismi viventi.
Interessante anche la relazione sulla ayurveda (parola composta da ayu, vita e veda, conoscenza, traducibile come "scienza della vita"), la medicina tradizionale utilizzata in India fin dal iv millennio antecedente all'era cristiana, e diffusa ancora oggi nel subcontinente più della medicina occidentale.
L'Organizzazione mondiale della sanità qualificò la salute come "stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia o infermità", una definizione vaga e piuttosto approssimativa, rimasta invariata nonostante essa ignori aspetti importanti, trascurando ad esempio quella che è l'essenza e la finalità del genere umano.
La medicina, infatti, come hanno ribadito gli oratori, deve agire rispettando (tra l'altro) la dignità umana e il primato del benessere del paziente, che molto spesso desidera qualcosa di più e di diverso che semplicemente combattere la malattia che lo affligge.


(©L'Osservatore Romano - 29 ottobre 2009)

Premi nobel - 2

Chi sono i genetisti premiati?

Quei Nobel per la medicina che giocano ad essere Dio

di Gianfranco Amato

Anche per il 2009 il governo svedese ha assegnato il Nobel per la medicina.

Si divideranno il premio di dieci milioni di corone svedesi (circa 980.000 euro) gli scienziati statunitensi d’adozione Elizabeth H. Blackburn, Carol W. Greider e Jack W. Szostak.
Per la prima volta nella storia dell’ambito riconoscimento, due donne hanno avuto l’onore di essere premiate. Non è, però, questa circostanza – seppure di un certo rilievo – a destare l’interesse dell’opinione pubblica non erudita sul Nobel di quest’anno.
In realtà, è proprio l’oggetto della scoperta premiata a stimolare la curiosità della common people, normalmente poco avvezza ai vetrini dei microscopi.
Sì perché il Nobel questa volta è stato conferito ai tre accademici per le loro ricerche sulle funzioni delle strutture che proteggono le estremità dei cromosomi, i cosiddetti telomeri, e sull’enzima che li costituisce, ovvero la telomerasi. Detta così la scoperta non desta molto appeal. La cosa si fa, invece, più interessante quando al profano viene spiegato che i telomeri sono la difesa più significativa contro i danni che i cromosomi possono subire nella fase di divisione cellulare e costituiscono, quindi, la protezione più importante contro la degradazione e l'invecchiamento. Da qui il tripudio collettivo. La Scienza sta finalmente sconfiggendo l’odiosa vecchiaia e forse, chissà, anche la stessa morte.
L’eccitazione è però destinata presto a smorzarsi. Dal coro degli scienziati entusiasti, infatti, si leva qualche voce stonata dettata da maggiore prudenza e realismo. Il professor Roberto Bernabei, geriatra al policlinico Gemelli ed ex Presidente della Società italiana di Gerontologia e Geriatria, ad esempio, si mostra assai cauto: «Sono scoperte indubbiamente interessanti, ma l'applicazione pratica è straordinariamente lontana».
Per ora, coloro che sono affetti dalla sindrome di Dorian Gray ed i fanatici della anti-aging medicine devono rinviare le speranze.
In attesa di verificare quali reali vantaggi la nuova scoperta possa davvero portare nel campo terapeutico, soprattutto per quanto riguarda il campo oncologico, si può riflettere sull’opportunità che la scienza interferisca nei processi biologici, playing God.
Gli studiosi premiati sul punto hanno le idee molto chiare.
Elizabeth Blackburn è un’accanita sostenitrice della ricerca sulle cellule staminali embrionali, convinta che da essa possa ricavarsi una moderna lapis philosophorum capace di donare vita eterna ed immortalità. Un approccio ideologico che ricorda più l’ermetismo alchemico che la prospettiva razionale di una moderna mente scientifica. Nel 2004, del resto, la Blackburn fu allontanata dal Council on Bioethics, il comitato scientifico sulla bioetica degli Stati Uniti. Indispettita per quel provvedimento, la scienziata non esitò a firmare un editoriale di fuoco sul New England Journal of Medicine in cui sosteneva chiaramente di essere stata licenziata dal comitato scientifico solo perché le proprie idee contrastavano con la linea anti-staminali embrionali dell’allora presidente americano George W. Bush.
Il collega scopritore Jack Szostak è, invece, uno sfegatato darwiniano ossessionato dall’idea di riprodurre in laboratorio la cellula primordiale per dimostrare l’assurdità della teoria dell’intelligent design. Le sue ultime ricerche, infatti, sono essenzialmente focalizzate sul tentativo di creare un sistema vivente sintetico in grado di evolversi in senso darwiniano. Il Prof. Szostak non gioca ad essere Dio, pensa semplicemente di esserlo.
Resta da capire che senso abbia tentare di creare una vita biologicamente perfetta, arrestarne l’invecchiamento o addirittura sconfiggere la morte, proiettando l’esistenza umana in una dimensione di immortalità, se poi a questa esistenza non si riesce a dare un significato.
E’ curioso il timore, diffuso a tutti i livelli della società, di diventare vecchi e l’irrefrenabile desiderio di prolungare il più possibile la vita, senza soffermarsi a riflettere se poi esista davvero un motivo per cui valga la pena viverla. Ed è curioso vedere la girandola degli enormi interessi economici, medici, scientifici, politici che ruota attorno al sogno di sconfiggere l’invecchiamento.
Quanto siano ambiziose le speranze in questo settore lo ha evidenziato Leonard Hayflick, geriatra della University of California in una sua celebre metafora: «Quando un’auto esce dal concessionario inizia ad invecchiare, perdendo la sua integrità. La ripariamo, ma a un certo punto diventerà inservibile perché i guasti saranno troppi: proprio come accade all’uomo. Poiché nessuno è stato finora capace di fermare il declino di un oggetto semplice come l’auto, pensare di riuscirci con l’uomo appare tuttora come un’utopia». Forse qualche Premio Nobel, prima o poi, riuscirà nell’impresa, realizzando quell’antica utopia. Ma ne varrà davvero la pena?

© Copyright L'Occidentale, 6 ottobre 2009