DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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Gran Bretagna dà via libera a figli nati da 3 genitori.


QUI: Gran Bretagna dà via libera a figli nati da 3 genitori.

Gran Bretagna, embrioni con tre genitori. Con 382 voti favorevoli e 128 contrari la Camera dei Comuni ha detto sì alla tecnica che permette la creazione di embrioni con tre genitori. L’intento, come al solito, è presentato sotto le migliori intenzioni. Sfruttando il dna di tre genitori genetici, si dice, si permetterà a donne portatrici di malattie mitocondriali gravi di avere bambini senza trasmettere le loro patologie. Portata avanti dai ricercatori dell’università di Newcastle, la tecnica è stata presentata come la soluzione per quelle «donne che vivono nella paura di tramandare ai propri figli una condizione dolorosa», come ha detto obert Meadowcroft, ad della Muscular Dystrophy Campaing.
embrio-jpg-crop_displaySI INSEGUE UNA CHIMERA. Ma non tutti sono convinti, anzi. Contrari al “bebè su misura” si sono dichiarate la Chiesa cattolica e quella anglicana, ma anche associazioni come Human Genetics Alert e numerosi scienziati ed esperti di bioetica. Tempi.it ne aveva parlato a suo tempo con Josephine Quintavalle, la più nota esponente laica del movimento pro-life britannico: «I giornali inglesi – ci aveva detto, quando ancora infuriava il dibattito – ne hanno parlato come di un semplice scambio di mitocondri, mentre si tratta di un progetto fantascientifico eugenetico di cui poco si sa e che si prefigge la creazione di esseri umani con due mamme e un papà, manipolando il corredo genetico degli embrioni». «Il tentativo – aveva osservato Quintavalle – è quello di prendere un ovocita per cambiargli parte del corredo genetico inserendone un altro sano proveniente da una donatrice e poi di fecondare questo ibrido con lo spermatozoo del marito, compagno o donatore che sia. Oppure di prendere un embrione con un corredo genetico che si suppone malato per togliergli il nucleo sano e impiantarlo in un altro embrione. Se sono fattibili queste cose? Non si sa. Quel che è certo è che si manipoleranno tanti esseri umani. L’esito può essere nullo oppure mostruoso».
Si approva una procedura di cui non si conoscono le conseguenze, «perché tanto, poi, esiste l’aborto. Stiamo facendo una strage e seminando sempre più morte». E la felicità dei genitori? «È l’imprevedibile a farci contenti o i nostri progetti asfissianti e ristretti? Ribadisco: manipolando la realtà ci scaviamo la fossa da soli. Quello che sta accadendo è l’esito spaventoso di una chimera».
FINO A SEI GENITORI. Eugenia Roccella, parlamentare di Area Popolare e da sempre attenta osservatrice su tali questioni, ieri ha diramato un comunicato in cui ricorda che già «quindici anni fa l’autorità regolatoria americana, la FDA, bloccò procedure analoghe per l’elevato grado di malformazioni che producevano. Oggi si propongono procedure un po’ diverse per ottenere lo stesso risultato, con la giustificazione di evitare malattie ereditarie trasmesse dai mitocondri. Ma non si tratta di una terapia, bensì di una pesante e invasiva manipolazione genetica. È la stessa comunità scientifica ad avanzare dubbi su una tecnica ancora altamente sperimentale, quando l’obiettivo (l’esclusione di alcune patologie) si può ottenere attraverso strade più sicure. La verità è che si attuano esperimenti sempre più azzardati sulla qualità dell’umano e sulla procreazione, senza applicare il più elementare principio di precauzione. Ormai si possono avere fino a 6 genitori, tra compravendita di ovociti, uteri in affitto, e manipolazioni genetiche varie; in questa confusione le relazioni di maternità e paternità perdono ogni significato».


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Altro che Vaticano, il Regno Unito è l’ultima teocrazia dell’occidente

di William Ward
Tratto da Il Foglio del 14 settembre 2010

Una delle sfide più interessanti tra quelle che attendono Benedetto XVI in Gran Bretagna (il Papa sarà qui da dopodomani per beatificare il cardinale Newman e incontrare la Regina), non sarà quella di parlare a una società tra le più laiche, liberali, multiculturali e relativiste del Vecchio continente, bensì, paradossalmente, quella di avere a che fare con una delle ultime teocrazie esistenti nel mondo cristiano.

Nonostante alcune differenze più vistose infatti (le sacerdotesse, le adozioni delle coppie gay, quel vecchio hippy dell’arcivescovo di Canterbury e la totale ignoranza della cultura cristiana da parte della maggioranza della popolazione), il Regno Unito è da un certo punto di vista più simile al Vaticano che ad altre democrazie occidentali.

Come nelle tre monarchie scandinave (anche loro molto liberal), nel Regno Unito esiste una chiesa ufficiale di stato, di ispirazione luterana; a differenza di Danimarca, Norvegia e Svezia però, il monarca britannico non è solo il capo dello stato temporale, ma anche il “Supreme Governor” della chiesa di stato, quella anglicana, avendo unificato in sé i due ruoli alla stregua degli imperatori romani precristiani, e come fa oggi, almeno tecnicamente, il Papa a Roma. Dai tempi della Riforma, l’incoronazione dei re inglesi prima e poi (dal 1605, con il Re protestante scozzese Giacomo VI) britannici, non è soltanto una fastosa cerimonia dinastica e politica, bensì un evento dal profondo significato religioso, come spetta a un “Priest King” (o Queen), una sorta di “Papa Re” al contrario. Nonostante la lunga e complicata evoluzione, dovuta anche all’emergere di numerose sette protestanti minori fino alla metà dell’Ottocento (“Una nazione composta da tante chiese diverse e di una sola salsa”, ironizzava Voltaire), e la nascita di diverse correnti interne, la chiesa d’Inghilterra è riuscita sempre a mantenere una centralità, senza pari in Europa, nella vita spirituale e in quella amministrativa del Regno.

Come nella Roma antica l’elezione delle cariche sacerdotali competeva al Senato, così oggi la nomina dei vescovi e degli arcivescovi di Canterbury e York fa parte delle competenze dello stato temporale: una rosa di nomi viene sì preparata da un comitato interno alla chiesa, ma è sempre il primo ministro del momento a nominarli per conto del monarca, qualunque sia la sua chiesa di appartenenza. Questo fa sì che spesso la scelta del vescovo sia più politica che religiosa: la metodista Margaret Thatcher, per esempio, detestava l’arci liberal primate Robert Runcie e scelse il social conservative George Carey per Canterbury; il liberal (e all’epoca cripto cattolico) Tony Blair optò invece per l’ex militante antiamericano e teologo dalla mente fine Rowan Williams quale “suo” arcivescovo. Anche per questo importante privilegio, il Regno Unito non ha mai avuto un cattolico a Downing Street: sarebbe un’anomalia di troppo persino per gli inglesi.

Nessun altro monarca al mondo (tranne forse quello saudita) continua poi a farsi qualificare sulle monete del proprio regno con le iniziali “DG” (Deo Gratia) e con la formula “Fid Def” (Fidei Defensor, titolo offerto da Papa Adriano VI a Enrico VIII quando, prima della svolta riformista, attaccò con forza Martin Lutero). La Bbc, storica emittente radiotelevisiva anglosassone, ha ancora nel suo statuto costitutivo l’obbligo contrattuale di trasmettere sulle sue reti momenti di preghiera e meditazione, messe e funzioni religiose, rivolgendosi a “tutta” la nazione, e non solo alla “componente credente”. Va da sé che il sovrano è, almeno ufficialmente, animato da profonde convinzioni religiose, come nel caso della “regina papessa” Elisabetta, e del suo erede (anche se sembra a volte preferire la chiesa ortodossa russa rispetto a quella sotto casa), il principe Carlo.

La profonda natura cesaro-papista della monarchia britannica è però anche garanzia di ottimi rapporti tra le chiese cristiane e i leader ufficiali e riconosciuti delle altre religioni presenti nel regno. Questo succede proprio in quanto l’istituzione monarchica è garante e difensore attivo dell’idea di fede in quanto tale. Un fenomeno, quest’ultimo, che forse Benedetto XVI guarderà con particolare interesse e simpatia: come un Pontifex Maximus cristiano possa essere garante sostanziale anche delle persone che professano altre religioni.

La retromarcia della Bbc sui preti pedofili "Non è un problema della sola chiesa cattolica"

Clamorosa marcia indietro della Bbc sul tema dei preti pedofili. “Sex Crimes and Vatican” si intitolava il documentario di 38 minuti e 57 secondi con il quale nell’ottobre del 2006 la tv pubblica britannica si unì alla campagna internazionale sul coinvolgimento della Chiesa cattolica negli abusi ai minori (Guarda qui, qui, qui e qui). Fu una polemica che rimbalzò anche in Italia, quando nel maggio del 2007 il filmato fu trasmesso da Anno Zero di Michele Santoro. Ma in data 4 maggio 2010 a tornare sul tema è stato un articolo del sito on line della stessa Bbc: “Looking behind the Catholic sex abuse scandal”, a firma Aidan Lewis. Un testo prudente, ma che riferisce come secondo ricerche ed esperti “gli uomini facenti parte della Chiesa cattolica non sono più propensi agli abusi di altri”, e “la gran parte di abusi commessi da preti si è ridotta drasticamente negli ultimi 20-30 anni”.

Secondo questo articolo, il punto di riferimento essenziale è lo studio del John Jay College of Criminal Justice, commissionato dalla Conferenza Episcopale Usa e pubblicato nel 2004: due anni dopo l’esplodere dello scandalo, che mostrerebbe come “c’è una grossa differenza tra la realtà e il dibattito”. Le cifre indicavano infatti che il 4 per cento dei sacerdoti statunitensi erano stati accusati di aver abusato di minori negli anni compresi tra il 1950 e il 2002, e il 75 per cento dei casi si riferivano al periodo 1960-1984. Altri studi sono stati fatti sulla Germania, dove 150 sacerdoti sono stati accusati di abusi dopo il 1990. In Irlanda è invece il rapporto Ryan del 2009 a riportare un migliaio di testimonianze. A livello mondiale, tra 2001 e 2010 il Vaticano ha esaminato accuse di abusi riferite a circa 3000 sacerdoti per un arco di cinquant’anni. Una proporzione da riferire agli oltre 400.000 sacerdoti presenti in tutto il mondo.

Nel 2004 non c’erano altri analoghi studi su altri segmenti di popolazione degli Stati Uniti, e solo ora ne sta venendo realizzato uno sui Boy Scout. Ma gli autori della ricerca convenivano di inserire il problema nel più ampio contesto degli abusi sui minori, che è un problema rlevante anche fuori della chiesa cattolica. L’articolo osserva che tra gli stessi cattolici è sorta la domanda “se non ci siano aspetti della vita sacerdotale cattolica a incoraggire gli abusi”. “Il celibato può in effetti essere un problema ma la gran parte degli abusi sessuali non sono commessi da celibi”, è l’obiezione di Margaret Smith: una degli autori del rapporto. “Se il 4 per cento dei sacerdoti sono coinvoli in abusi ai danni di minori, significa che per l’altro 96 per cento il celibato non ha rappresentato una spinta a fare questo tipo di abusi”. Peraltro, la Smith rifiuta anche l’ipotesi del Cardinale Bertone, sul collegamento tra pedofilia e omosessualità. “La maggior parte degli abusi a minori sono commessi da maschi eterosessuali e sposati”.

di Maurizio Stefanini

In Gran Bretagna invitano il Papa per fargli benedire una coppia di omosessuali




lunedì 3 maggio 2010


La diplomazia britannica ha sempre preteso di insegnare al mondo le virtù della prudenza, del rispetto e della mediazione. La rigida etichetta, gli accurati cerimoniali, i ferrei protocolli dell’ars diplomatica d’oltremanica hanno sempre rappresentato un faro per l’umanità civilizzata.

Non è un caso che proprio nel Regno Unito, infatti, sia stata scritta la Satow’s Diplomatic Practice, la bibbia della diplomazia, un testo che continua a guidare, dopo quasi cento anni, le feluche internazionali. La British diplomacy era una di quelle cose per cui i sudditi di Sua Maestà andavano fieri. Come l’invenzione del parlamento, la Magna Carta o l’arte di servire il tè.

È per questa ragione che appare ancora più triste l’inaudita gaffe in cui è inciampato il Foreign Office rispetto alla prossima visita papale nel Regno Unito. Quattro giovani funzionari di quella che un tempo era un’istituzione seria - il ministero degli Esteri britannico - hanno redatto una nota dal titolo The ideal visit would see, in cui sono state indicate le attività che il Sommo Pontefice avrebbe dovuto svolgere durante la visita.

Tra queste veniva espressamente suggerita la proposta che Benedetto XVI «benedicesse una coppia omosessuale legata da una civil partnership (unione registrata molto simile al matrimonio)», «inaugurasse una clinica abortiva», «lanciasse una nuova marca di preservativi dal nome “Benedict”», «facesse capriole con bambini per promuovere una vita sana», «soggiornasse una notte in una casa popolare a Bradford», e altre insolenze del genere. Non ultimo, che chiedesse pure «scusa per la tentata invasione della Invincibile Armata» e che «si esibisse in un duetto con la Regina per beneficenza».

Queste idee sono emerse a seguito di un brainstorming tra i quattro funzionari ministeriali durato ore, anche se la spremuta dei cervelli non ha proprio dimostrato un’abbondanza di materia grigia, visto che l’imbarazzatissimo Foreign Office è stato costretto a definire la nota un «foolish document», un documento idiota.

Il fatto grave è che, nonostante le vive proteste della Santa Sede (arrivate al punto di minacciare l’annullamento della visita papale), nei confronti di quei quattro funzionari non è stato emesso nessun provvedimento disciplinare, mentre il dirigente responsabile, che ha autorizzato la diffusione della nota, è stato semplicemente destinato ad altro incarico, avendo evidentemente dimostrato poca attitudine e idoneità nel delicato compito di accudire gli imbecilli.

La blanda reazione del Foreign Office nei confronti di quegli improvvidi dipendenti rende evidente quanto siano tenuti in considerazione nelle sfere della haute bureaucratie britannica gli insegnamenti della Chiesa cattolica, e dimostra, anzi, la presenza di un vero e proprio preconcetto contro ogni forma di fede religiosa.

Il danno peggiore in termini di immagine, però, è di aver trasmesso l’idea che il Papa, a cinque mesi dalla visita ufficiale, possa essere considerato come un “buffo signore”, che chiunque è legittimato a prendere tranquillamente in giro.

La vicenda della nota demenziale, lungi dal poter essere archiviata come una goliardata finita male, induce a qualche riflessione. È chiaro, innanzitutto, come l’orgia del politically correct, che raggiunge il suo apice nel feroce pregiudizio anticristiano, abbia ormai pervaso anche la nuova generazione dell’élite e della classe dirigente britannica.

Melanie Phillips, intelligente giornalista vincitrice del premio Orwell, a proposito della nota del Foreign Office ha parlato di un vero e proprio «collasso culturale, educativo, morale che caratterizza la pubblica amministrazione sempre più popolata da giovani funzionari “callow, shallow and politically correct to a fault”», incredibilmente immaturi, superficiali e politicamente correttissimi. «Tali individui - secondo la Phillips - hanno una visione del mondo per cui le minoranze devono essere sempre assiomaticamente rispettate, mentre i cristiani si possono tranquillamente trattare con sprezzante sufficienza».

È facile, del resto, avere la controprova. Qualcuno riesce a immaginare che cosa sarebbe successo se il contenuto offensivo della nota del Foreign Office avesse riguardato credenti musulmani, indù, ebrei o di altre minoranze del Terzo Mondo? Non ci vuole molta immaginazione.

Sempre Melanie Phillips ha evidenziato quanto appaia «impressionante vedere come coloro che si vantano di essere le menti più liberali, colte e illuminate del Paese, siano in realtà del tutto gretti e affetti da una forma perniciosa di illiberalità, oltre che da una totale assenza di rispetto per le opinioni altrui, soprattutto per quelle che fanno riferimento alle principali fedi religiose della tradizione europea».

Lo scivolone della nota del Foreign Office ha fatto pure crollare un altro mito britannico, quello delle “good manners”, della buona creanza e delle regole di una perfetta educazione, che dai tempi della regina Vittoria gli inglesi hanno preteso di insegnare al mondo.

Da Roma hanno fatto giustamente notare che non è stata Sua Santità a voler visitare il Regno Unito ma il contrario: Benedetto XVI è stato, infatti, caldamente invitato dal governo britannico a mettere piede in quel Paese. E normalmente la buona educazione impone un certo riguardo per gli ospiti che si invitano.

Voglio concludere citando le parole che Sir Ivor Roberts, ex ambasciatore britannico in Italia e curatore dell’ultima edizione del Satow’s Diplomatic Practice, ha pronunciato a proposito di questa squallida vicenda: «Buon Dio, quello che è accaduto è molto triste e frutto di un inconcepibile comportamento puerile. È davvero deprimente e imbarazzante pensare che la diplomazia sia scesa a livelli così infimi. Spero almeno che i responsabili riescano ancora a percepire il senso di profonda vergogna per quello che hanno combinato».

Purtroppo Sir Ivor appartiene a una generazione che si sta estinguendo e che è destinata a lasciare il passo ai rampanti giovani liberal del terzo millennio. Per essi la vergogna è un sentimento sconosciuto. Appartiene al secolo scorso e, soprattutto, non è politically correct.



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“Non Angli sed Angeli”. Una mostra a Roma narra di quando l’Inghilterra era terra di missione

Le istituzioni ecclesiastiche a Roma
non sono precisamente una rarità.
Una di queste è il Venerabile Collegio Inglese
in via di Monserrato, a pochi passi
da piazza Farnese, che accoglie seminaristi
e preti d’Inghilterra e Galles che si trovano
nell’Urbe per motivi di studio. Una
mostra realizzata nei sotterranei dell’edificio
che lo ospita consente adesso di scoprire
che questo non è un collegio come
altri, ma è la più antica istituzione inglese
al di fuori della madrepatria e ha una
storia che merita di essere conosciuta (fino
al 31 luglio, informazioni su www.angelisunt.
it). Il titolo della mostra (“Non Angli
sed Angeli”) allude a un episodio legato
alle origini dell’evangelizzazione dell’Inghilterra.
San Gregorio Magno, vedendo
a Roma degli schiavi provenienti dall’isola,
con i loro capelli biondi, avrebbe
appunto affermato che non di “angli” si
trattava ma di “angeli” e avrebbe deciso
di inviare dei religiosi nel loro paese. Certo
è che la missione di sant’Agostino di
Canterbury alla fine del VI secolo ebbe
un’importanza decisiva per la diffusione
del cristianesimo in Inghilterra e Galles.
La mostra si sofferma innanzitutto sull’itinerario
che portò per secoli i pellegrini
inglesi a percorrere la Via Francigena,
attraversando mezza Europa per arrivare
a pregare sulle tombe degli Apostoli. La
casa di via di Monserrato divenne già nel
1362 un ostello per i pellegrini inglesi a
Roma. Si suppone che ci sia stato anche
William Shakespeare, che sarebbe indicato
con uno pseudonimo nei registri dell’ostello.
La cautela si spiegherebbe con il
fatto che nel frattempo era accaduto qualcosa
di decisivo. Nel 1536 Enrico VIII si
era dichiarato capo della chiesa d’Inghilterra.
Durante il regno di Elisabetta I la
chiesa nazionale si rafforzò e l’ostilità nei
confronti dei cattolici divenne assai acuta,
specialmente dopo che nel 1570 Pio V scomunicò
la regina e sciolse i sudditi dal vincolo
di obbedienza nei suoi confronti.
In questo clima l’antico ostello divenne,
nel 1579, un seminario. Qui, come in altri
centri in Francia e in Spagna, venivano
formati i giovani inglesi che avrebbero poi
dovuto esercitare clandestinamente il ministero
sacerdotale in Inghilterra. Per riuscire
a farlo dovevano innanzi tutto sfuggire
agli agenti governativi che cercavano di
intercettare i preti nel momento stesso in
cui approdavano in patria sotto mentite
spoglie, presentandosi come viaggiatori o
mercanti. Il compito della polizia era favorito
da spie infiltrate all’interno del Collegio
stesso. Una volta entrati in Inghilterra,
i preti dovevano evitare la cattura nascondendosi
nelle case dei cattolici rimasti fedeli
a Roma. Chi veniva scoperto andava
incontro alla prigione, alla tortura e alla
morte. Tra il 1581 e il 1679 quarantaquattro
ex allievi del Collegio inglese di Roma
morirono come martiri in Inghilterra.
La mostra invita a ripercorrere un duplice
itinerario, quello dei pellegrini dall’Inghilterra
a Roma nel Medioevo e quello
dei preti che partivano da Roma per
una rischiosa missione nell’Inghilterra dei
secoli XVI e XVII. Lo fa in modo efficace,
con oggetti, immagini, video e pure con la
ricostruzione di uno dei minuscoli nascondigli
in cui i preti si rifugiavano per non
essere trovati dagli agenti che perquisivano
regolarmente le case dei cattolici. Gli
spazi in cui la mostra è allestita sono già in
se stessi non privi di interesse. Sotto la
cripta della chiesa del collegio, tra l’altro,
è stato portato alla luce un tratto dell’antica
strada romana: è un’immagine suggestiva
di una città in cui la storia del cristianesimo
rimanda continuamente a una storia
precedente. Ma soprattutto la mostra è
un’occasione per riflettere sulla storia della
chiesa e sulla storia dell’Europa. Quando
si dice che l’Europa ha radici cristiane
bisogna pensare innanzi tutto a come la fede,
per secoli, ha fatto muovere e incontrare,
anche fisicamente, uomini di origini e
provenienze diverse. Anche per questo la
divisione religiosa del XVI secolo appare
come un evento di immensa portata per la
storia europea.
La parte della mostra dedicata a queste
vicende fa venire in mente il libro di Robert
Hugh Benson “Con quale autorità”.
Benson, figlio del primate anglicano, dopo
la conversione al cattolicesimo, scrisse diversi
romanzi, tra cui questo che narra la
storia di alcuni personaggi coinvolti nelle
controversie religiose dell’età elisabettiana.
Leggendolo viene da fare un paragone
con i racconti di coloro che hanno sperimentato
i regimi totalitari del XX secolo e
verrebbe da sospettare che l’autore abbia
proiettato nel passato caratteristiche note
da un’epoca successiva: se non fosse che il
suo libro lo ha pubblicato nel 1904. La
questione posta è infatti quella di un potere
statale che non può tollerare un’autorità
diversa dalla propria. La testimonianza
dei martiri inglesi ha meritato al loro
collegio l’onore di essere chiamato “venerabile”.
La loro storia è parte di vicende
drammatiche per la cultura europea.

Luca F. Tuninetti

© Copyright Il Foglio 29 aprile 2010

Troppo Humour, siamo inglesi... Un giovane funzionario del Ministero degli Esteri britannico ha provocato un incidente diplomatico con la Santa Sede

MARCO TOSATTI
Un giovane funzionario del Foreign Office, che a quanto pare è stato severamente bacchettato e rimosso dal suo incarico, ha provocato un incidente fra Londra e la Santa Sede. E non ha certo aiutato a migliorare il clima di antipapismo che alcun settori stanno cercando di alimentare in Gran Bretagna, in attesa della visita del papa, prevista dal 16 al 19 settembre. Al centro della polemica un documento interno del Foreign Office, inserito nel dossier sui preparativi per l'evento e intitolato «Ecco che cosa dovrebbe succedere in una visita ideale...». Alcuni stralci del dossier compreso il "memo" incriminato sono finiti al Sunday Telegraph, che nella sua edizione del 25 aprile ne pubblica lunghi brani. Il memo indugia su proposte volutamente assurde: suggerisce di inserire nel programma «un duetto tra il papa e la regina Elisabetta», e avanza provocazioni irreali: il Papa dovrebbe benedire un matrimonio gay, inaugurare un reparto per gli aborti in un ospedale e lanciare un nuovo tipo di preservativo chiamato «Benedict».
Il Sunday Telegraph ha informato preventivamente il Foreign Office e ha chiesto spiegazioni, oltre che reazioni. La risposta è stata immediata: l'ambasciatore britannico presso la Santa Sede, Francis Campbell, si è recato a incontrare «un alto funzionario vaticano» per offrire le scuse del governo di Sua Maestà per quella che ha definito «un'esplosione di follia». «È chiaramente un documento stupido, che non riflette le opinioni né del governo britannico né del Foreign Office», ha detto un portavoce del ministero al domenicale britannico. «Diamo grande valore agli stretti e produttivi rapporti tra il governo del Regno Unito e la Santa Sede e ci aspettiamo di approfondirli ulteriormente con la visita di Papa Benedetto nel corso di quest'anno», ha detto ancora il portavoce.

DUE MADRI E ZERO PADRI: I ``PROGETTI PARENTALI``. Vi gira la testa? Forse siete antiquati e certamente non inglesi...


La piccola Lily-May Betty Woods, nata lo scorso 31 marzo in Gran Bretagna, è il primo neonato inglese ad avere sul certificato di nascita non una madre e un padre ma una madre e un’altra madre. La donna che l’ha partorita, dopo averla concepita con fecondazione in vitro da donatore anonimo, vive infatti con un’altra donna, che ha chiesto e ottenuto di poter usufruire dell’opportunità, ora garantita dalla legge britannica, di essere legalmente “padre” della piccola. Va bene, la testa gira un po’: una donna compare come padre, il vero padre è un donatore di seme sconosciuto, la vera madre vale, sul certificato e dal punto di vista legale, tanto quanto la madre-padre virtuale, e questa equivalenza varrà anche in caso di eventuale conflitto tra le due. Ma se vi succede – che vi giri la testa – forse è perché siete molto antiquati e certamente non siete inglesi. Tutto si può fare, nel meraviglioso mondo delle finzioni politicamente corrette. Si può decidere, per esempio, che non si fanno più figli ma che si mettono a punto “progetti parentali”, in nome dei quali si può sostenere l’insostenibile, e cioè che un bambino può avere due madri e nessun padre. Nemmeno lontano, nemmeno fuggito, nemmeno assente. No, proprio nessuno. Anzi, mi correggo. La piccola Lily-May Betty potrà conoscere, al compimento dei diciotto anni, l’identità del “donatore”, grazie al quale è venuta al mondo. Una prospettiva davvero invidiabile.

Nicoletta Tiliacos



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Il moralismo degli atei

Autore: Amato, Gianfranco Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it
mercoledì 14 aprile 2010

Gli atei moralisti sono l’ultima novità negli attacchi al Papa sulla pedofilia
La notizia dell’ultima ora sullo scandalo della pedofilia nella Chiesa è che Richard Dawkins e Christopher Hitchens, due famosi atei militanti inglesi, intendono chiedere l’incriminazione, e se il caso anche l’arresto, di Papa Benedetto XVI per crimini contro l’umanità. L’occasione ghiotta sarebbe la prossima visita del Santo Padre in Gran Bretagna, prevista per settembre.
Ci sarebbe da sorridere se quella strampalata iniziativa non apparisse oltraggiosa e al limite del vilipendio.
Il fatto è che Dawkins e Hitchens non hanno trovato di meglio da fare se non ingaggiare due principi del foro del calibro di Geoffrey Robertson e Mark Stephens, i quali stanno seriamente valutando di denuciare il Pontefice sul presupposto che il Vaticano non possa essere considerato uno Stato sovrano secondo le leggi internazionali, non essendo, tra l’altro, riconosciuto come tale dall’ONU. Ciò priverebbe il Papa dell’immunità che normalmente protegge i Capi di Stato e lo assoggetterebbe alla giustizia come un comune cittadino.
Ora, a prescindere dalla fondatezza di un’accusa di crimini contro l’umanità a carico del Papa, e dalle stravaganti teorie giuridiche che intendono negare alla Santa Sede la natura di Stato sovrano, due considerazioni mi vengono in mente.
La prima è che Dawkins e Hitchens sono gli stessi che a gennaio del 2009 hanno avuto la bella pensata di sponsorizzare (spendendo 11.000 sterline) la pubblicità sugli autobus londinesi contenente questo slogan: «Probabilmente Dio non esiste, quindi smettete di preoccuparvi e godetevi la vita».
Secondo quel messaggio, l’uomo non è altro che puro materiale biologico ed i propri comportamenti derivano da meri processi chimici cerebrali. Niente anima, niente coscienza. Per questo sono privi di senso concetti come bene e male, e non hanno alcun significato i limiti, i vincoli, le regole di una visione morale o etica dell’esistenza imposta al di fuori dell’io. Solo l’individuo, nella sua unica dimensione terrena, è padrone del proprio destino e non deve rispondere a nessuno. Meno che mai ad una Chiesa. Niente aldilà, niente premi o punizioni dopo la morte. Pertanto, l’unica conseguenza logica è fare ciò che pare e piace, e soprattutto divertirsi.
Il commento più bello contro gli “ateobus” l’avevo letto in un articolo dell’agnostico Nicholas Farrell pubblicato su Libero l’11 gennaio 2009. Con il suo inconfondibile stile Farrell scriveva: «Personalmente trovo quello slogan non solo deprimente ma terrificante. Non sono né credente né ateo ma agnostico, ma non mi fa divertire per niente l’idea che Dio non esista. Anzi. Oh, oh, oh! Brindiamo! Dio non c’è. Ci siamo solo noi e il nulla! Che bella cosa! Che altro vogliamo dalla vita? Vi chiedo: se Dio non c’è, c’è solo l’abisso, no? Quindi non c’è paradiso né Inferno, figuriamoci Limbo. Solo il nulla. Sei nato, fai il cretino, muori. Poi basta. Vieni dal nulla e finisci nel nulla».
Sulla base di questa prospettiva non si comprende come un ateo, ad esempio, possa moralmente condannare la pedofilia. Lo ricordava Mitja nei Fratelli Karamazov del grande Dostoevskij: «Se Dio non esiste tutto è davvero permesso».
La seconda considerazione che mi è venuta in mente ascoltando la notizia su Dawkins e Hitchens è che dal prossimo 16 settembre il Santo Padre visiterà la Gran Bretagna anche per compiere un atto di significativa importanza: la beatificazione di John Herny Newman. Un genio del cristianesimo.
Bene, rispetto a questa nuova bizzarria degli “atei moralisti”, ho scoperto cosa ne pensasse Newman. In realtà, proprio a proposito dell’uso incoerente della ragione da parte degli atei, il Cardinale inglese futuro Beato sosteneva che essi riescono anche ragionare perfettamente bene senza saper fornire la base logica del proprio pensiero.
A più di cento anni di distanza, queste parole di John Henry Newman calzano ancora a meraviglia sui suoi connazionali atei del XXI secolo.

Per cancellare il nome di battesimo gli inglesi ricorrono agli egizi

di Gianfranco Amato
Tratto da Il Sussidiario.net il 9 aprile 2010

«Christian name and surname». È questa la frase di rito che vi rivolgono i poliziotti britannici quando chiedono le generalità per identificarvi. Letteralmente, la frase significa “nome e cognome”.

L’espressione “Christian name” equivale in inglese, grosso modo, al nostro “nome di battesimo”, ovvero l’appellativo che designa individualmente una persona all’interno di un nucleo familiare.

L’aggettivo “Christian” non è che un lontano ricordo del sacramento battesimale cristiano. È rimasto nell’uso corrente della lingua e da sempre è entrato a far parte del linguaggio burocratico, senza che ciò implichi un preciso riferimento religioso. Eppure, anche questa espressione è caduta sotto la spietata mannaia del politically correct.

I primi a muoversi sono stati i solerti dirigenti del corpo di polizia del Kent, i quali hanno stabilito che, d’ora in poi, i propri agenti, non potranno procedere all’individuazione di qualcuno chiedendogli il “Christian name”. Motivo? Evitare il rischio di offendere persone di altre fedi religiose.

In una corposa guida di 62 pagine, intitolata Faith and Culture Resource’ Guide, la direzione della polizia del Kent, tra le varie direttive, ha impartito anche quella relativa alla richiesta di generalità, prevedendo, appunto, il divieto di utilizzare l’espressione “Christian name” e la sua sostituzione con il più neutro “personal name”.

Un agente che da più di quindici anni lavora in quel corpo di polizia ha definito l’iniziativa «semplicemente ridicola». L’agente - che ha preferito, ovviamente, ricorrere all’anonimato - ha precisato che «l’espressione “Christian name and surname” fa da sempre parte dell’uso corrente della lingua inglese e non solo del gergo burocratico». «Quella espressione» ha aggiunto lo stesso agente «è un elemento del nostro bagaglio professionale ed è patrimonio del linguaggio comune, al punto che se oggi un poliziotto chiedesse a qualcuno il proprio “personal name and family name”, al posto del classico “Christian name and surname”, rischierebbe di ingenerare nei cittadini perplessità e confusione».

Contro l’innovazione semantica disposta dalla polizia del Kent è scesa in campo persino la Plain English Campaign, l’organizzazione che da più di vent’anni si batte per la tutela della lingua inglese e per l’utilizzo, anche nella comunicazione burocratica, di espressioni semplici, chiare ed efficaci, che siano più vicine possibili al linguaggio corrente utilizzato dai normali cittadini.

Marie Clair, esponente di Plain English Campaign, si è detta stupita del divieto di utilizzo del “Christian name”, chiedendosi chi potesse mai ritenersi offeso da quell’espressione. «Io non comprendo davvero» ha precisato la Clair «come funzionari di un ufficio pubblico distrettuale, abbiano potuto assumere l’iniziativa di redigere queste linee guida, senza che si fosse mai registrata alcuna protesta o reclamo da parte di chicchessia circa l’asserito tenore offensivo, in quel contesto, del termine “cristiano”». «Davvero qui la political correctness», ha aggiunto l’esponente di Plain English Campaign, «ha superato i limiti del buon senso e anche dell’assurdo. «Perché mai», si è chiesta Marie Clair, «non dovremmo utilizzare quel “familiar language” che tutte le persone sono in grado di comprendere?».

Il fatto è che anche quest’ultimo episodio - certamente non drammatico ma significativo - si inserisce in quella sistematica operazione culturale con la quale oggi, in Gran Bretagna, si vuole infliggere al cristianesimo una sorta di damnatio memoriae. Anche quando - come nel caso del “Christian name” - il riferimento alla religione non ha più alcun connotato concreto.

Con la meticolosa precisione degli antichi scalpellini egizi, gli scribi del polically correct stanno rimuovendo ogni traccia del cristianesimo dalla società britannica, esattamente come nell’antico Egitto si cancellavano le immagini, i nomi, i cartigli e i geroglifici di personaggi e religioni che si intendevano ripudiare. E si è pure ingaggiata una corsa allo zelo in questa battaglia culturale, in cui le potenziali proteste dei credenti in altre fedi vengono addirittura anticipate. In questa crociata contro i cristiani, infatti, la gara dei burocrati è tra chi di loro si dimostri più musulmano dei musulmani, più sikh dei sikh, più ebreo degli ebrei.

L’errore che si sta commettendo nel Regno Unito - e non solo lì purtroppo - è quello di non comprendere che una società che recide il nesso con la propria storia, la propria cultura, la propria tradizione, è come un albero a cui vengono tagliate le radici.

Una società si riduce a un’entità senza carne né sangue se non si riconosce nell’alveo di una tradizione. Nulla, infatti, come ricordava il cardinale Angelo Scola, è più astratto dell’immagine di un individuo che edifichi, ogni volta da capo, la propria interpretazione culturale, nata con lui e con lui destinata a morire.

In questo senso meritano di essere ricordate le parole di Don Luigi Giussani: «La tradizione è come l’ipotesi di lavoro con cui la natura ci mette nel grande cantiere della vita e della storia». «Solo usando questa ipotesi di lavoro», continuava il fondatore di CL, «noi possiamo incominciare, non ad annaspare, ma ad intervenire con delle ragioni, con dei progetti, con delle immagini critiche sull’ambiente, e perciò su quel fattore estremamente interessante dell’ambiente che siamo noi stessi».

Gli inglesi dovrebbero imparare questa lezione e comprendere che se cancellano la loro tradizione, cancellano se stessi.

Londra, i giudici bocciano ricorso: infermiera non porterà il crocifisso

di Elisabetta Del Soldato
Tratto da Avvenire dell'8 aprile 2010

Londra. Sconfitta. L’infermiera cristiana che è ricorsa al tribunale per ottenere il diritto di portare al collo una catenina con il crocifisso sul posto di lavoro e sancire il suo stato di vittima di discriminazione religiosa, ha perso la causa contro i suoi datori di lavoro.

Secondo il regolamento dell’ospedale dove Shirley Chaplin è impiegata, il Royal Devon and Exeter Hospitals Nhs Trust, è proibito allo staff a contatto con i pazienti indossare catenine per ragioni di sicurezza. Dopo il verdetto del giudice, la Chaplin ha dichiarato ai giornalisti che questo è «un giorno molto triste per gli impiegati cristiani». L’infermiera, 54 anni, che intende ora fare appello alla decisione del tribunale, ha proseguito: «La legge non sembra essere dalla parte dei cristiani». Ma per l’ospedale del Devon, dove la Chaplin lavora da oltre dieci anni, l’infermiera non avrebbe alcun motivo di sostenere di essere stata discriminata. «Abbiamo offerto alla Chaplin la possibilità di indossare la croce come spilla all’interno di una tasca, ma si è rifiutata. Non abbiamo niente contro il crocifisso, è solo una questione di prevenzione». La Chaplin, che oggi torna in servizio dopo la sospensione, ha già avvertito che non è disposta ad accettare compromessi. «Torno al lavoro – ha detto uscita dal tribunale – e nessuno mi impedirà di continuare a portare la croce al collo». Ma nel frattempo è stata relegata a lavoro d’ufficio per impedirle di stare a contatto diretto con i pazienti.

In Inghilterra la libera scelta del proprio sesso è la nuova legge: opporvisi è reato. Domanda: cosa insegneranno nelle scuole?


La loi d'égalité britannique a été adoptée

Lu sur le blog de Jeanne Smits :

"Parmi les caractéristiques protégées : le handicap, la race, l'âge, la maternité (protégée pendant exactement 26 semaines après l'accouchement), le sexe, le genre, l'orientation sexuelle, la personne en cours de changement de sexe, la croyance religieuse ou philosophique ou son absence.

La nouvelle loi instaure par exemple le droit et dans certains cas l'obligation d'une discrimination positive en faveur des personnes porteuses de ces caractéristiques protégées. Aux dernières nouvelles, elle fait disparaître l'obligation pour un mari d'assurer la subsistance matérielle de son épouse parce qu'il n'y a pas d'obligation symétrique pour la femme. Elle permet aux homosexuels de célébrer leur union civiles dans le cadre religieux (mais, miracle, elle ne fait pas obligation aux Eglises d'accéder à leur demande). Elle oblige à la transparence salariale, chacun devant savoir ce que gagne son collègue comparable, passé ou présent, le « comparateur », à un poste similaire. Elle oblige les plus gros employeurs publics à publier des statistiques ethniques. [...] Elle oblige les clubs privés à respecter tous les principes de non-discrimination, y compris vis-à-vis de l'orientation sexuelle. Elle permet aux partis politiques de présenter des femmes en priorité pour augmenter leur nombre dans les instances élues. Elle prévoit de réserver des places au Parlement aux représentants des minorités ethniques. [...]

Il a fallu l'intervention de Benoît XVI pour empêcher que des dispositions de la loi interdisent aux instances religieuses de refuser d'employer des homosexuels ou des personnes ne respectant pas leurs exigences morales. La loi a été amendée sur ce point mais peut-être pas de manière définitive car la Commission européenne a des exigences contraires. De toute manière il faut bien comprendre que cette loi véritablement nihiliste dans sa négation des différences, distinctions, préférences humaines légitimes."

Dall’aborto all’islam, cristiani uniti contro i liberal inglesi


Londra. Con mirabile tempismo, nel giorno di
Pasqua è stata lanciata a Londra una coalizione
religiosa e culturale che intende farsi sentire durante
la breve ma intensa campagna elettorale
britannica che si è aperta ufficialmente ieri. I
trenta firmatari principali della cosiddetta “Westminster
Declaration” sono tutti cristiani, “cultural
conservative” che detestano la strisciante scristianizzazione
dello stato e della vita pubblica
britannica voluta dall’influente lobby laico-liberal,
e che temono la crescente capacità dei sostenitori
dell’islam radicale di influenzare, e sabotare,
i tradizionali costumi e diritti cristiani del Regno
Unito. I tre nomi che spiccano sono quelli
dell’establishment cristiano britannico: Lord Carey,
ex arcivescovo di Canterbury (dal 1991 al
2002) oggi membro attivissimo della Camera alta
a favore di molte tesi patriottiche e conservatrici;
il vescovo emerito di Rochester, Michael Nazir-
Ali, che per l’ala evangelica tradizionalista della
chiesa anglicana è stato il candidato ideale per il
trono di Sant’Agostino a Canterbury e che ora si
batte contro laicismo e islamismo; il cardinale
Keith O’Brien, capo battagliero della chiesa cattolica
in Scozia, riconosciuto per le sue prese di
posizione forti. Con loro ci sono altri cristiani, soprattutto
evangelici d’origine britannica, che lavorano
nel volontariato e nella comunità pubblica.
Gli altri firmatari sono invece i capi o rappresentanti
delle tante chiese e sette protestanti ed
evangeliche provenienti dall’Africa e dai Caraibi,
spesso ignorate dai media liberal. Il problema
della maggioranza dei cristiani africani e caraibici
per i liberal britannici è che sulla maggior parte
delle tematiche sociali e politiche non esprimono
le posizioni politically correct che il pensiero
liberal paternalista vuole attribuire loro in
quanto “poveri oppressi”. Eppure sono proprio i
cristiani africani – in particolare nigeriani – o
quelli di origine pachistana (come l’ex vescovo
Nazir-Ali) che temono l’espansionismo islamico
più dei loro correligionari bianchi, e non si fanno
problemi a esprimere la loro diffidenza.
Il manifesto del gruppo richiama le tesi di molti
dei partiti politici europei di recente fondazione,
o anche la Christian Right in America: grande
attenzione è dedicata all’identità cristiana e occidentale
del Regno Unito, alla conseguente necessità
di difendere i suoi valori sociali e culturali
tradizionali, alla chiusura pressoché totale nei
confronti delle innovazioni sociali libertarie e libertine
volute dal governo laburista negli ultimi
anni. Ci sono alcuni accenni all’ordine pubblico,
una certa diffidenza nei confronti della globalizzazione
e del potere dei mercati e una critica abbastanza
diretta nei confronti della politica del
governo rispetto all’immigrazione, soprattutto di
matrice musulmana.
Assieme alla clausola sull’aborto, sul diritto alla
vita e contro l’eutanasia in qualsiasi forma (“ci
impegniamo a lottare per proteggere qualsiasi vita
umana dal concepimento fino alla sua fine naturale”),
c’è la clausola sulla natura imprescindibile
del matrimonio tradizionale (“ci impegniamo
a sostenere il concetto di matrimonio, l’unione
impegnativa e a vita di un uomo e di una donna.
Crediamo che quest’istituzione fosse voluta da
Dio, e che sia l’unico contesto legittimo per i rapporti
sessuali”), che sembra non soltanto rifiutare
il concetto di “matrimonio omosex” o di “unione
civile” e della poligamia islamica, ma persino
quello del diritto al divorzio. Ci sono anche alcuni
paragrafi che sembrano fuori sintonia con la
maggior parte dei gruppi della destra religiosa
nordamericana: “Ci impegniamo a proteggere (…)
tutte le persone messe in difficoltà o in crisi dal
cambiamento climatico, dalle politiche di commercio
internazionale, dal debito e dall’assistenza
dei paesi in via di sviluppo ingiuste, nonché le
persone disabili, malate, povere, sfruttate, oggetto
del traffico delle persone, che cercano in Gran
Bretagna l’asilo politico”.
Filo conduttore dell’iniziativa è di testimoniare
quanto i cristiani, specialmente quelli tradizionali,
siano diventati una minoranza discriminata,
che rivendica gli stessi diritti dei tanti altri gruppi
che si considerano minoranze, nel chiedere
una par condicio di trattamento. Per il momento,
i partiti mainstream tacciono un po’ imbarazzati:
per tradizione non amano parlare di religione,
ma intanto le due principali figure liberal della
chiesa nazionale si sono espresse. In un elzeviro
sul Guardian di ieri, l’ex vescovo di Oxford, Richard
Harries, riconosciuto per le sue posizioni
progressiste, ha criticato chi vorrebbe paragonare
una certa indifferenza ai valori cristiani dell’establishment
laico con la persecuzione ai cristiani
in certi altri paesi, tacciandoli di “falso martirismo”.
E durante l’omelia pasquale a Canterbury,
l’arcivescovo Rowan Williams ha predicato
contro “coloro che esagerano sulla condizione dei
cristiani in Gran Bretagna, dove possiamo ancora
praticare la nostra fede come vogliamo, un’offesa
a chi non se la può permettere all’estero”.

William Ward

© Copyright Il Foglio 7 aprile 2010

Fumo di Oxford. Chi è il professore che vorrebbe la chiesa cattolica simile a un’associazione culturale rionale

Lo scorso Venerdì Santo una lettera
aperta del Times ha invitato il Papa
a fronteggiare i recenti scandali con un
programma concreto. Il quotidiano
britannico indicava “un piano in tre
punti all’attenzione di Sua Santità”:
riconoscere che i preti pedofili non
sono una minoranza di mele marce ma
un problema “che risale a secoli
addietro e si annida nelle strutture
stesse della chiesa”; porre fine alla
confusione fra le vocazioni al
sacerdozio e al celibato, “una follia
lunga nove secoli”; rinunciare all’idea
che l’ordinazione sacerdotale cambi la
maniera in cui un uomo si rapporta al
suo prossimo, interpretazione che porta
“a rifarsi della frustrazione in giochi di
potere sessuali ai danni di chi è
innocente e vulnerabile”.
I suggerimenti sono stati partoriti da
Diarmaid MacCulloch, professore di
storia del Cristianesimo a Oxford. La
facoltà di teologia non è la più celebre
nell’università ma lui è noto al grande
pubblico per due ragioni frivole: lo
scorso anno ha curato un documentario
a puntate sulla Bbc e ha fornito
ispirazione a Dan Brown per il
protagonista de “Il simbolo perduto”.
Se un professore può specchiarsi senza
vergogna nel personaggio di un thriller
psico-archeo-pseudo-religioso,
un’ombra piuttosto sinistra si allunga
sul suo metodo di ricerca. Altrettanto
rivelatrice è la storia personale di
MacCulloch: figlio di un sacerdote
presbiteriano, ha intrapreso in prima
persona la carriera ecclesiastica salvo
rinunciarvi polemicamente una volta
raggiunto il diaconato. “Da
omosessuale”, ha dichiarato alla Bbc,
“non avevo modo di proseguire oltre;
ma ero determinato a non cedere di un
millimetro riguardo alla mia identità”.
L’insistenza sull’“io” è la chiave di volta
della sua teologia. Nonostante perfino
Machiavelli e Voltaire concordassero
sul fondamentale carattere comunitario
della religione – il termine ha la stessa
radice di “legame” – MacCulloch, da
trentacinque anni membro del Gay
Christian Movement, sembra ritenere
che ogni credo debba anteporre le
istanze individuali al bene della
collettività. In particolare non accetta
che sia dovere del singolo muoversi
verso le regole universali ma che
queste debbano allinearsi a quello che
lui, il singolo MacCulloch, ritiene di
volta in volta cosa buona e giusta. Sarà
per questo che da qualche anno il suo
passatempo preferito è firmare appelli
contro i più impensati e fantasiosi
generi di discriminazione all’interno di
tutti i culti, cristiani e non; esauriti gli
appelli, ha ritenuto opportuno passare
direttamente alle istruzioni per l’uso di
una chiesa alla quale non appartiene.
Da mandato divino a leadership
Se il Papa applicasse i consigli di
MacCulloch, dovrebbe implicitamente
rinnegare duemila anni di storia e
fondare una religione che col
cattolicesimo avrebbe ben poco a che
spartire, non tanto per l’abolizione del
celibato quanto per il senso
completamente diverso che verrebbe
conferito all’istituto del sacerdozio,
ridotto da mandato divino a leadership
di un’associazione rionale. Lo stesso
MacCulloch dichiara apertamente di
essere cristiano “solo nei fondamentali:
l’affermazione della vita, il non-fareagli-
altri-ciò-che-non-vuoi-che-sia-fattoa-
te e il senso di meraviglia di fronte
alla pazza idea, al paradosso di un Dio
che potrebbe essersi fatto uomo”. Che si
tratti di fondamentali piuttosto blandi è
confermato dal suo volumaccio “A
History of Christianity: the first 3.000
years”. Tremila, non duemila: perché
McCulloch rende merito agli influssi
platonici nel cristianesimo facendolo
iniziare intorno al 1000 a.C. Il suo
cristianesimo retrocede Gesù da svolta
nella storia e centro della redenzione a
fortunata coincidenza nello sviluppo di
una profonda teologia intellettuale il
cui culmine, a quanto pare, è il suo
articolo sul Times di venerdì scorso.

Antonio Gurrado

© Copyright Il Foglio 6 aprile 2010

Londra, no al crocifisso in corsia

Per trentun anni Shirley Chaplin, un’infermiera di 54 anni, ha indossato sul posto di lavoro una catenina con una piccola croce al collo. Ma un anno fa i suoi superiori al Royal Devon and Exter Hospital, un ospedale nel sud dell’Inghilterra, le hanno chiesto di rimuoverla. Nello stesso ospedale ai medici e alle infermiere musulmane è permesso di indossare il velo. «Mi hanno detto che un paziente avrebbe potuto strapparmela dal collo e farmi male – ha dichiarato qualche giorno fa l’infermiera – . Che la catenina rappresentava un rischio alla mia salute. La porto da quando ho fatto la Cresima, lavoro in ospedale da oltre trent’anni e nessuno si è mai azzardato a tirarmela dal collo».

Non è una questione di sicurezza, è andata avanti la Chaplin, che appoggiata dal Christian Legal Centre e da un gruppo di vescovi della Chiesa d’Inghilterra, ha ora deciso di portare il suo caso di fronte al tribunale del lavoro di Exeter. «Il problema è che i cristiani sono sempre più discriminati. Non capisco perché io non posso indossare la mia modesta catenina quando nello stesso ospedale diverse infermiere e medici musulmane possono indossare il velo». Che il fattore sicurezza fosse una scusa, la Chaplin lo capì quando alla sua proposta di indossare la croce come spilla e non come catenina, i suoi superiori le rifiutarono ancora una volta il permesso. «A quel punto capii di essere stata messa di fronte a una scelta: il lavoro o la fede. Non esitai».

Non è il primo caso in cui dipendenti cristiani vengono discriminati sul posto di lavoro in Gran Bretagna. Poco più di un anno fa un’impiegata della British Airways, minacciata di licenziamento perché si era rifiutata di separarsi dalla sua catenina con croce, riuscì a vincere una lunga battaglia legale ed è di qualche mese fa la notizia che un’altra infermiera è stata redarguita sul posto di lavoro perché aveva chiesto ai pazienti se poteva pregare per loro. «Stiamo superando ogni limite – scriveva ieri il quotidiano The Daily Mail – . Per paura di offendere le persone di altre fedi stiamo rinnegando la nostra». La Chaplin non ha alcun dubbio di essere stata vittima di discriminazione. «Il crocifisso è un’espressione importantissima della mia fede e della mia devozione a Gesù Cristo. Se lo nascondessi metterei seriamente in dubbio le ragioni per cui lo indosso».

L’infermiera, che è nonna di due bambine, sostiene che dopo essersi rifiutata di sbarazzarsi della catenina i suoi superiori l’hanno spostata di ruolo e relegata a un lavoro di ufficio, lontana dai contatti con i pazienti. Ha confessato che spera di andare in pensione alla fine di quest’anno ma prima di andarsene desidera che l’ospedale cambi il regolamento e permetta ai cristiani di indossare i simboli della loro fede.

La vicenda ha sollevato preoccupazioni in Gran Bretagna al punto che sette vescovi anglicani, tra cui l’ex arcivescovo di Canterbury George Carey, hanno pubblicato una lettera di supporto sui giornali di domenica scorsa in cui hanno scritto che il caso della Chaplin «è un altro esempio di discriminazione contro la nostra fede» e in cui chiedono al governo «più azioni per proteggere i cristiani».

Elisabetta Del Soldato


IL NO AL CROCIFISSO

Segno identitario che unisce un popolo

CARLO CARDIA


U
n altro silenzio della sentenza di Strasburgo contro il crocifisso nelle scuole italiane riguarda il rispetto della tradizione italiana che conosce la presenza del massimo simbolo cristiano dal periodo liberale ad oggi, senza distinzione di regimi o governi, espressione di un sentimento popolare che per primi i padri liberali del risorgimento e dell’unità d’Italia hanno voluto onorare e rispettare. Il dato giuridico è impressionante per la continuità ininterrotta, perché la presenza del Crocifisso è prevista sin dal 1860 con il Regolamento di attuazione della Legge Casati, in piena epoca cavouriana, è confermata dal R.D. 6 febbraio 1908, e poi ribadita con circolari del 1922 e del 1923, che consentono di sostituire il Crocifisso «con un’immagine del Redentore in una espressione significativa che valga a manifestare il medesimo altissimo ideale che è raffigurato nel Crocifisso, per esempio Cristo e i fanciulli». Altri atti o pronunce lo confermano nel 1926, nel 1967, nel 1988 con specifico parere del Consiglio di Stato, nel 2002 dell’Avvocatura dello Stato. L’argomento non è mai stato oggetto di contrattazione con la Chiesa, proprio perché il crocifisso è considerato autonomamente dallo Stato e dalla popolazione simbolo di tradizione bimillenaria, religiosa e culturale. Sono stati anzitutto i politici e pedagogisti liberali a voler essere coerenti con il sentimento popolare, perché questa coerenza era parte integrante del loro liberalismo. Aristide Gabelli, pedagogista positivista, vede nell’educazione religiosa «un fattore di saldatura sociale e nazionale», il mezzo migliore, per «educare cittadini che congiungeranno alla coltura della mente la fermezza dell’animo e la sottomissione al dovere, gente operosa, intraprendente, valida appunto perché convinta e onesta», e ritiene che «le ragioni del bene, più semplici e accessibili al maggior numero, e di gran lunga più efficaci, sono quelle dedotte dal cielo, da una giustizia divina che veglia all’osservanza della sua legge, ossia dalla fede». Per altri pedagogisti occorre adoperarsi perché «il sentimento religioso non scada e non si perda nell’indifferentismo», mentre Marco Minghetti è contro una scuola agnostica e indifferente perché «i padri di famiglia si disvogliano dal mandare i figliuoli loro a una scuola così arida, e destituita di ciò che più agevolmente può insinuarsi in quelle tenere menti, e deporvi i germi dell’onesto vivere e dei più nobili sentimenti». Che Cavour, e i suoi ministri, possano essere abrogati oggi in nome del liberalismo sembra francamente un brutto scherzo da respingere. Non si può dimenticare che la tradizione italiana del crocifisso supera ogni regime politico, attraversa il periodo separatista, trova conferma in epoca concordataria (del 1929 e del 1984), ed è pienamente coerente con la Costituzione perché il simbolo cristiano più alto è in armonia con l’humus culturale della generalità dei cittadini. La sentenza di Strasburgo neanche si è posta il problema di questa tradizione, ed ha finito così col contraddire altre Convenzioni sui diritti umani che riconoscono il diritto alla vita e all’identità spirituale delle nazioni e delle popolazioni. Negando il diritto ad un Paese europeo di disciplinare liberamente questioni che evocano simbolicamente l’intima tradizione religiosa e popolare, la Corte di Strasburgo neanche si è resa conto che nega a questi Paesi addirittura i diritti che la Convenzione quadro, approvata dal Consiglio d’Europa 1995-1998, riconosce alle minoranze nazionali, quando afferma all’articolo 5 che gli Stati europei si impegnano a «promuovere condizioni tali da consentire alle persone che appartengono a minoranze nazionali di conservare e sviluppare la loro cultura e di preservare gli elementi essenziali della loro identità quali la religione, la lingua, le tradizioni ed il patrimonio culturale». E confligge con l’articolo 20 per il quale «le persone appartenenti ad una minoranza nazionale rispettano la legislazione nazionale e i diritti altrui, in particolare quelli delle persone appartenenti alla maggioranza od altre minorità nazionali». Dunque, esistono le identità religiose dei popoli, ed esistono i diritti delle maggioranze che non possono essere inferiori a quelli delle minoranze, e si esprimono anzitutto nel rispetto della tradizione del Paese e dello Stato di riferimento. Si tratta di principi che hanno valore speciale nell’epoca della multiculturalità, quando il mischiarsi delle popolazioni e delle tradizioni religiose e culturali può arricchire il tessuto civile e culturale degli Stati, a patto che nessun Paese sia costretto a spogliarsi della propria identità, soprattutto di quella più bella e santa.


Avvenire 31 marzo 2010

Daddy & Daddy. In Gran Bretagna da ora in poi ci si potrà trovare con due padri sul certificato di nascita

Basta con i legami di sangue, di
Dna e persino uterini. Da ora in
poi i bambini inglesi sul certificato di
nascita potranno avere due padri (se
sono fortunati, uno dei due potrebbe
essere perfino il genitore biologico), e
della madre nemmeno l’ombra. E’
l’atto finale dell’attuazione della nuova
legge nazionale su fecondazione e
dintorni, l’Human Fertilisation and
Embryology Act del 2008, che ribalta
una consuetudine stabilita ai tempi
della regina Vittoria e con una scorciatoia
legale accoglie a braccia aperte
maternità surrogate e famiglie
gay.
Della prima apertura
sul tema avevano beneficiato,
l’anno scorso, le
femmine, single o gay che
fossero: a fianco al loro
nome, al momento della
nascita del bambino, hanno
la possibilità di indicare
una persona qualunque come
secondo genitore. Può
essere la fidanzata o la moglie
della mamma, il migliore
amico gay o un vicino di
casa, purché disponibile a impegnarsi
a sostenere il bambino anche
economicamente, al bisogno. Per
soddisfare il politically correct britannico,
alla legge è stata data qualche altra
aggiustatina. Cancellato il riferimento
al fatto che il benessere del
bambino comprendesse “il bisogno di
avere un padre”, offensivo nei confronti
di madri single e lesbiche, e sostituito
con la necessità di garantire
“supporto genitoriale”.
All’epoca, qualcuno sollevò la questione
della scomparsa del padre, e i
gruppi di pressione della comunità lesbica
risposero che è meglio avere
due mamme (e una Principessa Azzurra
sul certificato di nascita) piuttosto
che un padre ubriaco e violento. Dal 6
aprile prossimo, i maschi non picchiatori
e “impegnati in relazioni stabili”
si prenderanno la loro rivincita tagliando
fuori le femmine, ridotte a
fabbriche temporanee dei loro figli.
Ai padri nel frattempo è stato garantito
il diritto al “congedo per paternità”,
e il beneficio toccherà anche alle famiglie
gay. Un sì imbarazzato, la scorsa
settimana, lo aveva detto pure il
leader dei Tory, David Cameron.
Certo, prima di questa legge c’era
l’adozione, ma era una strada “lunga e
spiacevole”, dicono da Stonewall, storico
gruppo di attivisti per i diritti dei
gay. Ci sono di mezzo assistenti sociali
pignoli, e poi bisogna dimostrare
che un bambino con due padri possa
crescere felice e senza scompensi. Altrimenti
le coppie erano costrette ad
andare all’estero e a tornare con il loro
fagottino, pagato carissimo, per
giunta con il rischio che non venisse
riconosciuto come figlio loro. Non tutti
potevano essere fortunati come Steven
e Ivan, i due aitanti poliziotti che
l’anno scorso sono diventati i primi
padri accoppiati d’Inghilterra. Nel loro
caso, a fornire tutto il necessario (a
partorire, insomma, dopo essere stata
fecondata dal seme di Ivan) fu la sorella
di Steven, Lorna, che figura ancora
sul certificato di nascita del piccolo
William. E che però ha assicurato
di non volersi avvalere dei propri
diritti di madre.

© Copyright Il Foglio 31 marzo 2010

Il codice di Maometto applicato in Gran Bretagna

Autore: Amato, Gianfranco Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it
mercoledì 24 marzo 2010

Hamilton Burns WS, Solicitors & Solicitor Advocates, è il primo studio legale britannico specializzato in diritto islamico.
L’iniziativa è partita dalla Scozia, Glasgow per la precisione, e rappresenta un ulteriore allarmante segnale della crescente diffusione della sharia nel Regno Unito.
Non tutti sanno, infatti, che proprio in virtù di una legge varata quattordici anni fa (Arbitration Act 1996) l’applicazione stragiudiziale della sharia su questioni attinenti al diritto di famiglia (divorzio e custodia dei figli), e su questioni economico-finanziarie, è oggi pienamente riconosciuta in Gran Bretagna. Proprio a seguito di quella legge sono sorti i Muslim Arbitration Tribunal (MAT), le cui decisioni hanno valore legale al pari delle sentenze emesse dai tribunali ordinari di Sua Maestà. Sono attualmente più di un’ottantina (ma continuano ad aumentare in maniera esponenziale) le “corti islamiche” giudicanti su materie che sono, comunque, lasciate alla libera disponibilità delle parti.
Il punto è che a tali arbitrati stanno sempre più ricorrendo anche non musulmani, attratti dall’informalità del relativo procedimento, ritenuto “less cumbersome” (meno gravoso) rispetto al sistema giudiziario britannico. Ad esempio, la sharia tiene conto anche di semplici accordi verbali su questioni per le quali la legge inglese prescrive come obbligatoria la forma scritta.
I non musulmani ricorrono ai Muslim Arbitration Tribunal quasi esclusivamente per questioni di carattere patrimoniale, e i loro contenziosi rappresentano il cinque per cento dei casi affrontati da quei particolari organi giudicanti.
Ciò che appare incredibile in questa vicenda è la sottovalutazione del fenomeno da parte degli addetti ai lavori. Anzi, due anni fa il barone Nicholas Phillips of Worth Matravers, che ricopre la prestigiosa carica di Lord Chief Justice ed è uno dei più autorevoli magistrati inglesi, parlando in una moschea di Londra, non esitò ad affermare che, secondo la sua opinione, alcune parti del sistema legale islamico potevano benissimo essere utilizzate per dirimere questioni tra musulmani britannici. L’illustre giurista non vedeva alcuna ragione al mondo perché i principi della sharia non dovessero essere utilizzati per regolare in via compromissoria contenziosi legali.
In realtà non si è tenuto conto di due fattori niente affatto secondari.
Il primo è che questa forma di giustizia alternativa, capace di attirare sempre più anche individui non musulmani, rientra comunque nella prospettiva di conversione tipica dell’Islam. E’ pur sempre una forma culturale di espansione che riesce oggettivamente ad avere una sua presa, soprattutto in chi oggi – e sono molti purtroppo in Gran Bretagna –, avendo completamente smarrito la propria identità, è perennemente in cerca di un quid che riesca a definirlo. Fosse anche la proposta religiosa di Maometto.
Il secondo fattore sottovalutato è costituito dalla condizione della donna.
Non è un caso che la notizia dell’iniziativa da parte dello studio legale di Glasgow abbia scatenato la reazione di Maryam Namazie, portavoce dell’associazione “One Law for All” (Una legge per tutti) che da anni promuove una campagna anti-sharia. Maryam Namazie ha ribadito, parlando proprio a proposito dello studio Hamilton Burns WS, quanto il diritto islamico sia «antitetico rispetto alle leggi per cui hanno duramente combattuto e vinto i movimenti sociali progressisti, in particolare nell’ambito del diritto di famiglia», precisando, inoltre, che «l’applicazione della sharia in campo civile si pone in perfetta sintonia e continuità culturale rispetto alla stessa legge adottata in campo penale nei Paesi islamici, quella che prevede, tra l’altro, pene corporali come la lapidazione, l’amputazione, la fustigazione».
Sempre a proposito dell’iniziativa degli avvocati scozzesi dello studio Hamilton Burns WS, Joshua Rozenberg, uno dei più noti commentatori britannici in ambito legale ed una delle rare voci che attualmente mettono in guardia l’opinione pubblica sui rischi della diffusione della sharia nel Regno Unito, ha tenuto a precisare: «Per la legge islamica una donna non è considerata uguale all’uomo. Per cui si può arrivare al paradosso che una donna britannica sia trattata diversamente a seconda che a decidere sia un tribunale islamico o una corte laica». «Senza parlare del rischio», ha continuato Rozemberg, «che le donne musulmane possano non essere libere di scegliere ed essere, invece, fortemente condizionate dalla comunità ad adire un Muslim Arbitration Tribunal, anzichè un tribunale ordinario».
La questione mi ha particolarmente colpito. Anche perché ero curioso di conoscere quale tipo di consigli legali lo studio Hamilton Burns WS avrebbe fornito ai clienti islamici in materia di diritto di famiglia. Sono così riuscito a recuperare le norme oggi applicate dai Muslim Tribunal Arbitration, peraltro facilmente accessibili anche online e comunque raccolte in diverse pubblicazioni, tra cui quella di Dennis MacEoin, edita nel febbraio 2009 per conto della londinese Civitas: Institue for the Study of Civil Society. Ne è venuto fuori un interessante florilegio.
Ad esempio, «una donna musulmana non può, in nessuna circostanza, sposare un uomo non musulmano, a meno che questi non si converta all’Islam, e nel caso tale regola venisse violata, alla donna verrebbe sottratta la custodia del figlio, a meno che non risposi un uomo musulmano»; «la moglie non può rifiutare di concedersi sessualmente ogni volta che il marito lo pretenda» (ma non vale il contrario); «una donna non può più convivere col marito se questi dovesse abbandonare l’Islam»; «i non-musulmani possono essere privati dei propri diritti in caso di successione»; «una donna non ha alcun diritto patrimoniale in caso di divorzio»; «la sharia deve comunque prevalere sui giudizi delle corti britanniche»; «i diritti sulla custodia dei minori possono differire da quelli previsti dalla vigente normativa britannica in materia»; «sottoscrivere assicurazioni per i musulmani è proibito, anche se imposto dalla legge statale»; «non esiste alcun obbligo di registrare un matrimonio, nonostante quanto prevedano le leggi britanniche»; «un avvocato mussulmano ha il dovere morale di ignorare una legge del Regno Unito quando questa contrasti con i principi della sharia»; «una donna non può lasciare la propria abitazione senza il consenso del marito» (cosa che, peraltro, potrebbe integrare il reato di sequestro di persona); «l’adozione legale è proibita»; «una donna non può avere la custodia dei propri figli una volta che compiano 7 anni (per i maschi) e 9 anni (per le femmine)»; «una donna non può sposarsi senza la presenza ed il permesso di tutore maschio»; «un figlio illegittimo non può ereditare dalla linea paterna». E così via.
Resta l’amarezza per la situazione sempre più schizofrenica in cui vive la società britannica.
Da una parte vi è una sorta di odioso accanimento discriminatorio nei confronti dei cristiani e dall’altra una pavida accondiscendenza nei confronti della sempre più potente e temuta comunità islamica.
Inimmaginabile sarebbe stata la reazione dell’anticlericale ed iperlaicista Terry Sanderson, presidente della National Secular Society, o dell’ateissima Polly Toynbee, presidente della
British Humanist Association, se si fosse solamente ipotizzata l’idea di creare dei Christian Arbitration Tribunal, nei quali la regola fosse che «un avvocato cristiano ha il dovere morale di ignorare una legge del Regno Unito quando questa contrasti con i principi del diritto naturale». Apriti cielo!
Un’altra grave contraddizione di questa fragilissima società ormai alla deriva, emerge dal fatto che mentre si rasenta il ridicolo nell’esasperata esaltazione del principio di parità tra uomo e donna, si tollera, attraverso un connivente silenzio, il modo con cui vengono trattate le donne nei Muslim Arbitration Tribunal. Proprio nella patria del politically correct.
Solo pochi giorni fa, la House of Commons, su proposta di Harriet Harman – considerata un’icona dei diritti per le donne –, ha approvato con 206 voti favorevoli e 90 contrari, l’abolizione dal vocabolario parlamentare della parola “chairman” (presidente), ritenuta sessista, e la sostituzione con quella più neutra di “chair”. Le femministe hanno esultato per la grande conquista.
Ormai il senso del ridicolo ha ceduto alla malinconia della pateticità. Che tristezza!

Il forte partito antipapista

Roma. “Nobile la lettera del Papa. Prevedibile
la risposta della stampa”. E’ l’accusa
che padre Tim Finigan, blogger cattolico
molto seguito nel mondo anglosassone,
ha scritto dopo aver valutato i commenti
che la stampa laica ha riservato alla
lettera che Benedetto XVI ha inviato alla
chiesa d’Irlanda in merito agli abusi su
minori commessi da preti. I primi a commentare
sono stati Richard Owen e David
Sharrock del Times, i quali in un articolo
uscito sabato (dunque prima di conoscere
la lettera di Ratzinger) hanno detto che
l’accoglienza del testo sarebbe stata negativa.
A loro dire a nulla sarebbero servite
le parole del Papa “dopo una settimana in
cui più volte il primate d’Irlanda, il cardinale
Sean Brady, ha chiesto scusa per aver
coperto coloro che nel clero hanno abusato
di minori”. All’ammissione di colpa di
Brady, secondo Owen e Sharrock, il Papa
non avrebbe potuto aggiungere nulla di significativo.
E’ così? Non secondo il commentatore
di fatti religiosi del Telegraph,
Damian Thompson. Per lui il Times non
ha fatto altro che mostrare come certa
stampa sia “preventivamente anticattolica”:
“Ne vedremo delle belle” dice “quando
il Papa a settembre verrà in Inghilterra”.
Dall’Inghilterra all’Irlanda il leit motiv
è uno. Lo sintetizza bene un titolo di Irish
News: la lettera del Papa è un primo
passo importante che tuttavia “il Vaticano
avrebbe dovuto mettere in campo parecchio
tempo fa”. Anche altri leggono la lettera
cercando di mostrarne luci e ombre.
Per l’Irish Independent il Papa ha fatto un
gesto nobile ma “non si è impegnato in
una reale riforma”. Non sono sufficienti,
insomma, la pubblica condanna, il richiamo
ai tribunali civili, l’indizione di un anno
di preghiera. La lettera non piace al
Belfast Telegraph: “Soltanto una totale e
indipendente inchiesta su quanto avvenuto
sarebbe stata una risposta accettabile”.
Per il Mirror, invece, accettabile sarebbe
stata soltanto una lettera nella quale Benedetto
XVI avesse scritto che “il Vaticano
ha protetto i preti pedofili per 50 anni”.
Mentre nelle dieci cartelle papali “non c’è
niente di tutto questo” dice il Mirror. E’
l’inglese Independent che rilancia una testimonianza:
“Sono stato vittima di abuso.
Questo è ciò che il Papa deve fermare”. Titolo
che sottende un concetto esposto
esplicitamente sul Guardian: “La lettera
del Papa delude le vittime di abusi infantili”.
Una delusione presente anche sui
media francesi: sabato era il sito del Monde
a dire che “di fronte alla pedofilia il
Papa privilegia le risposte spirituali”. In
sostanza, lo stesso concetto esposto dal
New York Times: “Il Papa offre scuse, ma
non sanzioni, per lo scandalo degli abusi
sessuali”. Sebbene il testo papale fosse rivolto
in primo luogo ai cattolici irlandesi,
molti si aspettavano un riferimento esplicito
ai casi tedeschi. E, infatti, il presunto
mancato riferimento tiene banco in Germania.
Tutti domenica riportavano le parole
di Christian Weisner, portavoce del
movimento del dissenso “Wir sind Kirche”
le quali, per l’eco mediatico di cui sempre
godono, sembravano contare di più di
quelle di Benedetto XVI: “Siamo delusi:
così l’autorità del Papa in Germania diminuisce”.
Delusione anche sulla laica FAZ:
“Il Papa tace sui casi di abusi in Germania”.
E sulla Welt di Amburgo: “Vergogna,
rimorso, non una parola sui casi tedeschi”.
A conti fatti non ha tutti i torti un lettore
anonimo di Irish News che domenica ha
scritto in una lettera al direttore quanto
segue: “Nemmeno se il Papa si fosse fatto
crocifiggere a testa in giù sarebbe stato
sufficiente per la stampa”.

© Copyright Il Foglio 23 marzo 2010

IL CASO/ La Gran Bretagna discrimina i cristiani e si affida ai tribunali islamici

da Il Sussidiario

Gianfranco Amato

lunedì 22 marzo 2010

Hamilton Burns WS, Solicitors & Solicitor Advocates, è il primo studio legale britannico specializzato in diritto islamico. L’iniziativa è partita dalla Scozia, Glasgow per la precisione, e rappresenta un ulteriore allarmante segnale della crescente diffusione della sharia nel Regno Unito. Non tutti sanno, infatti, che proprio in virtù di una legge varata quattordici anni fa (Arbitration Act 1996) l’applicazione stragiudiziale della sharia su questioni attinenti al diritto di famiglia (divorzio e custodia dei figli), e su questioni economico-finanziarie, è oggi pienamente riconosciuta in Gran Bretagna.

Proprio a seguito di quella legge sono sorti i Muslim Arbitration Tribunal (MAT), le cui decisioni hanno valore legale al pari delle sentenze emesse dai tribunali ordinari di Sua Maestà. Sono attualmente più di un’ottantina (ma continuano ad aumentare in maniera esponenziale) le “corti islamiche” giudicanti su materie che sono, comunque, lasciate alla libera disponibilità delle parti.

Il punto è che a tali arbitrati stanno sempre più ricorrendo anche non musulmani, attratti dall’informalità del relativo procedimento, ritenuto “less cumbersome” (meno gravoso) rispetto al sistema giudiziario britannico. Ad esempio, la sharia tiene conto anche di semplici accordi verbali su questioni per le quali la legge inglese prescrive come obbligatoria la forma scritta.

I non musulmani ricorrono ai Muslim Arbitration Tribunal quasi esclusivamente per questioni di carattere patrimoniale, e i loro contenziosi rappresentano il cinque per cento dei casi affrontati da quei particolari organi giudicanti. Ciò che appare incredibile in questa vicenda è la sottovalutazione del fenomeno da parte degli addetti ai lavori. Anzi, due anni fa il barone Nicholas Phillips of Worth Matravers, che ricopre la prestigiosa carica di Lord Chief Justice ed è uno dei più autorevoli magistrati inglesi, parlando in una moschea di Londra, non esitò ad affermare che, secondo la sua opinione, alcune parti del sistema legale islamico potevano benissimo essere utilizzate per dirimere questioni tra musulmani britannici.

L’illustre giurista non vedeva alcuna ragione al mondo perché i principi della sharia non dovessero essere utilizzati per regolare in via compromissoria contenziosi legali. In realtà non si è tenuto conto di due fattori niente affatto secondari. Il primo è che questa forma di giustizia alternativa, capace di attirare sempre più anche individui non musulmani, rientra comunque nella prospettiva di conversione tipica dell’Islam.

E’ pur sempre una forma culturale di espansione che riesce oggettivamente ad avere una sua presa, soprattutto in chi oggi – e sono molti purtroppo in Gran Bretagna –, avendo completamente smarrito la propria identità, è perennemente in cerca di un quid che riesca a definirlo. Fosse anche la proposta religiosa di Maometto.

Il secondo fattore sottovalutato è costituito dalla condizione della donna. Non è un caso che la notizia dell’iniziativa da parte dello studio legale di Glasgow abbia scatenato la reazione di Maryam Namazie, portavoce dell’associazione “One Law for All” (Una legge per tutti) che da anni promuove una campagna anti-sharia.

Maryam Namazie ha ribadito, parlando proprio a proposito dello studio Hamilton Burns WS, quanto il diritto islamico sia «antitetico rispetto alle leggi per cui hanno duramente combattuto e vinto i movimenti sociali progressisti, in particolare nell’ambito del diritto di famiglia», precisando, inoltre, che «l’applicazione della sharia in campo civile si pone in perfetta sintonia e continuità culturale rispetto alla stessa legge adottata in campo penale nei Paesi islamici, quella che prevede, tra l’altro, pene corporali come la lapidazione, l’amputazione, la fustigazione».

Sempre a proposito dell’iniziativa degli avvocati scozzesi dello studio Hamilton Burns WS, Joshua Rozenberg, uno dei più noti commentatori britannici in ambito legale ed una delle rare voci che attualmente mettono in guardia l’opinione pubblica sui rischi della diffusione della sharia nel Regno Unito, ha tenuto a precisare: «Per la legge islamica una donna non è considerata uguale all’uomo. Per cui si può arrivare al paradosso che una donna britannica sia trattata diversamente a seconda che a decidere sia un tribunale islamico o una corte laica». «Senza parlare del rischio», ha continuato Rozemberg, «che le donne musulmane possano non essere libere di scegliere ed essere, invece, fortemente condizionate dalla comunità ad adire un Muslim Arbitration Tribunal, anziché un tribunale ordinario». La questione mi ha particolarmente colpito. Anche perché ero curioso di conoscere quale tipo di consigli legali lo studio Hamilton Burns WS avrebbe fornito ai clienti islamici in materia di diritto di famiglia.

Sono così riuscito a recuperare le norme oggi applicate dai Muslim Tribunal Arbitration, peraltro facilmente accessibili anche online e comunque raccolte in diverse pubblicazioni, tra cui quella di Dennis MacEoin, edita nel febbraio 2009 per conto della londinese Civitas: Institue for the Study of Civil Society. Ne è venuto fuori un interessante florilegio.

Ad esempio: «una donna musulmana non può, in nessuna circostanza, sposare un uomo non musulmano, a meno che questi non si converta all’Islam, e nel caso tale regola venisse violata, alla donna verrebbe sottratta la custodia del figlio, a meno che non risposi un uomo musulmano»; «la moglie non può rifiutare di concedersi sessualmente ogni volta che il marito lo pretenda» (ma non vale il contrario); «una donna non può più convivere col marito se questi dovesse abbandonare l’Islam»; «i non-musulmani possono essere privati dei propri diritti in caso di successione»; «una donna non ha alcun diritto patrimoniale in caso di divorzio»; «la sharia deve comunque prevalere sui giudizi delle corti britanniche»; «i diritti sulla custodia dei minori possono differire da quelli previsti dalla vigente normativa britannica in materia»; «sottoscrivere assicurazioni per i musulmani è proibito, anche se imposto dalla legge statale»; «non esiste alcun obbligo di registrare un matrimonio, nonostante quanto prevedano le leggi britanniche»; «un avvocato musulmano ha il dovere morale di ignorare una legge del Regno Unito quando questa contrasti con i principi della sharia»; «una donna non può lasciare la propria abitazione senza il consenso del marito» (cosa che, peraltro, potrebbe integrare il reato di sequestro di persona); «l’adozione legale è proibita»; «una donna non può avere la custodia dei propri figli una volta che compiano 7 anni (per i maschi) e 9 anni (per le femmine)»; «una donna non può sposarsi senza la presenza ed il permesso di tutore maschio»; «un figlio illegittimo non può ereditare dalla linea paterna»; e così via.

Resta l’amarezza per la situazione sempre più schizofrenica in cui vive la società britannica. Da una parte vi è una sorta di odioso accanimento discriminatorio nei confronti dei cristiani e dall’altra una pavida accondiscendenza nei confronti della sempre più potente e temuta comunità islamica. Inimmaginabile sarebbe stata la reazione dell’anticlericale ed iperlaicista Terry Sanderson, presidente della National Secular Society, o dell’ateissima Polly Toynbee, presidente della British Humanist Association, se si fosse solamente ipotizzata l’idea di creare dei Christian Arbitration Tribunal, nei quali la regola fosse che «un avvocato cristiano ha il dovere morale di ignorare una legge del Regno Unito quando questa contrasti con i principi del diritto naturale». Apriti cielo!

Un’altra grave contraddizione di questa fragilissima società ormai alla deriva, emerge dal fatto che mentre si rasenta il ridicolo nell’esasperata esaltazione del principio di parità tra uomo e donna, si tollera, attraverso un connivente silenzio, il modo con cui vengono trattate le donne nei Muslim Arbitration Tribunal. Proprio nella patria del politically correct.

Solo pochi giorni fa, la House of Commons, su proposta di Harriet Harman – considerata un’icona dei diritti per le donne –, ha approvato con 206 voti favorevoli e 90 contrari, l’abolizione dal vocabolario parlamentare della parola “chairman” (presidente), ritenuta sessista, e la sostituzione con quella più neutra di “chair”. Le femministe hanno esultato per la grande conquista. Ormai il senso del ridicolo ha ceduto alla malinconia della pateticità. Che tristezza!

Londra, sentenza a favore di Ong cattolica «Può rifiutare l’adozione a coppie di gay»

di Elisabetta Del Soldato
Tratto da Avvenire del 18 marzo 2010

Una società di ado­zioni cattolica del Regno Unito, Catholic Care, ha vinto ieri una battaglia all’Alta Corte per il diritto di astenersi dal prendere in considerazio­ne coppie gay per l’affida­mento dei minori.

Secondo l’Equality Act, la legge sull’uguaglianza che è stata modificata recente­mente, le agenzie di ado­zione non dovrebbero fare differenza sull’origine ses­suale della coppia. Ma l’im­posizione ha fatto gravare un peso sulle agenzie d’a­dozione cattoliche che ge­stiscono un terzo di tutte le adozioni del Regno.
Alcune di queste Organiz­zazioni non governative, per evitare il dilemma di andare contro i propri principi, hanno minaccia­to di chiudere, altre hanno chiuso. Ma per questa so­cietà di Leeds l’appello al­l’Alta Corte è andato a buon fine e ora potrà con­tinuare la propria attività. Il vescovo di Leeds, Arthur Roche, in un comunicato ufficiale, ha dato ieri il ben­venuto alla decisione del giudice dicendo che Catholic Care lavora nel servizio delle adozioni da oltre cento anni. «Il verdet­to di oggi – ha aggiunto – ci incoraggia ad andare a­vanti e continuare a servi­re i bambini, le famiglie e la comunità».
In passato la Ong aveva considerato seriamente la possibilità di chiudere co­me hanno già fatto altre a­genzie cattoliche della Gran Bretagna. L’appello all’alto tribunale è giunto dopo una battaglia persa dalla Chiesa cattolica con­tro l’introduzione, nella legge, di regole sull’orien­tamento sessuale che ob­bligava le agenzie a consi­derare coppie omosessua­li come genitori adottivi.

Così John Henri Newman “prepara” la visita di Benedetto XVI in Inghilterra

Tratto da Il Sussidiario.net il 13 marzo 2010

Negli ultimi mesi si susseguono in libreria le nuove pubblicazioni dedicate a John Henry Newman.

Le ragioni per interessarsi al grande convertito inglese sono tante: figura di spicco della Chiesa di Inghilterra prima e della Chiesa cattolica poi, scrittore versatile, pensatore profondo e originale, personalità affascinante. Nel luglio dello scorso anno, inoltre, Papa Benedetto XVI ha riconosciuto il carattere miracoloso di una guarigione attribuita all’intercessione di Newman e da allora si aspetta che venga fissata una data per la cerimonia di beatificazione. Un’occasione potrebbe essere il viaggio del Papa in Inghilterra previsto per il prossimo settembre.

Tra le pubblicazioni recenti si segnala un agile volumetto a cura di Luca F. Tuninetti (John Henry Newman: Un cristiano che interroga la modernità, Urbaniana University Press, 2009, 206 pp., 16 euro). Nel capitolo introduttivo il curatore ripercorre la vita di Newman offrendo indicazioni sintetiche sul contenuto delle sue opere principali. Il libro raccoglie poi quattro contributi di alcuni dei migliori specialisti italiani di studi newmaniani che mettono in luce diversi aspetti di questa figura ricca e complessa. Bruno Gallo considera la sua attività apologetica in una nazione influenzata dalla mentalità protestante e il contributo che in questo modo Newman ha dato alla cultura inglese. Luca Obertello si sofferma sul suo pensiero filosofico.

Angelo Campodonico riprende le riflessioni sull’educazione superiore in considerazione della situazione attuale dell’università. Giovanni Velocci esamina le testimonianze dell’interesse che hanno avuto per Newman i diversi Papi, da Leone XIII a Benedetto XVI, mostrando così, da una prospettiva particolare, come il pensatore inglese sia stato fortemente presente nella vita della Chiesa del XX secolo. Nell’insieme il volume dà a chi non conosce Newman l’occasione di avvicinarlo e invoglia probabilmente a conoscerlo meglio anche attraverso la lettura dei suoi scritti. È utile in questo senso la breve bibliografia commentata al termine del volume che aiuta ad orientarsi tra gli scritti dell’autore e gli studi sulla sua persona e sul suo pensiero.

Il titolo del volume allude a una caratteristica del pensiero di Newman che lo rende ancora oggi particolarmente interessante. Forse nessun altro pensatore cristiano si è confrontato altrettanto profondamente con il mondo moderno. Egli ha riconosciuto le opzioni propugnate dalla modernità (individualismo, razionalismo, secolarismo) come inevitabilmente ostili al cristianesimo, ma non si è limitato a respingerle in un modo velleitario. In effetti, Newman aveva troppa fiducia nella capacità della persona di riconoscere la verità per chiudersi in un atteggiamento puramente conservatore. La sua conversione al cattolicesimo è legata del resto alla scoperta che il cristianesimo non è soltanto una dottrina da difendere ma una realtà viva che si mostra come tale sviluppandosi nel tempo. Egli ha visto allora piuttosto il mondo moderno come la condizione in cui il cristiano è chiamato a vivere e proprio per questo ha aperto prospettive che ancora oggi meritano di essere conosciute.